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punto di vista 3/2021

punto di vista La crisi afgana
Sergio Romano biografia

Sino dalle sue origini l’Afghanistan è un affollato crocevia della storia mondiale. Fu invaso da molti popoli eurasiatici e dai maggiori protagonisti dell’Alto Medioevo: i greci di Alessandro Magno, i mongoli di Gengis Khan, i turchi del sultano di Costantinopoli, i medi, i persiani e, in tempi più recenti, da inglesi, russi e americani. Nel corso della sua esistenza fu per qualche tempo un impero, ma anche un regno e una repubblica socialista.
Naturalmente coinvolto in tutte le vicende della regione cui appartiene, l’Afghanistan fu anche sensibile alle vicende europee da quando la Gran Bretagna cominciò a temere che la Russia, per soddisfare le sue ambizioni, facesse del territorio afgano una pista di lancio contro l’India.
Erano gli anni in cui questa, divenuta ormai una colonia britannica, era considerata a Londra la “perla della corona”. Cominciò allora, tra inglesi e russi, il Grande Gioco: un conflitto politico, diplomatico, culturale e religioso, senza morti e feriti, a cui Peter Hopkirk ha dedicato un libro edito in Italia da Adelphi nel 2004, ma la cui edizione originale risale al 1990. Lo studioso inglese ricorda che Pietroburgo, allora, non aveva dimenticato la vittoria inglese nella guerra di Crimea e poteva essere attratto da una possibile rivalsa. Ma erano anche anni in cui le grandi potenze cercavano di espandere i loro possedimenti in Asia e Africa alzando le loro bandiere sui luoghi maggiormente desiderati. Che cosa sarebbe accaduto se gli inglesi avessero approfittato delle circostanze per appropriarsi di un pezzo d’Afghanistan? Quali sarebbero state le reazioni della Russia?
Un altro evento che ebbe radicali conseguenze per la stabilità dell’Afghanistan fu la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917. Sotto la presidenza di un uomo che aveva forti legami con Mosca (Nur Muhammad Taraki), il Paese era divenuto una repubblica socialista. Quando i suoi avversari lo avvelenarono, il Primo ministro Hafizullah Amin chiese l’aiuto dell’Urss. Il segretario generale del partito a Mosca (era Nikita Chruschev) fu all’inizio della vicenda assai titubante. Sapeva che cosa stava accadendo agli americani in Vietnam e temeva che lo stesso potesse accadere al suo Paese. Il presidente Taraki era disposto ad ascoltare Mosca, dove governo e partito volevano soprattutto che il regime afgano cessasse le violenze contro la popolazione islamica e smettesse di colpire con durezza anche gli oppositori politici moderati.
Ma Taraki fu liquidato con un colpo di Stato e il nuovo leader, Hafizullah, creò uno dei regimi più sanguinari della storia afgana. Si dice che siano stati eliminati quasi diecimila oppositori, fra i quali soprattutto i mullah (i teologi dell’islam) ed esponenti di spicco della classe media.
Mosca, intanto, seguiva attentamente gli eventi e i rapidi mutamenti della situazione. La guerra civile aveva inasprito i rapporti fra laici e musulmani favorendo la nascita di una milizia religiosa composta da audaci combattenti, che vollero essere conosciuti come Taleban (studenti coranici).
L’Iran si era appena trasformato in repubblica islamica e il Pakistan del generale Zia ul-Haq, pur dando l’impressione di corteggiare gli Stati Uniti, adottava politiche sempre più conservatrici. L’onda dell’islamismo stava crescendo all’orizzonte e avrebbe fatto molti danni all’islamismo moderato.
Le tensioni religiose provocarono conflitti civili ed ebbero ripercussioni anche in Russia dove i dirigenti sovietici, fra i quali Jurij Andropov, capo del Kgb, e i vertici militari cominciarono a capire che il loro sostegno non poteva essere assicurato a un regime dove si uccideva nelle strade e si combatteva con grande violenza. La “Dottrina Breznev” permetteva l’intervento e quando Hafizullah, per l’ennesima volta, rifiutò di moderare la repressione, Mosca non rimase inerte.
L’Operazione Storm 333 (come fu chiamata dallo Stato Maggiore russo) prevedeva una mossa diplomatica per distrarre il governo e la contemporanea occupazione militare del territorio afgano.
La sera del 24 dicembre 1979 le truppe sovietiche si mossero da Nord e, con due divisioni meccanizzate e una aviotrasportata, completarono la missione. Hafizullah Amin fu ucciso insieme ai suoi ufficiali e alla sua famiglia, fra i quali molti furono “giustiziati” personalmente da elementi del Kgb, determinato a evitare la possibilità di una controrivoluzione.
Un buon osservatore militare disse che si trattò di una “operazione chirurgica”. L’esercito afgano fu commissariato da un giorno all’altro e il nuovo presidente della Repubblica, Babrak Karmal, divenne di fatto un fantoccio nelle mani di Mosca. Gli Stati Uniti, come molti Paesi arabi ed europei, si manifestarono molto critici, ma dovettero prendere atto della realtà.
Sappiamo oggi che la crisi afghana ebbe in Russia altre conseguenze, più positive. Il diplomatico russo Anatolij Adamishin, per molti anni collaboratore di Andrej Gromyko quando questi era ministro degli Esteri e, più tardi, di Michail Gorbacev quando divenne segretario generale del partito nel 1985, nelle memorie ha
tratteggiato di quella vicenda un’immagine assai interessante. Ricorda che l’invasione dell’Afghanistan fu una delle prime occasioni in cui cominciarono a circolare nella burocrazia sovietica sentimenti di critica e dissenso per un’azione politico-militare che era motivata da considerazioni ideologiche piuttosto che da credibili interessi nazionali.
Un’altra conseguenza della lunga crisi afgana che divise il Paese negli anni seguenti fu la mobilitazione della società internazionale, con il risultato di uno sforzo congiunto sotto l’egida della Nato e l’invio di forze militari appartenenti anche a Stati europei, fra cui il nostro.
Giunto a questo punto, il lettore non faticherà a comprendere perché il presidente degli Stati Uniti abbia deciso di assecondare i desideri di molti elettori e abbia annunciato il ritiro delle forze americane provocando quello di altri Paesi, fra i quali l’Italia. Ma non sarà facile all’Europa sottrarsi all’impegno afgano. È troppo unita per voltare le spalle a problemi che adesso concernono l’intero continente. Ne abbiamo avuto una prova anche in questa circostanza. Ogni Paese attratto nella crisi aveva una stessa motivazione: evitare che un collega lo precedesse al tavolo dove si sarebbero decisi i futuri equilibri. Sappiamo ormai che nelle vicende della politica internazionale gli europei vincono o perdono insieme. E vinceranno quando l’Ue sarà riuscita a risvegliare la Comunità europea di difesa (Ced), una istituzione che non fu approvata dai Parlamenti nazionali per due motivi: i nazionalismi erano ancora dominanti e la Nato, con gli Stati Uniti di allora, sembrava più efficace di una istituzione esclusivamente europea.
Oggi la situazione è cambiata. L’Europa è molto più integrata di quanto fosse allora e molto più disposta a nuovi progressi verso la sua unità. La Nato esiste ancora, ma gli Stati Uniti dimostrano di avere sempre più spesso interessi prevalentemente nazionali.

P.S. L’Italia, tra i vari Paesi, fu quella che ebbe più frequenti e amichevoli relazioni con lo Stato afgano. Mantenne buoni rapporti con re Mohammed Zahir Shah durante la fase monarchica del Paese e lo ospitò quando era esule durante la fase repubblicana. Questa amicizia fu utile negli anni Trenta a un brillante diplomatico italiano, Pietro Quaroni. Quando gli fu rimproverato di avere avuto una conversazione indiscreta a Ginevra con un diplomatico inglese, il ministro degli Esteri (Galeazzo Ciano, genero di Mussolini) decise di licenziarlo. Ma fu persuaso a sostituire il provvedimento con un incarico che era allora “punitivo”: ambasciatore in Afghanistan. La sanzione divenne un dono per Quaroni e per Roma. Da Kabul, in uno Stato neutrale dove convivevano rappresentanti di amici e nemici, dal 1936 al 1944 egli inviò infatti notizie e analisi di grande utilità, soprattutto per un Paese che aveva perduto, dopo l’entrata in guerra, una buona parte dei suoi contatti internazionali.

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