L'esistenza dei due blocchi contrapposti, gli equilibri basati su una stabile dissuasione nucleare e l'interesse comune di Washington e di Mosca di evitare ogni confronto troppo diretto, per il timore di una distruzione reciproca, avevano garantito al mondo quarant'anni di relativa pace. La guerra era divenuta limitata ed era stata respinta alla periferia del mondo industrializzato. Il sistema internazionale era stabile, razionale ed era fondato su regole certe. Negli equilibri internazionali dominava la dimensione militare. Ciascuna superpotenza manteneva l'ordine all'interno del proprio blocco. La competizione economica nell'Occidente era contenuta dal fatto che la sicurezza europea e quella giapponese dipendevano dalla garanzia americana. Il "gioco" strategico fra Stati Uniti e Unione Sovietica era "a somma zero": il guadagno dell'uno significava una perdita per l'altro. Pertanto ogni superpotenza interveniva sistematicamente per reagire ad un'iniziativa dell'altra. Però iniziative e reazioni erano sempre limitate per evitare il rischio di una "escalation" nucleare.
Questa specie di "balletto strategico" fra Mosca e Washington garantiva in modo omeostatico gli equilibri mondiali. Il sistema bipolare quindi era globale, prevedibile e stabile.
Con il crollo dell'impero interno e di quello esterno sovietico il mondo è completamente cambiato. È rimasta solo una superpotenza: gli Stati Uniti. Essi sono però riluttanti a svolgere la funzione di "gendarmi del mondo". Di conseguenza il crollo del mondo bipolare non ha significato ordine e pace, ma disordini, confusioni e conflitti. La guerra che sembrava essere stata allontanata per sempre dall'Europa è tornata ad essere presente nel nostro continente. Il Terzo Mondo è in completo subbuglio. Non conta più nel confronto politico-strategico mondiale. Non può più ricattare l'Occidente e riceverne gli aiuti minacciando di cedere basi militari all'Unione Sovietica. Di fronte al fallimento della decolonizzazione, della democratizzazione e dello sviluppo, le classi dirigenti di molti paesi del Terzo Mondo chiedono di essere poste sotto tutela o mandato internazionale. In altre parole chiedono di essere ricolonizzate. Il "dovere-diritto di ingerenza umanitaria" cerca di dare una risposta a tale esigenza. Ma esistono grossi limiti. L'Occidente non cerca più di conquistare colonie. Anzi le rifiuta. Costano troppo e non possono più rendere. La ricchezza non ha più dimensioni orizzontali come nel passato. Ha assunto le dimensioni verticali della produttività, della conoscenza, del "know-how" tecnologico. Occupare una regione significa doverne mantenere la popolazione e garantire con costi elevatissimi il controllo del territorio.
Le organizzazioni internazionali, in particolare l'ONU, hanno mostrato chiaramente i loro limiti, in Somalia, Bosnia, Ruanda e così via. La conflittualità etnica e nazionale sta scoppiando un po' ovunque. Il numero di conflitti si è moltiplicato. Il principio di autodeterminazione dei popoli sta prevalendo su quello dell'inviolabilità dei confini degli Stati, che aveva costituito una delle basi dell'ordine di Yalta. Il mondo si sta frammentando. Il numero degli Stati sta aumentando. La conservazione di un certo livello di ordine è sempre più difficile.
Si sta intravvedendo l'emergere di un nuovo sistema mondiale. Esso sarà multipolare, con poli regionali integrati raggruppati attorno a potenze leader: gli Stati Uniti, la Germania, la Russia, il Giappone, la Cina e forse l'India. Nell'ambito di ciascun polo è viva la competizione fra i vari Stati per avere una posizione migliore. Basti pensare all'Europa del "nucleo duro" o dei "centri concentrici" o "a velocità o geometria variabili". Ma la competizione maggiore sarà fra i poli e si svolgerà in Stati posti sui confini fra i poli, come la Turchia, ponte fra l'Europa, il Medio Oriente e il sistema caucasico-centrasiatico. La competizione, per ora economica, potrebbe estendersi al campo politico-strategico.
Il mondo è poi divenuto sempre più piccolo. Le reti di comunicazione hanno circondato la terra e annullato le distanze. L'informazione è globale. Il costo delle telecomunicazioni e dei trasporti si è notevolmente ridotto. L'economia si è integrata. La moneta da strumento di scambio si è trasformata in merce. Sulle "autostrade dell'informazione" si svolge un commercio di dimensioni quasi dieci volte superiore all'interscambio di prodotti materiali. Il progresso tecnologico si è accelerato. Il futuro sta divenendo imprevedibile, con un ritmo di evoluzione enormemente superiore a quello passato.
La previsione è divenuta difficilissima. È sostituita dall'"intelligence". Al piano a lungo termine è subentrata la pianificazione strategica, intesa come processo continuo, da adeguare in tempo pressoché reale agli incessanti mutamenti di situazione. Dalla flessibilità organizzativa, cioè di adeguamento, dipende la capacità di rimanere in gioco. In caso contrario, si verrebbe rapidamente spiazzati e emarginati nella nuova divisione internazionale del lavoro. Nulla garantisce più la ricchezza degli Stati. La competizione economica sta divenendo feroce. Non riguarda più solo i mercati, ma anche gli assetti proprietari delle imprese. Si stanno verificando massicce "manovre di portafoglio", che consentono a gruppi finanziari e anche a organismi pubblici stranieri di assumere il controllo di settori rilevanti dell'economia di altri Stati, distruggendo la concorrenza con acquisizioni ostili.
La sicurezza non è più un concetto prevalentemente militare, come nel mondo bipolare. È divenuta multidimensionale e multifunzionale. Si è trasformata in globale. L'interferenza e parziale fungibilità fra i vari settori hanno notevolmente complicato i problemi. L'interpretazione dei dati e delle notizie è divenuta molto più difficile. La conoscenza si è diffusa. È molto più ampia di quella del passato. La comprensione diventa sempre più difficile, anche per il rapido ritmo di evoluzione della situazione. I responsabili dell'intelligence e delle decisioni si confrontano con una vera e propria sfida.
Con la fine del mondo bipolare, l'unificazione della Germania, l'enorme crescita economica del Sud-Est asiatico e il rapido progresso tecnologico tuttora in atto soprattutto nei settori dell'informazione, delle telecomunicazioni e dei trasporti, la competizione fra gli Stati si è spostata dal campo strategico a quello economico.
Il mondo è divenuto più globale e più interdipendente. Occorre approfondire appieno il significato della globalizzazione e dell'interdipendenza, per comprendere le strutture e i meccanismi che caratterizzano il nuovo contesto internazionale. Globalizzazione e interdipendenza non significano che sia emerso il cosiddetto "villaggio globale" di McLuhan o che si stiano realizzando scenari del tipo di quelli previsti da Francis Fukuyama con la sua "Fine della storia", in senso hegeliano del termine beninteso, derivata dalla vittoria "finale" della democrazia e del libero mercato.
La globalizzazione è derivata dal fatto che le frontiere territoriali degli Stati - che con il potere aerospaziale e con i missili avevano perso gran parte della loro rilevanza strategica - hanno perso anche gran parte del loro significato economico, che la ricchezza si è deterritorializzata e dematerializzata, che le regole sulla liberalizzazione del commercio mondiale e la riduzione delle barriere tariffarie e dei vincoli al movimento dei capitali hanno sottratto agli Stati nazionali territoriali gran parte dei loro precedenti poteri di controllo sull'economia, cioè parte della loro sovranità in campo economico.
L'interdipendenza si è accresciuta non solo per l'aumento del commercio mondiale e per l'esistenza di poderose forze transnazionali ed istituzioni multilaterali, ma anche per la maggior facilità con cui, rispetto al passato, le aziende delocalizzano le loro attività nelle zone che offrono loro migliori condizioni.
Il protezionismo, per non parlare dell'autarchia, non hanno più significato. La caduta delle barriere tariffarie e territoriali interagisce con un altro fenomeno: il superamento della "teoria del ciclo-prodotto". Nel passato, i paesi industrializzati erano garantiti del loro monopolio delle produzioni tecnologicamente più avanzate (e a più alto valore aggiunto, base di salari e benessere più elevato). Solo quando le tecnologie divenivano mature, al limite dell'obsolescenza, venivano trasferite ai paesi meno industrializzati che, quindi, non avevano possibilità di competere con i primi.
La "rivoluzione" dell'informazione fa sì, invece, che ora i paesi di nuova industrializzazione (NIC) possano sviluppare prodotti di elevatissimo livello e quindi competitivi qualitativamente con quelli dei paesi più avanzati. Però i paesi NIC, dati i loro costi del lavoro e vincoli socio-ecologici (ad esempio in termini di inquinamento, di sicurezza del lavoro ecc.) estremamente inferiori, stanno erodendo la posizione dei paesi più avanzati, mettendone a rischio il benessere. L'aumento della ricchezza mondiale che consegue allo sviluppo dei paesi NIC e le positive ricadute che ciò ha anche sull'economia dei paesi più industrializzati attenuano, ma non eliminano completamente, tale rischio.
Si sta comunque delineando una nuova divisione internazionale del lavoro, con un processo molto serrato e rapido che impedisce aggiustamenti strutturali progressivi. In tale processo verranno penalizzati i paesi che non saranno capaci di adottare strategie efficaci.
Di un ultimo fenomeno occorre tener conto. Il "ciclo" dei paesi emergenti, che nel passato dipendeva da quello dei paesi più avanzati, è divenuto ora indipendente. Si è determinata una maggiore autonomia nella dinamica della loro crescita. Ciò ne rende più pericolosa la competizione, soprattutto per quanto riguarda l'attrazione di capitali, che può spiazzare i paesi avanzati nelle fasi recessive del ciclo con effetti dannosi sia diretti sia indiretti per l'aumento dei tassi che può frenare la loro successiva ripresa.
La globalizzazione del mondo è contrastata da due fenomeni, che hanno sia cause sia impatti economici di rilievo.
Il primo è rappresentato dalla tendenza alla costituzione di aggregati integrati o blocchi regionali, sia nel senso dei paralleli, tra paesi aventi lo stesso livello di sviluppo (Unione Europea, ASEAN, ecc.), sia nel senso dei meridiani (come nel caso del NAFTA), in cui una regione ricca si associa ad una in via di sviluppo.
Per inciso, questo secondo caso è quello preferito dalle scuole geopolitiche tradizionali delle "panregioni" e, più recentemente, è stato indicato come preferibile anche da Krugman, nella sua polemica con taluni economisti americani che definisce "neo-mercantilisti" e che costituiscono il gruppo dei sostenitori della "competitiveness" stimolata dall'intervento pubblico. Essi ritengono fondamentale accrescere la competitività dell'economia statunitense, per evitare la crisi sociale conseguente alla diminuzione dei salari reali dovuta in gran parte alla concorrenza esercitata dalla manodopera sottopagata dei paesi di nuova industrializzazione (ma che altri, come lo stesso Krugman, attribuiscono alla politica economica adottata dalle Amministrazioni Reagan per il riassorbimento della disoccupazione negli Stati Uniti).
Il secondo è rappresentato dalla tendenza alla frammentazione, al regionalismo e al localismo, in altre parole alla "balcanizzazione", che investe non solo gli Stati multietnici o multinazionali, come l'ex Jugoslavia, l'ex URSS, e in altri contesti l'ex Cecoslovacchia e il Belgio, ma anche gli Stati nazionali più omogenei dell'Europa Occidentale. È una vera e propria "rivolta dei ricchi", che gli Stati sono ben poco attrezzati a fronteggiare, a differenza di quanto avveniva con la "rivolta dei poveri". Infatti, le loro strutture e riferimenti anche simbolici derivano appunto dalla rivoluzione borghese, base dello Stato nazionale moderno in Europa.
La scomparsa delle barriere protezionistiche alle frontiere, la diminuzione delle commesse pubbliche, la globalizzazione dei mercati e la presenza di forze sovranazionali e transnazionali hanno ridotto l'importanza degli Stati per le regioni ricche. Invece, le regioni e gli strati sociali più poveri sono quelli che li sostengono maggiormente, per poter fruire i benefici della solidarietà nazionale, cioè della ridistribuzione della ricchezza attuabile proprio dagli Stati.
La tendenza alla costituzione di aggregati regionali ha conosciuto un notevole impulso dopo la guerra fredda, non solo in Europa, ma anche negli altri continenti (NAFTA, APEC ecc.). Nonostante le regole multilaterali del GATT, tali poli regionali tendono a trasformarsi in blocchi economici contrapposti, in competizione fra di loro, sia perché si percepiscono reciprocamente come una minaccia, sia perché si sentono minacciati dalla concorrenza delle aree periferiche, a minor costo della manodopera. Sotto il profilo geopolitico è interessante notare - come già rilevato - che la tendenza all'integrazione interessi non solo le dimensioni Est-Ovest, ma anche quelle Nord-Sud, come è avvenuto in particolare per il NAFTA. Ciascun polo avanzato tende a espandersi per inglobare una "riserva" di manodopera a basso costo, a cui trasferire le produzioni a più alta intensità di lavoro, in modo da accrescere la propria competitività globale ed espandere progressivamente i propri mercati.
Anche l'Europa non fa eccezione. Il vero Sud dell'Europa è rappresentato dall'Europa Centro-Orientale e dall'ex Unione Sovietica, per le quali infatti l'Unione Europea ha previsto un'apposita banca di sviluppo, indipendentemente sia dalla World Bank che dall'International Monetary Fund. Per inciso, una simile banca ad orientamento regionale è in costituzione anche per i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, ma per iniziativa non tanto europea, quanto americana, a seguito degli esiti della Conferenza di Casablanca sulla cooperazione economica conseguente al processo di pace mediorientale.
L'interesse economico si accoppia a quello politico-strategico. Solo l'integrazione economica consente di trasformare in opportunità il pericolo sia dei bassi salari, e quindi dello spiazzamento delle proprie imprese, sia di massicce immigrazioni.
L'Europa si trova in una condizione difficile: calo demografico, invecchiamento della popolazione e quindi aumento degli oneri sociali; debolezza relativa della base tecnologica e quindi predominio di produzioni a medio valore aggiunto; salari elevati, oneri molto forti sia per i residui del Welfare State sia per il pagamento del debito pubblico.
La politica sinora seguita di privilegiare il presente scaricando gli oneri nelle generazioni future, non è più tollerabile. Il "rientro" in una condizione di equilibrio deve però essere realizzato in un contesto molto difficile. La competizione economica all'interno dei singoli poli regionali, quella tra questi tra di loro e quella tra questi ed i Paesi circostanti è condotta con mezzi diversi da quelli del passato: barriere non tariffarie, controlli tecnologici, competizioni per attirare i capitali, offrendo migliori fattori produttivi e migliori contesti (infrastrutture, servizi ecc.) per una loro utilizzazione ottimale.
In sostanza, la più acuta concorrenza internazionale impone agli Stati di accrescere la loro competitività, pur nell'ambito privilegiato del "polo" o "blocco" economico di cui fanno parte. Tale processo si svolge in un contesto e con meccanismi diversi da quelli del passato, per la caduta del potere protettivo delle frontiere statuali e per la modifica delle dimensioni spazio-temporali dell'economia.
Per studiare i comportamenti degli Stati in tali situazioni e per elaborare tecniche, tattiche, strategie e politiche adeguate si è sviluppata la nuova disciplina della geoeconomia. Tale denominazione è stata riferita anche al complesso organico delle attività degli Stati per l'aumento della competitività del proprio sistema-Paese in campo internazionale.
Ma, come si è già accennato, oltre alla globalizzazione ed ai fenomeni di integrazione macroregionale, sono in atto forze che operano in direzione opposta.
Il regionalismo, i localismi e le rivolte delle regioni ricche contro quelle povere costituiscono una sfida alla stessa sopravvivenza degli Stati nazionali, che peraltro rimangono luogo fondamentale per l'imputazione, anche impositiva, di interessi e politiche, e per l'equilibrio fra libertà e solidarietà. Dalla prima dipende lo sviluppo economico; dalla seconda la coesione sociale.
Lo Stato moderno dell'ottocento e del primo novecento garantiva all'industria una zona economica esclusiva, l'ordine pubblico, la protezione alle frontiere, il sostegno con aiuti diretti e con massicce commesse pubbliche. In cambio (sempre schematicamente e riduttivamente), una parte della ricchezza prodotta dall'industria veniva trasferita alle regioni più povere per il loro sviluppo e ai ceti più deboli per "nazionalizzarli".
Successivamente, dopo il secondo conflitto mondiale, gli Stati nazionali che avevano tendenze mercantiliste ed autarchiche, finalizzate a rafforzarli in vista di conflitti militari, si sono trasformati in "Stati del benessere", in taluni casi anche per resistere all'infiltrazione comunista fra le masse. Con la fine della Guerra Fredda - sempre molto schematicamente - tali motivazioni strategiche sono cadute e, nel contempo, è scoppiata la competizione economica internazionale alla quale si è precedentemente accennato.
La fine del mondo bipolare e delle sue regole e rigidità ha profondamente destrutturato il sistema internazionale non solo con l'emersione di poli regionali, ma anche con indebolimento interno della coesione degli Stati nazionali. Quest'ultimo fenomeno è dovuto, in parte, allo scoppio dei conflitti etnici, ma è influenzato anche dalle nuove strutture dell'economia.
Taluni esperti come il giapponese Kemiki Ohmae, hanno parlato dell'emergere, al posto degli Stati-nazione, di Stati-città o di Stati-regioni, che costituirebbero arcipelaghi di ricchezza in un oceano se non di povertà, quanto meno marginalizzato rispetto ai centri decisionali. È uno scenario di balcanizzazione economica, che sta originando strutture politico-economiche simili a quelle esistenti nel Medioevo, con "sacri romani imperi" (del tipo GATT), che esercitano un'azione generale di coordinamento per evitare l'anarchia totale del sistema, ma con centri locali di potere e di decisione.
Tale scenario creerebbe un'organizzazione "centro-periferia", particolarmente dannosa per l'Italia in relazione alla sua struttura economica e alle sue differenziazioni territoriali.
La parte meridionale del territorio nazionale verrebbe inevitabilmente separata dal nocciolo duro dell'Europa e relegata ad un ruolo di giardino turistico o peggio ancora di zona cuscinetto in confronto alle "minacce" del Sud. Le regioni del Nord competerebbero per il loro sviluppo con le zone più forti dell'Europa, divenendo di fatto parte della Mitteleuropa ed orientandosi sempre più alla creazione di zone d'influenza e penetrazione economica ad Est.
Solo la capacità degli Stati di sostenere l'espansione della ricchezza può rilegittimarli sostanzialmente di fronte alle regioni e ai ceti più ricchi, giustificando i sacrifici loro imposti in nome della solidarietà nazionale.
In questo senso un ripensamento del ruolo degli Stati nell'attuale situazione costituisce premessa per evitare la disgregazione e la balcanizzazione del sistema internazionale. È quanto si propone di fare la geoeconomia.
Il termine geoeconomia è stato introdotto alla fine degli anni ottanta da Edward Luttwak per designare la disciplina che studia le politiche e le strategie da adottare per accrescere la competitività degli Stati, che rimangono elementi fondamentali del sistema internazionale nelle nuove condizioni mondiali. La forza militare ha perduto la sua tradizionale funzione di regolatrice della gerarchia degli Stati, quindi di strumento privilegiato della geopolitica. Ha, dopo la fine del mondo bipolare, una funzione solo residuale, mentre il ruolo di parametro regolatore principale dell'ordine internazionale è stato assunto dall'economia.
Per la geoeconomia, lo Stato va concepito come "sistema Paese" in competizione con gli altri sistemi, in un teatro globale che non è anarchico, ma è caratterizzato anche dall'esistenza di regole non solo oggettive, cioè derivate dai meccanismi propri dell'economia, ma anche soggettive o pattizie, derivanti da accordi multilaterali sulla libertà dei traffici e dei commerci, che non si possono violare impunemente, senza cioè provocare la ritorsione o rappresaglia degli altri Stati che operano nel sistema.
La geoeconomia si distingue dall'economia politica perché non considera solo i tradizionali strumenti di quest'ultima (politiche monetarie, fiscali-previdenziali e dei redditi-mercato del lavoro), ma anche altri strumenti che possono essere raggruppati in due categorie.
La prima si potrebbe denominare "colbertismo hi-tech" e mira ad accrescere la competitività interna del sistema Paese con provvedimenti di natura sia strutturale (meccanismi istituzionali e di intelligence per la competizione geoeconomica, servizi, infrastrutture, ricerca scientifica e tecnologica, misure per attirare investimenti utilizzando, ad esempio, incentivazioni fiscali), sia relativa alla capitalizzazione sull'elemento umano, per adeguarlo alle nuove condizioni del mercato, con l'obiettivo di garantire alla propria popolazione impieghi a più alto valore aggiunto e quindi meglio remunerati. Ciò è essenziale per garantire il benessere, che non può essere difeso da protezioni alle frontiere.
La seconda si riferisce alla "guerra" geoeconomica in senso stretto, cioè allo sfruttamento delle "nicchie" di libertà d'azione permesse dalla regolamentazione globale del mercato procedendo ad una violazione sostanziale ancorché non formale (ad esempio con barriere non tariffarie, con sostegno formalmente ancorché non sostanzialmente legittimo alle proprie esportazioni, con il controllo delle tecnologie, con aiuti finalizzati formalmente allo sviluppo ma nella realtà all'espansione e alla protezione della propria economia, con l'utilizzazione impropria dei meccanismi di gestione internazionale degli embarghi strategici antiproliferazione, per determinare vantaggi per le proprie imprese ecc.).
La geoeconomia non si rappresenta in una nuova forma di protezionismo o di mercantismo, se non altro per una differenza fondamentale. Essi consistevano in misure soprattutto difensive, protettive, esercitate alle frontiere degli Stati territoriali. Le nuove condizioni del contesto e soprattutto la porosità delle frontiere economiche non consentono strategie difensive, in particolare non permettono più difese statiche. Obbligano invece all'offensiva.
L'attuale competizione economica mondiale è impregnata da un "culto dell'offensiva", simile a quello che informava le concezioni strategiche europee prima dello scoppio del primo conflitto mondiale.
Evidentemente offensiva e difensiva non possono essere mai separate, ma costituiscono componenti necessarie, almeno concettualmente, di qualsiasi strategia geoeconomica complessiva. La protezione contro acquisizioni ostili - che possono trasformare in dipendenza l'interdipendenza - quella del segreto industriale e della propria base tecnologica contro azioni di spionaggio industriale ed acquisizioni ostili ne costituiscono aspetti.
Ma l'orientamento strategico generale è caratterizzato dall'offensiva, poiché non vi è alternativa fra espansione e recessione.
In tale contesto è mutato completamente, e addirittura si è rovesciato, il significato di guerra economica.
Nel passato, con il mercantilismo o il bullionismo o in tempi più recenti con gli embarghi politici e strategici del tipo di quelli utilizzati dall'occidente nei confronti del blocco sovietico, "l'arma economica" era utilizzata con funzione ausiliaria e di supporto all'azione politica e strategica (anche se quest'ultima a sua volta era spesso utilizzata per finalità economiche, come per la conquista di colonie, di materie prime ecc.).
Ora invece si sta delineando, almeno nella competizione fra gli Stati industrializzati, l'utilizzazione di strumenti politico-strategici (stabilizzazione, destabilizzazione, interventi per la riduzione del rischio politico degli investimenti nella propria area di interesse, ecc.) in modo subordinato, funzionale e anche direttamente strumentale all'implementazione di strategie di tipo geoeconomico.
In tale contesto, stanno avendo luogo modificazioni di rilievo anche nel diritto internazionale, con la comparsa del cosiddetto diritto-dovere di ingerenza per scopi umanitari, che costituisce un'attenuazione della sovranità formale degli Stati prevista dalla Carta delle Nazioni Unite.
L'intero sistema internazionale preposto al mantenimento della pace e della sicurezza nel mondo sembra adattarsi progressivamente alle esigenze della geoeconomia. Lo si è visto in occasione della guerra del Golfo. Emerge sempre più chiaramente negli interventi di stabilizzazione, che sono decisi dagli Stati in funzione dei loro interessi contingenti. Le differenze e le divergenze che si stanno verificando nella ex Jugoslavia fra gli stessi Stati europei possono essere lette anche attraverso una chiave d'interpretazione geoeconomica. L'interesse o meno ad un intervento deriva da una valutazione politica che ingloba anche la presa in considerazione di fattori geoeconomici. Alcuni Stati, come la Germania e soprattutto il Giappone, possono considerarsi Stati geoeconomici, il cui principale strumento di potenza e di azione sulla scena internazionale è rappresentato dall'economia, anziché dalla forza militare.
Gli strumenti propri della geoeconomia sono di un duplice ordine, corrispondenti alla duplice natura della geoeconomia che si è prima illustrata: "colbertismo hi-tech" da un lato; operazioni di "guerra geoeconomica" dall'altro.
Il "colbertismo hi-tech" è concettualmente simile a quello che in campo militare si denomina "preparazione della nazione per la guerra", nel duplice significato di approntamento delle Forze Armate e di organizzazione della mobilitazione da attuare in caso di emergenza.
La logica è simile. Si tratta di determinare le condizioni per accrescere la potenza (competitività) del sistema-Paese, in modo che l'intero sistema economico - a struttura decisionale diffusa e i cui attori sono solo marginalmente indirizzabili e tanto meno controllabili dallo Stato - possa trarne vantaggi. Per quanto riguarda i soggetti geoeconomici non controllati e influenzabili solo marginalmente, in particolare le forze transnazionali (imprese multinazionali, finanza, criminalità organizzata, ecc.) gli Stati devono tener conto delle loro logiche e dei loro meccanismi interni, che costituiscono non solo condizionamenti alla loro azione e rischi per qualunque decisione assunta, ma anche opportunità che debbono essere sfruttate a proprio vantaggio.
La logica della competizione geoeconomica dovrebbe favorire il sorgere di "campioni geoeconomici nazionali" e una "internazionalizzazione" delle proprie imprese da un lato coerente con il mantenimento del circuito autoriproduttivo della ricchezza nazionale e dall'altro lato volta ad evitare che gli investimenti stranieri si traducano in dipendenza dall'estero (attualmente esiste per l'Italia uno squilibrio in corso di accrescimento con le privatizzazioni: le imprese italiane vengono acquistate, ma non riescono ad acquistare il controllo di imprese straniere).
La logica della competizione geoeconomica internazionale sembra determinata dalla teoria che postula l'esistenza del "cuore oligopolistico mondiale", per la quale le dimensioni delle banche e delle imprese giocano un ruolo rilevante, se non essenziale. Le dimensioni permettono strategie di lungo periodo, impossibili invece per le imprese di piccole dimensioni.
Gli strumenti per condurre operazioni di guerra geoeconomica sono sia decisionali che informativi.
Nel primo settore acquista particolare rilievo la costituzione, già avvenuta in molti Stati, di organismi interministeriali, che potrebbero essere denominati "consigli nazionali di sicurezza geoeconomica", responsabili almeno indirettamente del coordinamento generale del "colbertismo hi-tech" e, in via diretta, dell'impostazione della condotta di operazioni di guerra geoeconomica, quali quelle relative all'adozione di barriere non tariffarie - di ritorsione o d'iniziativa - alla "policy" da seguire nei negoziati internazionali, ad esempio in tema di controllo delle tecnologie critiche, e così via.
È evidente in tale contesto l'importanza dell'intelligence. Dopo la fine della guerra fredda i servizi di informazione e di sicurezza hanno esteso in modo notevole le proprie competenze nei settori finanziario, economico e tecnologico. Ha influito anche l'impatto crescente della criminalità organizzata, che dispone di enormi risorse finanziarie. La "pulizia" del denaro sporco e gli investimenti massicci effettuati in taluni settori produttivi sono divenuti una vera e propria minaccia, che interessa tutti.
Ma tale incremento d'importanza è connesso in primo luogo con la competizione geoeconomica fra gli Stati, con la globalizzazione dei mercati e della produzione e con il fatto che alla competizione tradizionale per la conquista dei mercati si è aggiunta la internazionalizzazione della proprietà, che modifica in continuazione gli assetti proprietari dei gruppi e la localizzazione delle imprese produttrici. Mentre nel passato l'obiettivo delle imprese era il mercato, ora lo è anche la manovra di portafoglio. Ciò provoca una notevole dinamicità degli assetti proprietari e quindi una potenziale instabilità anche nella divisione del lavoro. Sono possibili acquisizioni ostili, manovre finanziarie destabilizzanti, lo svuotamento con lo spionaggio industriale del patrimonio tecnologico delle imprese nazionali, e così via. In questo senso la geoeconomia ha assunto un ruolo più importante della geostrategia nella nuova geopolitica mondiale. Gli Stati devono attrezzarsi per la competizione geoeconomica come lo erano per quella geostrategica. Tutti gli Stati industrializzati lo stanno facendo. Lo deve fare anche l'Italia.
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