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GNOSIS 4/2006
L'Islam moderato in difesa della libertà

Manifesti musulmani contro il terrorismo


Valentina COLOMBO

Il fenomeno del terrorismo islamico e la crescente diffusione del radicalismo religioso nei paesi musulmani devono essere contrastati nella maniera più adeguata individuandone gli effettivi "colpevoli". L'unica strategia che possa portare a buon fine la lotta al terrorismo è quella che implica una reale condanna del terrorismo in tutte le sua manifestazioni. Le dichiarazioni di disapprovazione dell'atto terroristico in se stesso da parte di alcuni leader o religiosi islamici non bastano a definire questi ultimi quali nostri alleati. Come meglio spiegato nell'articolo, infatti, gli stessi ulema che hanno condannato l'attacco alle Torri all'indomani dell'11 Settembre sono stati in seguito autori e promulgatori di fatwa, più o meno cifrate, sia contro i contingenti militari ed i civili occidentali in Iraq, sia contro qualsiasi musulmano liberale che si sia permesso di criticare le interpretazioni estremiste del Corano. I giureconsulti islamici spesso, tramite le opinioni giuridiche emesse, istigano al terrorismo e legittimano gli attacchi suicidi sotto il vessillo dell'Islam. Da qui la necessità di individuare e distinguere, una volta per tutte, le vere condanne al terrorismo provenienti da gruppi di musulmani liberali da quelle invece opportunistiche di alcuni noti religiosi islamici.


foto ansa

A partire dall’11 settembre 2001 si sono susseguiti in Occidente e in Oriente infiniti comunicati volti a condannare il terrorismo. Altrettanti sono stati i dibattiti e le discussioni sul significato, in generale, del termine “terrorismo” e, in particolare, dell’espressione “terrorismo islamico”, rasentando, talvolta, l’assurdo.
Basti pensare al documento presentato alcuni mesi fa da Gijs de Vries, delegato anti-terrorismo della Commissione europea, in cui si invitano i governi dell’Unione a sostituire ovunque l’espressione “terrorismo islamico” con “terrorismo che invoca abusivamente il nome dell’Islam”, e a cancellare l’uso dei termini “jihad”, “islamista” e “fondamentalista islamico”. Dimenticando che questi termini vengono quotidianamente usati nel mondo arabo e musulmano da chi condanna, senza se e senza ma, l’estremismo e il radicalismo islamico. Dimenticando che, se esiste un lessico che deve essere riformulato, bisogna partire fondamentalmente e principalmente dalla prima parte dell’espressione, dal termine “terrorismo” e dalle parole appartenenti allo stesso campo semantico.
Se si viene all’attualità e alla realtà che concerne il mondo islamico si assiste alla presenza di diversi tipi di terrorismo. Il primo fra tutti è quello più evidente che possiamo definire il terrorismo jihadista, che trova nella “Dichiarazione del fronte islamico mondiale per la Guerra santa contro ebrei e crociati”, del 23 febbraio 1998, e il cui primo firmatario è Osama bin Laden, il documento fondante.
Qui si legge: “Uccidere gli americani e i loro alleati, siano essi civili o militari, è un dovere che si impone ad ogni musulmano che sia in grado, in qualsiasi paese in cui si troverà, e questo fino al momento in cui saranno liberate dal loro influsso la moschea di al-Aqsa e la grande moschea della Mecca, e fino a che i loro eserciti non saranno fuori da ogni territorio musulmano, con le mani paralizzate, le ali spezzate, incapaci di minacciare un solo musulmano, conformemente al Suo ordine (sia lodato!): “Ma gli idolatri combatteteli totalmente come essi vi combattono totalmente, e sappiate che Iddio è con quei che Lo temono”. E ancora: “Chiamiamo, se Dio lo permette, ogni musulmano credente e desideroso di essere ricompensato da Lui a ottemperare all’ordine di Dio e ad uccidere gli americani e saccheggiare i loro beni, ovunque si trovino e in ogni momento. Chiamiamo gli ulema musulmani, i loro capi, i loro giovani e i loro soldati ad attaccare i dannati soldati americani così come i loro alleati, tizzoni d’inferno, e a disperderli; allora forse si ricorderanno.” (1)
Si tratta di una esplicita dichiarazione di guerra alle cui conseguenze abbiamo assistito e continuiamo ad assistere. Una dichiarazione di guerra che con il tempo si è estesa anche ai musulmani e agli stati islamici, accusati di tradimento e di apostasia.
Nel Vocabolario della lingua italiana Treccani alla voce “terrorismo” si legge: “Azione e metodo di lotta politica (per difendere o più spesso per sovvertire o destabilizzare una struttura di potere) che, per imporsi, fa uso di atti di estrema violenza, come attentati e sabotaggi, dirottamenti, rapine, sequestri e assassini o ferimenti, guerriglia urbana contro le forze dell’ordine ma soprattutto nei confronti di persone innocenti, allo scopo di suscitare il panico e la reazione emotiva della popolazione”.
Una definizione chiara e ineccepibile. Così come è chiaro e ineccepibile il messaggio che si evince dal logo dei Fratelli musulmani, rappresentato da un Corano racchiuso da due spade incrociate con le punte rivolte verso l’alto, con in basso la scritta: ”Preparate” che corrisponde all’incipit del versetto coranico: «E preparate contro di loro forze e cavalli quanto potete, per terrorizzare il nemico di Dio e vostro, e altri ancora, che voi non conoscete ma Dio conosce, e qualsiasi cosa avrete speso sulla via di Dio vi sarà ripagata e non vi sarà fatto torto» (Corano VIII, 60) (2) .
Diffondere le proprie idee per giungere alla conquista del potere corrisponde a terrorizzare il nemico, ricorrendo a qualsiasi mezzo, non da ultimo la dissimulazione (in arabo taqiyya).
I manifesti contro il terrorismo offrono una conferma a quanto appena affermato. In risposta agli attentati sono stati pubblicati comunicati di ogni genere nel tentativo di sedare le acque. Il 14 settembre 2001, ad esempio, in un comunicato pubblicato sul quotidiano arabo al-quds al-‘arabi si leggeva: “I sottoscritti, responsabili delle comunità islamiche, firmatari del presente comunicato, sono preoccupati dagli eventi di giovedì 11 settembre negli Stati Uniti d’America, che hanno ucciso, distrutto e attaccato civili innocenti.


foto ansa

Esprimiamo il nostro cordoglio e il nostro rammarico. Condanniamo con forza e determinazione questi eventi che contrastano ogni precetto umano e islamico, derivante dall’Islam che vieta di colpire gli innocenti” (3) . Parole che, qualora decontestualizzate, lette con il nostro codice occidentale e soprattutto senza soffermarsi sul pensiero e l’appartenenza ideologica dei firmatari, potrebbero sembrare soddisfacenti e rassicuranti. Sfortunatamente quando si tratta di condanna al terrorismo non ci si può limitare alla superficie, anzi ci si deve calare nelle parole.
Nel documento appena citato non compare mai la parola terrorismo che viene sostituita dalla generica condanna per l’uccisione di innocenti. Inoltre per potere interpretare correttamente il messaggio è necessario prestare estrema attenzione all’identità dei firmatari. Ai primi posti figurano: Mustafa Mashhur, ai tempi guida dei Fratelli musulmani in Egitto; Yusuf al-Qaradawi, lo shaikh della televisione satellitare araba Al Jazeera e attualmente presidente del Consiglio europeo per la fatwa e la ricerca con sede a Dublino; Husein Ahmad, emiro della Gamaat al-islamiyya in Pakistan; lo shaikh Ahmed Yassin, fondatore di Hamas e, ultimo ma non meno significativo, Rashid al-Ghannushi, capo del movimento tunisino al-Nahda, attualmente in esilio in Gran Bretagna. Sono tutti rappresentanti dell’ala estremista dell’Islam, legati al movimento dei Fratelli musulmani, detentori di una concezione ben precisa e limitata sia del termine “terrorismo”, che frequentemente definiscono “resistenza”, sia dell’espressione “vittime innocenti”.
Il 27 settembre 2001 Yusuf al-Qaradawi si premura di emettere un’ennesima fatwa, un responso giuridico islamico, in cui si dichiara: “Tutti i musulmani dovrebbero unirsi contro coloro che terrorizzano le persone che sono in pace e che spargono il sangue di coloro che non sono in guerra senza un motivo previsto dalla legge islamica”. (4)
Anche in questo caso è necessario domandarsi quali siano i motivi previsti dalla legge islamica.
La risposta è fornita da al-Qaradawi stesso nel mese di settembre 2004 durante un convegno del sindacato della stampa egiziano al Cairo durante il quale ha emesso il proprio giudizio sullo statuto dei civili americani in Iraq: “tutti gli americani presenti in Iraq sono combattenti quindi è un dovere religioso combatterli sino a quando non lasceranno la nazione”. Non solo ma lo shaikh ha tenuto a specificare che “non esiste differenza alcuna tra personale militare statunitense e civili in Iraq perché entrambi hanno invaso la nazione […] e i civili si trovano in luogo per servire le forze occupanti” (5) . Quindi personale militare e civili americani in Iraq non rientrano nella definizione di “vittime innocenti”.
Lo stesso ragionamento viene avanzato quando si tratta di condannare gli attacchi suicidi in Israele. L’8 luglio 2004, intervistato dalla Bbc, al-Qaradawi affermava: “Non si tratta di suicidio, si tratta di martirio nel nome di Dio, i teologi e i giurisperiti islamici hanno discusso la questione. Considerandola una forma di jihad. […] Le donne israeliane non sono come le donne nella nostra società perché le donne israeliane sono militarizzate. Inoltre, ritengo questo tipo di operazione di martirio un’indicazione della giustizia di Dio Onnipotente. Iddio è giusto. Attraverso la sua infinita giustizia ha dato al debole quello che i potenti non possiedono, ovvero la capacità di trasformare i loro corpi in bombe come fanno i palestinesi”. (6)
Ne consegue che le condanne del terrorismo da parte di personaggi come al-Qaradawi e dei suoi seguaci, rappresentati in Italia dall’Ucoii (Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia) sono condanne apparenti e pericolose, condanne che giocano con le parole, riuscendo talvolta a presentarsi come “moderate”.


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Di ben altro valore e interesse sono i testi redatti, sotto forma di articoli o di manifesti, da singoli o da gruppi di arabi e musulmani liberali. Uno dei manifesti più espliciti è quello pubblicato il 2 settembre 2004 sul Corriere della Sera, sottoscritto da alcuni rappresentanti dell’Islam italiano: “Noi musulmane e musulmani d’Italia siamo schierati in modo totale, assoluto e compatto contro il terrorismo di quanti strumentalizzando un’interpretazione estremistica e deviata dell’Islam e facendo leva sul fanatismo ideologico hanno scatenato una guerra aggressiva del terrore contro il mondo intero e la comune civiltà dell’uomo.
Nel terzo anniversario della tragedia che ha insanguinato gli Stati Uniti d’America, globalizzata del terrorismo che infierisce in modo indiscriminato contro tutti coloro che sono stati condannati come nemici di una folle «guerra santa», siano essi americani, europei o arabi, oppure ebrei, cristiani, musulmani e di altre religioni.
Noi musulmane e musulmani d’Italia affermiamo in modo forte, inequivocabile e deciso la nostra fede nel valore della sacralità della vita di tutti gli esseri umani indipendentemente dalla nazionalità e dal credo. Per noi la sacralità della vita è il principio discriminante tra la comune civiltà dell’uomo e le barbarie di quanti predicano e perseguono la cultura della morte. Siamo consapevoli che la sacralità della vita o vale per tutti o, qualora venisse violata, si ritorce contro tutti. Solo l’abbraccio comune alla cultura della vita consente la salvezza, la pace e il benessere dell’umanità”.
Il concetto attorno cui ruota l’intero manifesto è la sacralità della vita di tutti, senza eccezioni. Si ribadisce il fatto che non bisogna attendere di conoscere l’identità della vittima per stabilire se si tratta di terrorismo o meno.
Non si tratta di un’affermazione casuale, poiché fino a quando il terrorismo non ha colpito il mondo musulmano in maniera diretta, con attentati dal Marocco all’Arabia Saudita, in quell’area solitamente si ricorreva ad espressioni quali “martirio” se si trattava di Israele, oppure “attentati suicidi”, “resistenza” ancora “cosiddetto terrorismo”, espressione quest’ultima ancora usata dai giornalisti di Al Jazeera. Al pari dei comunicati degli affiliati ai Fratelli musulmani.
Il paragrafo conclusivo del Manifesto ribadisce che solo la condivisione della cultura della vita e della libertà potrà liberare il mondo occidentale e il mondo musulmano dal terrorismo: “Noi musulmane e musulmani d’Italia ci sentiamo profondamente partecipi all’impegno internazionale volto a contrastare la guerra del terrore che ha avuto proprio nell’11 settembre 2001 il suo momento di maggior impatto umano, mediatico e politico.
Aspiriamo a un mondo migliore dove tutti i popoli, compresi i musulmani, possano vivere nella libertà, nella giustizia e nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. A tale fine auspichiamo l’avvento di una nuova etica nelle relazioni internazionali che favorisca l’emancipazione dei popoli dal sottosviluppo e dall’oscurantismo, nonché la formazione di governi autenticamente rappresentativi e democratici.
Siamo consapevoli che la globalizzazione dello sviluppo, del diritto, della pace, della libertà e della democrazia costituisce la migliore garanzia affinché questi valori possano essere tutelati in ogni angolo della terra, attraverso il dialogo e il reciproco rispetto”.


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L’importanza della libertà è il perno attorno cui ruota ilManifesto delle libertà, pubblicato a Parigi il 16 febbraio 2004 da un gruppo di “donne e uomini portatori dei valori della laicità e della condivisione in un mondo comune”, uniti “in modo diverso all’Islam”, che “avendo preso atto delle gravi crisi che lo attraversano” hanno deciso di mobilitarsi “per creare le condizioni politiche e intellettuali di una cultura della libertà” (7) . In questo documento, che ha in Fethi Benslama, docente di psicopatologia all’Università di Paris 7, il principale artefice, non compare mai la parola terrorismo, ma a differenza del comunicato pubblicato su al-Quds nel settembre 2001, è evidente che qui si riconosce nella mancanza di libertà, nel mancato rispetto della libertà, la principale causa del terrorismo stesso: “Il nostro scopo è quello di favorire l’espressione di forze di resistenza, per combattere ovunque l’islamismo totalitario e gli stati dispotici che, congiuntamente, opprimono le donne e gli uomini del mondo musulmano.
Il corollario è convincere i governi democratici a rinunciare alla strategia del doppio linguaggio e della democrazia aggiornata.
Il loro impegno reale per la pace nelle zone di conflitto e di violenza politica è la condizione della loro credibilità. La nostra azione, a vocazione transnazionale, mira a sviluppare e a sostenere le esperienze della libertà in tutti i campi del pensiero, delle arti e del sapere.
Noi donne e uomini di cultura musulmana - credenti, agnostici o atei - denunciamo con la massima energia le dichiarazioni e atti di misoginia, d’omofobia e di antisemitismo, rivendicati in nome dell’Islam, di cui siamo i testimoni da qualche tempo, qui in Francia.
Si verifica in tali casi una trilogia caratteristica dell’islamismo politico che è attivo da tempo in alcuni dei nostri paesi d’origine e contro il quale abbiamo lottato e siamo sempre decisi a lottare”.
Concetti che vengono ribaditi e approfonditi da Fethi Benslama nel suo pamphlet Déclaration d’insoumission à l’usage des musulmans et de ceux qui ne le sont pas (8) in cui afferma: “’In nome dell’Islam’: questa è oggi la macabra invocazione, la folle litania che si conferisce il potere assoluto di distruggere. Non risparmia né la vita umana, né le istituzioni, né i testi, né l’arte, né la parola. Quando la forza del nome procura così tante devastazioni, non possiamo considerare quel che accade con un incidente. […] Ma ciò che dobbiamo innanzitutto domandarci è come si è potuta creare la fessura che ha fatto penetrare nell’Islam una tale volontà disperata di distruggere e di autodistruggersi.
Quel che noi dobbiamo pensare e ottenere, è una liberazione, totale, dai germi che hanno prodotto questa devastazione. Un dovere di non sottomissione all’interno di noi stessi e nei confronti delle forme di servilismo che hanno condotto a questa crisi. Così come l’Europa non è una questione riservata agli europei, così l’Islam non è una questione riservata ai musulmani” (9) .
Esiste un nesso molto stretto tra condanna del terrorismo e difesa della libertà, intesa in senso onnicomprensivo dalla libertà di culto alla libertà d’espressione, dalla libertà di stampa alla libertà della persona. Chi difende la libertà a tutto tondo non può che condannare il terrorismo senza se e senza ma. In questo contesto si situa l’attività di un gruppo sempre più folto di intellettuali arabi cosiddetti neo-liberali che riconoscono nel giordano Shakir al-Nabulsi il proprio capofila. Il 22 giugno 2004 quest’ultimo ha pubblicato sul sito liberale Middle East Transparent un manifesto, in 25 punti, dei neo-liberali (10) .
Nel preambolo al-Nabulsi pone il movimento dei neo-liberali sulla scia dei grandi riformisti arabi e musulmani della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, per i quali i principi fondamentali e irrinunciabili dovevano essere: l’assoluta libertà di pensiero, l’assoluta libertà di culto, la libertà della donna e parità di diritti e doveri per uomini e donne, il pluralismo politico, la riforma religiosa, la riforma della politica e dell’istruzione, la separazione tra stato e religione, la transizione alla democrazia. I liberali del XXI secolo, pur proseguendo l’operato dei loro predecessori, pongono in primo piano la lotta al terrorismo.


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Ai primi due punti del Manifesto di al-Nabulsi compaiono “la necessità della riforma dell’educazione religiosa oscurantista, ad opera dei signori del terrorismo religioso” e “l’esigenza di combattere il terrorismo religioso, politico e nazionalista, e quello sanguinario e armato in tutte le sue forme”. Lo scopo, specificato al punto 18, è quello di “ creare una personalità araba nuova, priva di violenza, bassezza, irrazionalità, […]”, priva di quella che il liberale iracheno Abd al-Khaliq Husein definisce la “schizofrenia delle società arabe” che fa sì che queste vivano avvolte dall’ideologia e dalla mancanza di lucidità nell’analisi dei fatti (11) .
Quando al-Nabulsi accenna al terrorismo religioso si riferisce a una forma di terrore, più sottile e criptica, ma altrettanto perniciosa. E’ il jihad delle fatwe, dei responsi giuridici islamici, lanciate dagli estremisti islamici, da Bin Laden ai Fratelli musulmani, contro tutti coloro che non condividono quello che loro ritengono essere il “vero” Islam. Significativo a riguardo è lo scritto di Monjiya al-Souaihi, coraggiosa docente di islamistica all’università islamica della Zaituna di Tunisi, dal titolo “Fatwe di morte in codice” pubblicato sul sito liberale Middle East Transparent, in cui denuncia: “Alcuni siti internet gestiti dagli islamisti politici hanno pubblicato false minacce rivolte a chiunque si opponesse alle loro opinioni oscurantiste circa la condizione della donna e alla loro versione retrograda del patrimonio religioso, opinioni che sottintendono il desiderio di reprimere il pensiero, di chiudere la bocca, di fermare le penne, in modo particolare quelle di coloro che vogliono difendere la religione islamica, proteggerla, combattere contro ogni diffamazione e ogni menzogna, da cui attingono gli islamofobi a causa dei comportamenti e delle affermazioni di una fazione oscura alla quale la religione interessa solo come strumento da cui trarre vantaggi terreni a basso costo.
Poco importano gli sforzi che devono attuare i musulmani e gli arabi come risultato delle loro opinioni ottuse circa la religione. A seguito di questi fatti è stato pubblicato sulle agenzie di Tunis-Presse e Quds-Presse, in data 29 dicembre 2005, un discorso dello shaikh della Nahda che non ha alcun fondamento di verità e in cui mi accusa, dopo avere assistito a un programma trasmesso dal canale libanese ANB, il 27 dicembre 2005, di avere affermato che Omar ibn al-Khattab (12) – che Iddio si compiaccia di lui – è stato il primo nemico storico della donna e di avere sostenuto che il velo non è islamico”.
Lo shaikh della Nahda cui si riferisce l’autrice è il già menzionato Rashid al-Ghannushi, esperto nel doppio linguaggio, nella migliore tradizione dei Fratelli musulmani, personaggio che a più riprese ha “condannato” il terrorismo. Monjiya al-Souaihi diventa ancora più esplicita nel finale del suo articolo: “Non mi interessa neppure attirare l’attenzione sulle accuse rivolte alla mia persona attraverso l’estrapolazione di parti del mio discorso con l’intento di mandare una lettera minatoria criptata, un coded message, che esorta a uccidere in nome del pensiero inviando la notizia ai loro seguaci, lasciando loro la scelta di come comportarsi.
Conosciamo bene la modalità di questi estremisti che agiscono usando un linguaggio simbolico.
Per questo motivo li accuso di istigare a uccidermi come hanno fatto con Nasr Hamid Abu Zaid, Said Lakhal, Mona Talba, Lafif Lakhdar e tanti altri. Concludo dicendo che questo comportamento sconsiderato non mi piegherà e non mi farà smettere né di parlare né di scrivere in quanto studiosa accademica che ha una propria opinione. Questa è la sostanza del lavoro che svolgo oppure sono come chi si impegna nel proprio lavoro e poi si ferma per le minacce di morte? Non sono un imam né una predicatrice, lo shaikh della Nahda invece ha confuso il tutto e non ha ancora imparato a distinguere tra un accademico, un imam e un predicatore!” (13)
Questa testimonianza è solo un esempio di quanto il terrorismo della parola sia da esecrare e condannare tanto quanto il terrorismo jihadista con le armi. Negli ultimi anni il terrorismo del takfir ovvero di coloro che condannano di apostasia altri musulmani è diventato una vera emergenza, un’arma che vuole togliere voce alle menti libere.
La preoccupazione è tale che il 24 ottobre 2004, tre intellettuali arabi e musulmani, Jawad Hashim, Shakir al-Nabulsi, Lafif Lakhdar hanno inviato una richiesta al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e al Segretario generale dell’Onu per l’istituzione di un tribunale internazionale per la persecuzione senza ambiguità del terrorismo, inteso nella sua accezione più ampia, evidenziando, soprattutto, il terrore diffuso tramite fatwe: “Mentre state deliberando per l’approvazione e l’applicazione della risoluzione 1566, noi, gli intellettuali arabi, musulmani democratici e pacifisti liberali, firmatari della presente petizione, desidereremmo attirare la vostra attenzione, su una fonte gravissima del terrorismo: le fatwe.
Queste fatwe, emesse da alcuni “religiosi” fanatici e psicopatici, incitano a commettere crimini terroristici nel nome e sotto il vessillo dell’Islam.
Ci è parso insufficiente che il Consiglio di sicurezza adottasse risoluzioni che condannano il terrorismo. Ci sembrerebbe più efficace che l’Organizzazione delle Nazioni Unite costituisse un Tribunale internazionale (affiliato all’ONU) per condurre innanzi alla giustizia chiunque, singolo, gruppo o ente, implicato direttamente o indirettamente nelle attività terroristiche, unitamente ai predicatori che forniscono loro le fatwe che invitano i musulmani a combattere questi atti.
Queste fatwe svolgono un ruolo essenziale nell’istigazione al terrorismo e legittimano i crimini sotto il vessillo dell’Islam; attraverso il loro effetto persuasivo, fanno agire la coscienza tranquilla nella convinzione di avere commesso un atto di pietà e di andare direttamente in paradiso.
Beninteso, non bisogna ridurre la questione del terrorismo alle sole fatwe. Questo fenomeno ha diverse cause: l’esplosione demografica che conduce all’analfabetismo, alla povertà, alla disoccupazione, il degrado dei programmi scolastici, l’oscurantismo dell’insegnamento religioso e, in primo luogo, il despotismo politico, presente nella maggior parte dei paesi arabi.
Tutte queste condizioni rappresentano un terreno fertile al reclutamento dei terroristi. Ciononostante, le fatwe, rimangono la causa fondamentale dell’istigazione al terrorismo. Sono queste che legittimano l’atto terroristico come una dottrina sacra nell’Islam”.
E’ importante notare come gli autori del documento tengano a precisare la complessità del fenomeno terrorismo e a sottolineare che l’azione terroristica è nella maggior parte dei casi solo la punta dell’iceberg di un problema ben più vasto e articolato. Non va neppure dimenticato che i tre autori sono tutti residenti in Occidente: Jawad Hashim in Canada, Shakir al-Nabulsi negli Stati Uniti e Lafif Lakhdar in Francia, quest’ultimo vittima di una fatwa lanciata da Rashid Ghannushi, che come si è visto in precedenza è firmatario di numerose “condanne” del terrorismo.
Il pericolo è quindi sentito essenzialmente dagli intellettuali, e in modo particolare da quelli residenti in Occidente. La gravità del fenomeno è tale che, a seguito del silenzio delle Nazioni Unite, un gruppo di intellettuali, compresi i tre già citati, ha sentito l’esigenza di istituire autonomamente, nel 2005, un Comitato per la difesa delle vittime delle fatwe del terrore, coordinato dal liberale tunisino Abu Khawla, il cui manifesto di fondazione si conclude con un accorato e disperato appello: “Considerata la gravità della situazione, abbiamo preso l’iniziativa di creare il “Comitato per la difesa delle vittime delle fatwa del terrore”. Lo facciamo in risposta ai numerosi appelli in soccorso delle vittime di queste fatwe.[…] Il nostro comitato denuncerà queste fatwe del terrore e ne renderà noto il pericolo al grande pubblico. Pubblicheremo informazioni riguardanti gli scritti e le opinioni delle vittime, raccoglieremo sostegno pubblico nei loro riguardi, li sosterremo moralmente e finanziariamente facendo causa ai predicatori del terrore.
Il comitato promuoverà in futuro le loro idee in un sito e in altri forum e promuoverà una cultura della tolleranza e d’illuminazione”. (14)
L’insegnamento da trarre dai manifesti degli arabi e musulmani liberali è che la condanna del terrorismo non può e non deve mai essere generica e vaga, che il terrorismo è un fenomeno complesso da condannare in ogni sua forma.
Tenendo ben presenti anche le parole di Rola Dashti, attivista kuwaitiana che si è battuta per l’ottenimento del diritto di voto delle donne nel proprio paese: “il terrorismo sociale e psicologico è orribile quanto il terrorismo fisico, se non è addirittura peggio.
Le donne vengono terrorizzate in nome dell’Islam e accusate di essere anti-islamiche, quindi blasfeme, agenti anti-patriottici dell’Occidente, distruttrici del tessuto sociale, nemiche della famiglia, promotrici di omosessualità e adulterio. Siamo state continuamente e brutalmente attaccate perché volevamo l’ingresso delle donne in politica, quindi chiedevamo il diritto costituzionale di voto, partecipare alle elezioni nazionali e diventare attori della vita pubblica.
Gli estremisti islamici sono riusciti ad attuare il loro terrorismo sociale e i loro brutali attacchi abusando dell’Islam per guadagnare sostegno dal basso da parte di cittadini comuni che sono tradizionalisti, conservatori e depositari di una conoscenza minima della religione. Hanno lanciato campagne su come l’Islam rispetti il ruolo delle donne, come gli islamisti proteggono le donne e non vogliono che diventino oggetti sessuali.
Ma in realtà, i loro slogans sono serviti solo a nascondere la loro incapacità ad accettare che le donne partecipassero allo sviluppo e alla costruzione della democrazia, a rafforzare e a sostenere la società maschilista” (15) .
La condanna del terrorismo a tutto tondo da parte dei liberali si distingue da quelle provenienti da ambienti islamici estremisti e dai rappresentanti dell’Islam politico per essere una promozione totale della libertà di tutti, donne comprese, di esprimersi, di credere e pensare. Ed è questo il motivo per cui deve essere considerata l’unica vera condanna del terrorismo accettabile sia dall’Occidente che dal mondo islamico.


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(1) In Al-Qaeda. I testi, Ed. Laterza, Bari, 2006, pp. 50-52.
(2) Per il logo si veda il sito dei Fratelli musulmaniwww.ikhwanonline.com
(3) www.alquds.co.uk/Alquds/2001/09Sep/14%20Sep%20Fri/Quds02.pdf
(4) www.unc.edu/%7Ekurzman/Qaradawi_et_al_Arabic.htm
(5) In G. Shahine, "Fatwa fight", in Al-Ahram Weekly, 16-22 settembre 2004.
(6) www.bbc.co.uk/2/hi/programmes/newsnight/3875119.stm
(7) http://www.manifeste.org/article.php3?id_article=113
(8) Parigi, Flammarion, 2005.
(9) Ibid., p. 11.
(10) www.metransparent.com/texts/shaker_anabulsi_new_arab_liberals.htm
(11) http://www.rezgar.com/debat/show.art.asp?aid=64914
(12) Il secondo califfo dell'Islam che ha regnato dal 634 al 644
(13) http://www.metransparent.com/texts/mongia_saouhi_coded_messages_arabic.htm
(14) http://www.islamla.com/modules.php?name=News&file=article&sid=210
(15) http://usa.mediamonitors.net/content/view/full/17244

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