Il declino della leadership americana
Sergio Romano
Nel maggio del 1945, dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, la democrazia sconfisse i sistemi politici autoritari che avevano governato da più di un secolo l’Europa e molti Stati di altri continenti. Ma la vincitrice non fu, come nel 1918, la democrazia parlamentare di cui la Gran Bretagna era stata il modello dal XVIII al XX secolo. Fu la democrazia presidenziale, creata in America del Nord nell’epoca di George Washington e Thomas Jefferson fra il Settecento e l’Ottocento. Molti Paesi, particolarmente in Europa, continuarono tuttavia a far sì che i governi venissero scelti dai parlamenti e fossero costretti a lasciare il potere qualora le Camere li avessero privati della loro fiducia.
Questa differenza fra i due sistemi politici ebbe l’effetto di rendere gli Stati Uniti ancora più autorevoli. Mentre le democrazie parlamentari erano soggette agli umori della nazione e delle Camere, gli Usa erano rappresentati nel mondo, per quattro o addirittura otto anni, da colui il quale gli elettori avevano scelto durante una giornata di novembre e che si sarebbe installato senza indugi in una “reggia”, la White House (Casa Bianca), costruita a partire dal 1792 e inaugurata il 1° novembre 1800.
Queste regole presentavano il vantaggio d’identificare il Paese, nel mondo, con il nome dell’uomo che vi abitava per la durata del suo mandato. L’America era una monarchia repubblicana, una brillante combinazione di potere e di consenso.
Insieme alla continuità del potere, dopo la fine del Secondo conflitto gli Usa godevano di altre favorevoli peculiarità. Proprio grazie al soddisfacimento delle indispensabili esigenze legate all’evento bellico, essi avevano definitivamente superato la “grande depressione” (la crisi che nel 1929 aveva comportato il calo, a livello globale, di produzione e occupazione, di redditi e salari, di consumi e risparmi) trasformando la macchina da guerra a stelle e strisce in una cultura consumistica. Quelli dell’immediato dopoguerra furono così, in generale, anni di stabilità e prosperità per la classe media americana.
Il Paese disponeva, per tutto ciò, anche dei mezzi necessari per favorire, attraverso i provvedimenti attuativi dell’European Recovery Program (noto come Piano Marshall), la ricostruzione del Vecchio Continente – il cui corpo era rimasto segnato da gigantesche cicatrici e profonde ferite – rilanciandone l’economia e favorendone il reinserimento nel sistema degli scambi internazionali.
Le università americane, inoltre, accoglievano studenti provenienti da numerose comunità estere, mentre i loro scienziati e laboratori, che attiravano i migliori talenti, assicuravano un invidiabile primato in molte discipline e garantivano un’incessante modernizzazione. Gli Stati Uniti avevano però anche molte carenze e ne dettero una prova durante l’infelice guerra del Vietnam, provocata da timori esagerati e conclusa con una evidente e umiliante sconfitta. Ma l’esistenza dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e le simpatie che la sua ideologia suscitava in una parte non indifferente delle società occidentali permettevano agli Usa di continuare a ergersi come paladini e guida, non soltanto morale, degli Stati che non volevano rinunciare alla democrazia nelle sue diverse formule.
Esisteva altresì nel Paese, nonostante i molti meriti, una criminalità organizzata che era riuscita a controllare un numero considerevole di attività economiche e sopravviveva una comunità afroamericana che non godette per molto tempo di tutti i diritti civili e, anzi, fu spesso trattata ingiustamente. Nel 1790 i neri erano 570mila (19,3% della popolazione) e sono oggi 30 milioni (12,6%). I progressi compiuti dalla schiavitù alla piena cittadinanza, anche se realizzati con una certa lentezza, sono considerevoli ed encomiabili, ma esistono ancora pregiudizi razziali che possono manifestarsi in determinate circostanze.
Donald Trump, nel corso del recente mandato presidenziale, ha talvolta suscitato l’impressione di riservare – soprattutto alla vigilia di eventi elettorali – un atteggiamento di benevola indifferenza per le manifestazioni di ostilità verso ben precisati gruppi etnici. Il fenomeno sembra pure dimostrare che una parte della società statunitense è molto meno preoccupata di quanto lo sia stata in passato del giudizio della comunità internazionale. Per molto tempo i razzisti hanno cercato di nascondere i loro sentimenti per non danneggiare la reputazione del loro Paese nel mondo. Oggi questa preoccupazione non pare avere più rilevanza o di averne in misura sicuramente minore. Può essere leader uno Stato che sembra divenuto insensibile alla sua immagine nel mondo?
Esistono altri fattori che stanno pregiudicando la leadership americana. Il primo è la fine della Guerra fredda. In un mondo in cui molti credevano nell’esistenza del pericolo sovietico, gli Usa ricoprivano un ruolo internazionale pressoché universalmente riconosciuto, e ogni generazione ereditava l’orgogliosa responsabilità della egemonia mondiale. Oggi l’America, al contrario, sembra essere stanca di mantenersi attribuito tale onore e onere.
Tre altri fattori concorrono a spiegare una simile condizione di spossatezza.
Il primo è rappresentato dalla North Atlantic Treaty Organization (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord), in breve dalla Nato. Negli anni della Guerra fredda il Patto Atlantico – sottoscritto il 4 aprile 1949 – era considerato lo scudo del mondo libero. La sua efficacia dipendeva, in buona parte, dalla partecipazione degli Stati Uniti e dall’impegno che essi avevano assunto con i loro partner. Con la fine della Guerra fredda e del periodo in cui il rischio di un conflitto era considerato, forse esageratamente, reale, l’organizzazione ha perduto gran parte della sua importanza. I Paesi già satelliti dell’Urss sono entrati a farne parte per celebrare il ritorno all’Occidente e sottolineare la loro uscita dal Patto di Varsavia. Ma il passaggio dal Patto Sovietico a quello Atlantico ha un valore più apparente che sostanziale. I partiti nazionalisti di questi Stati, fioriti durante l’invadente presenza di Mosca, vogliono essere nella Nato perché dovrebbe garantire, in caso di necessità, l’intervento di Washington. Per di più, essi hanno promosso l’adesione all’Unione europea perché l’organizzazione finanzia progetti e programmi in grado di stimolare e armonizzare la crescita delle proprie economie nazionali.
Altra prova del declino è l’elezione del presidente che ho già ricordato. Donald Trump, durante il suo incarico, ha condotto una gretta politica sovranista, fondata sulla convinzione che il Paese non avesse obblighi internazionali e potesse coltivare esclusivamente i suoi interessi. Nel momento in cui non è stato eletto per la seconda volta, egli ha dimostrato di essere pronto a mettere in discussione il sistema elettorale che per lungo tempo ha garantito l’alternanza al potere delle maggiori forze politiche dell’America. E quando i suoi sostenitori – protagonisti di uno sfregio tanto grottesco quanto metaforicamente forte a un luogo simbolo della democrazia – hanno assaltato il Campidoglio (6 gennaio 2021), dove la maggioranza in Senato appartiene all’altra parte politica, sua oppositrice (il Partito democratico), Trump ha giustificato e perfino incoraggiato una rivolta che è già una forma di guerra civile.
Gli Stati Uniti rimangono certamente un Paese democratico e ritroveranno i loro equilibri. Ma hanno innegabilmente perduto una considerevole percentuale della loro credibilità.