Le crisi medio-orientali e l'Europa
Sergio Romano
Come il suo predecessore, anche Donald Trump vorrebbe ridurre la presenza militare statunitense nel Medio Oriente e particolarmente in Iraq. Lo ha promesso durante la sua campagna elettorale, è convinto che questa politica corrisponda agli umori di una larga parte dell’opinione pubblica americana e spera che favorisca, nelle prossime elezioni presidenziali, il rinnovo del suo mandato. Ma ha anche un altro obiettivo che coltiva sin dal momento del suo ingresso alla Casa Bianca. Vuole provocare un cambiamento di regime a Teheran. Per suscitare una rivolta della società iraniana contro il governo degli ayatollah ha preso due iniziative. In primo luogo ha imposto nuove sanzioni economiche e vorrebbe che venissero rigorosamente adottate anche dagli Alleati europei degli Stati Uniti. In secondo luogo ha denunciato l’accordo che il suo predecessore, insieme agli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e alla Germania, aveva stipulato con l’Iran per concordare alcuni limiti alla sua politica nucleare. L’accordo era saggiamente realista. I suoi firmatari sapevano che l’Iran non avrebbe mai rinunciato all’arricchimento dell’uranio e si erano accontentati di clausole che avrebbero considerevolmente rallentato la costruzione di un ordigno. Quando un problema è difficilmente risolvibile, prendere tempo è molto spesso la migliore delle decisioni possibili. Ma Trump non voleva pragmatici compromessi e soluzioni parziali. Preferiva probabilmente una situazione in cui l’Iran, a sua volta, avrebbe stizzosamente denunciato un accordo che stava perdendo alcune delle sue clausole più importanti. Quando Teheran ha annunciato che avrebbe ricominciato ad arricchire il suo uranio, vi era quasi riuscito. Ma le reali intenzioni dell’Iran non erano chiare e i consiglieri militari di Trump, in quel momento, gli hanno probabilmente suggerito di evitare reazioni che avrebbero ulteriormente avvicinato la prospettiva di un conflitto.
I perdenti, in questo duello fra Teheran e Washington, sono i Paesi europei che hanno una strategia alquanto diversa. Mentre Trump vuole mettere l’Iran in ginocchio e spera di riuscirvi spingendo il popolo a ribellarsi contro il regime, gli europei sperano di indirizzare il Paese verso una politica di sviluppo economico che presenterebbe almeno tre vantaggi: darebbe soddisfazione alle masse, ridurrebbe l’influenza di coloro che nel clero e nelle Forze armate della Repubblica islamica si dichiarano pronti a combattere, restituirebbe agli esportatori europei un mercato che le sanzioni di Trump hanno alquanto ridotto. Ma non tutti i Paesi europei sembrano condividere la stessa strategia con uno stesso animo. La vicenda iraniana ha dimostrato che gli ex satelliti dell’Unione Sovietica, benché ormai membri dell’Unione europea, considerano i loro rapporti con Washington più importanti di quelli che hanno con Bruxelles; e permettono così a Trump di fare una politica iraniana che non corrisponde agli interessi di quei Paesi al di qua dell’Atlantico per i quali l’Iran è da molto tempo un interessante partner economico.
Esiste tuttavia nella politica di Trump una potenziale contraddizione. Il Presidente vuole dare soddisfazione a quanti vogliono che ‘i ragazzi tornino a casa’, ma non riesce a trattenersi dal fare una politica iraniana che potrebbe, da un giorno all’altro, provocare un conflitto. La morte d Qasem Suleimani ne è una dimostrazione. Il generale ucciso da un missile americano nell’aeroporto di Baghdad, il 3 gennaio 2020, aveva combattuto contro l’Iraq fra il 1980 e il 1988, comandava la Brigata Gerusalemme (in arabo ‘al-Quds’, il nome delle brigate jihadiste che operano in Palestina) ed è stato in molte circostanze lo spregiudicato braccio armato della politica estera iraniana nelle zone più calde del Medio Oriente (fra cui recentemente lo Yemen), se non addirittura il regista di una strategia terroristica. Ma era anche una delle personalità più popolari del suo Paese e un possibile candidato alla successione della Guida Suprema se la dirigenza iraniana avesse deciso di scegliere, dopo la scomparsa di Ali Khamenei, una personalità laica. Il suo assassinio è stato percepito da molti come una offesa alla nazione; e gli iraniani che Trump vorrebbe mobilitare contro il regime sono scesi nelle piazze del Paese per manifestare contro gli Stati Uniti. Non è stato il primo, e non sarà l’ultimo esempio di una politica della Casa Bianca che spesso contraddice sé stessa e risponde soprattutto a motivazioni elettorali.
Risponde probabilmente alle stesse motivazioni lo «storico piano di pace» che Donald Trump ha annunciato il 28 gennaio 2020 per risolvere la questione palestinese. Mentre i suoi predecessori, da Clinton a Obama, avevano cercato di proporre soluzioni che tenevano conto, almeno parzialmente, delle aspirazioni palestinesi, Trump ha confermato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele e ha implicitamente assecondato l’annessione israeliana di quegli insediamenti ebraici nei territori occupati e nella valle del Giordano che una larga parte della comunità internazionale e molti membri dell’Onu considerano illegali. Addolcito da qualche interessante prospettiva economica, il nuovo piano è nato nella famiglia del presidente ed è opera di un gruppo di persone guidate da Jared Kushner, figlio di un rabbino ortodosso, marito della figlia di Trump e senior adviser del capo dello Stato dall’inizio del suo mandato. Non piace, comprensibilmente, ai palestinesi, ma non spiace, sorprendentemente, ad alcuni Stati arabi della regione, fra cui in particolare l’Arabia Saudita. Da qualche anno il Paese dei Saud è governato da un giovane erede al trono, Mohammad bin Salman, che vuole modernizzare il proprio Paese ed è pronto, con grande soddisfazione di Trump, a spendere sul mercato americano buona parte delle straordinarie risorse finanziarie di cui dispone.
Non è tutto: il giovane leader saudita approva il piano di pace anche perché il suo maggiore nemico nella regione è l’Iran.
In questo complicato intreccio di torbide relazioni politiche, la religione ha una parte considerevole e incide sugli schieramenti politici. Nonostante le origini laiche del movimento sionista, Israele, oggi, è per alcuni aspetti uno Stato confessionale. Tutti i musulmani riconoscono lo stesso Dio, ma sono divisi fra due grandi famiglie religiose (sunniti e sciiti) da una guerra di successione che si combatte sin dalla morte del Profeta a Medina, nel 632 d.C. Quando, durante la presidenza di Mahmud Ahmedinejad, l’Iran era il Paese che più frequentemente denunciava le ‘malefatte’ di Israele per meglio conquistare le simpatie del mondo musulmano, il Paese degli ayatollah aveva contemporaneamente provocato le gelose reazioni dei sauditi. Da allora il Regno dei Saud non è più il maggiore nemico di Israele nella regione e aspira addirittura a recitare, nel conflitto arabo-israeliano, la parte del mediatore.
Questa è soltanto una delle molte cause che concorrono alla instabilità del Medio Oriente e del Levante. Le rivolte arabe nel primo decennio del secolo, da quelle di Tunisi e Tripoli a quelle del Cairo e di Damasco, hanno eliminato una larga parte della classe dirigente che aveva governato la regione negli anni precedenti. Gli osservatori che credettero all’avvento di una nuova era per il mondo arabo, dovettero constatare che non sarebbe stato facile, per quei Paesi, trovare nuovi equilibri politici e una nuova classe dirigente. Nel caos provocato da quelle rivolte si sono inevitabilmente inserite potenze che avevano vecchie o nuove ambizioni. La Turchia non aveva dimenticato che tutti quei Paesi avevano fatto parte dell’Impero ottomano mentre la Russia ricordava che i ‘mari caldi’, in tempi non troppo lontani, avevano risvegliato l’interesse degli zar e persino dei leader dell’Unione Sovietica. La Siria, in particolare, aveva permesso ai sovietici di installare le sue navi nella base di Tartus e i suoi aerei in un’altra base nei pressi di Latakia. Quando la protesta popolare a Damasco provocò la dura reazione del regime e lo scoppio di una guerra civile, i russi intervennero per salvare il governo siriano di Bashar al-Assad, mentre i turchi si schieravano nel campo opposto. Ma nel Paese esisteva, con le sue milizie armate, anche l’Isis, una organizzazione jihadista per la creazione di uno Stato islamico che dette filo da torcere in quel periodo a molte potenze occidentali. Ed esistevano i curdi che, pur essendo i migliori combattenti contro l’Isis, erano considerati dai turchi pericolosi nemici.
La situazione non era meno imbrogliata in Libia dove la brutale eliminazione del colonnello Gheddafi il 20 ottobre 2011 ebbe l’effetto di risvegliare le antiche ostilità tribali e quelle fra le due regioni – Tripolitania e Cirenaica – che l’amministrazione italiana aveva unificato soltanto nel gennaio del 1934 sotto il governatorato di Italo Balbo. L’Onu ha riconosciuto un Primo ministro nella persona di Fayez al-Sarraj che aveva avuto qualche incarico durante il regime di Gheddafi. Ma a Bengasi, quasi contemporaneamente, un militare, il generale Khalifa Haftar, noto per le sue operazioni militari contro i Fratelli musulmani, riusciva a conquistare l’interessata simpatia di alcuni Paesi, fra cui l’Egitto, la Francia, la Turchia e la Russia. Altri Stati europei, tuttavia, fra cui l’Italia, sostenevano Sarraj. Mentre scrivo, il bilancio della vicenda libica, soprattutto per l’Unione europea, è negativo. L’UE ha una frontiera mediterranea da cui dipendono la sua economia e la sua sicurezza. La Commissione di Bruxelles, con i trattati di associazione e le molteplici iniziative, è un indispensabile punto di riferimento per tutti i Paesi della regione. Ma la sua politica estera, quando cerca di manifestarsi, è spesso scavalcata dalle iniziative dei suoi singoli componenti e non è ancora resa credibile da una comune politica militare. Se ogni suo membro continuerà a perseguire una politica nazionale, spesso dietro le spalle dei suoi partner, come è accaduto negli ultimi anni, l’Unione deluderà i Paesi della regione e condannerà sé stessa alla irrilevanza.