Declino degli Stati Uniti
e ascesa della Unione Europea
Sergio Romano
Quando fece il suo trionfale ingresso alla Casa Bianca nel novembre del 2016, Donald Trump promise ai suoi connazionali che avrebbe restituito al loro Paese la grandezza perduta. Capimmo rapidamente che avrebbe perseguito il suo obiettivo rinunciando a una larga parte degli impegni internazionali che il Paese aveva assunto dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Al multilateralismo dei predecessori Trump preferiva l’isolazionismo.
Alla presenza nelle organizzazioni internazionali preferiva una assenza sdegnosa.
Questa forma di nazionalismo piacque a quei partiti politici che credevano di potersi servire di analoghi argomenti per conquistare il potere nei loro Paesi. Nacque così una Internazionale di populisti e sovranisti in cui la solidarietà stava cedendo il passo a una aggressiva autarchia nazionale.
Trump non capì che la sua linea politica stava privando l’America di quelle amicizie e alleanze di cui si era servita per esercitare una considerevole autorità internazionale dopo la fine del Secondo conflitto. Lo hanno compreso gli americani che nelle ultime elezioni presidenziali hanno votato per il candidato del partito democratico. Ma la vittoria di Joe Biden non è stata trionfale. Negli Stati Uniti esistono ancora elettori che preferiscono l’isolamento all’internazionalismo e che continueranno probabilmente a votare per Trump se cercherà di tornare in campo nelle prossime elezioni. Non è tutto. Esiste altresì nel Paese una corrente che si prepara a una guerra contro la Cina e, come accade spesso in queste circostanze, la rende inevitabilmente meno improbabile. Gli Stati Uniti sono divenuti più chiusi in sé stessi anche e soprattutto perché molti dei loro cittadini preferiscono una vita priva di grandi responsabilità globali.
Non è sorprendente.
Quasi tutti gli Imperi, nel corso della loro storia, raggiungono prima o dopo la fase della stanchezza. Non abbiamo forse assistito, durante il secolo scorso, al declino dell’Impero britannico? L’Unione europea ha le caratteristiche di un Impero sui generis. È una Federazione di 27 Stati che in alcune circostanze ricorda la Dieta polacca più di quanto assomigli a uno Stato federale. Ma i suoi membri hanno gradualmente scoperto che la comunanza presenta grandi vantaggi economici, sociali e culturali. Qualche osservatore aveva creduto che Brexit e la vittoria del “no all’Europa” nel referendum britannico annunciassero una graduale disintegrazione dell’UE. Ma è accaduto sinora l’esatto contrario. Molti inglesi lamentano la mancanza dei vantaggi offerti dal Mercato Unico. L’Irlanda del Nord, per non staccarsi da quella del Sud, ha preferito restare nello spazio economico dell’UE. La Scozia, per non uscirne, potrebbe addirittura lasciare il Regno Unito e proclamare la propria indipendenza. Anziché indebolire l’Europa, Brexit potrebbe averne accentuato i pregi e le virtù.
L’epidemia del Coronavirus, per esempio, ha avuto per le sorti dell’Europa effetti sorprendentemente positivi. Anziché richiudersi in sé stessi, i membri della UE hanno rapidamente capito che la battaglia contro il virus e il ritorno alla normalità sarebbero stati efficaci soltanto se avessero coordinato le loro strategie nella fase sanitaria e in quella della ricostruzione. Il risultato più clamoroso è stato l’unificazione del debito pubblico. Per molti anni la Germania si era opposta alla creazione di un debito comune a cui attingere per la realizzazione di opere utili alla intera Unione. I suoi cittadini, tradizionalmente previdenti e parsimoniosi, rifiutavano di approvare operazioni in cui avrebbero sottoscritto impegni con Paesi (fra cui in particolare l’Italia) che erano troppo indebitati e troppo inclini a prolungare nel tempo i loro indebitamenti. Più recentemente, invece, l’esistenza di un pericolo comune e l’entità della somma stanziata (più di 700 miliardi di euro) hanno avuto l’effetto di modificare le tradizionali posizioni tedesche. È un successo per il governo italiano, ma anche una responsabilità. Se continuassimo a ritardare il giorno in cui affrontare il problema di un debito (che nel prossimo giugno ammonterà probabilmente a 2700 miliardi di euro) perderemmo qualsiasi credibilità internazionale.
L’unità delle finanze europee ci sollecita a lavorare per un altro obiettivo: l’unificazione militare del continente. Il progetto è nei cassetti dai giorni in cui l’Europa del secondo dopoguerra fece i suoi primi passi verso l’unità. Un esercito comune avrebbe dimostrato meglio di qualsiasi altro argomento che le guerre fra europei appartenevano al passato. Dopo l’invasione della Corea del sud (1950), nel clima di una guerra sempre più fredda, la possibilità di una aggressione sovietica rese la prospettiva di un esercito europeo ancora più attraente. Il progetto piacque a un gruppo di politici e di intellettuali fra i quali vi erano René Pleven e Jean Monnet in Francia, Konrad Adenauer e Franz Josef Strauss in Germania, Alcide De Gasperi, Carlo Sforza e Paolo Emilio Taviani in Italia, Paul-Henri Spaak in Belgio. Non fu facile, dapprima, convincere gli europei che un tale progetto, senza la partecipazione militare della Germania, sarebbe stato privo di qualsiasi credibilità. Le difficoltà sembrarono superate quando il 27 maggio 1952 fu firmato il trattato per la creazione della Comunità Europea di Difesa. Ma il testo del Trattato, prima di arrivare per la ratifica al Parlamento italiano, fu respinto nel Parlamento francese il 30 agosto 1954. Da quel momento il problema della difesa dell’Europa divenne il tema principale di un’altra organizzazione internazionale (la Nato), il cui trattato istitutivo fu firmato a Washington nell’aprile del 1949 e sembrava essere il solo strumento capace di tenere testa alla Unione Sovietica.
Ma era anche una istituzione soggetta in buona parte alla autorità degli Stati Uniti e poco interessata quindi alla prospettiva di una integrazione del continente europeo. Oggi la situazione è molto diversa.
Le ambizioni imperiali dei grandi Stati europei appartengono al passato. L’Unione Sovietica non esiste più. La Nato esiste ancora, ma è composta da un numero crescente di Paesi che hanno spesso interessi alquanto diversi. Le guerre, quando scoppiano, interessano Paesi di media grandezza, a volte indipendenti soltanto da qualche decennio e assillati da questioni di frontiera o di convivenza fra popoli etnicamente o religiosamente diversi. Una delle zone più calde e ricche di petrolio è fra il Vicino e il Medio Oriente, non troppo lontano dalle coste della Europa meridionale. Durante la crisi libica degli scorsi mesi un esercito europeo avrebbe potuto intervenire e interporre le proprie forze fra i combattenti della guerra civile. Esiste il problema della Turchia, uno dei Paesi più armati della regione. Ma anche la Turchia ha importanti interessi europei e niente ci impedirebbe di accogliere i suoi soldati nelle nostre file, come un utile partner, se la collaborazione convenisse agli uni e agli altri.
La prospettiva di un esercito europeo oggi è forse più realistica di quanto sia stata negli ultimi decenni. Quando era Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Federica Mogherini promosse una nuova iniziativa: le “Cooperazioni Permanenti Rafforzate”. I progetti, oggi, sono almeno 30 e l’Italia ne guida nove; mentre la Francia sembra decisa a servirsi della propria presidenza, dal gennaio al giugno del 2022, per dare alla iniziativa un colpo d’acceleratore.