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punto di vista 3/2018

punto di vista La Russia e le democrazie
Sergio Romano biografia

Non sappiamo che cosa Donald Trump e Vladimir Putin si siano detti nel loro incontro a quattr’occhi durante il vertice di Helsinki. E sappiamo che le dichiarazioni di Trump durante la conferenza stampa, alla fine dell’incontro, hanno avuto l’effetto di renderlo ancora più inviso a quella parte della società politica americana che lo accusa di avere con il Presidente russo un rapporto servile. Molti osservatori, tuttavia, hanno riconosciuto che il vertice ha avuto un merito: quello di riprendere un dialogo che è stato per un lungo periodo pressoché inesistente. Possiamo certamente dissentire dalla politica russa, ma non possiamo ignorare che la Russia è diventata in molte aree del mondo un interlocutore indispensabile. E dovremmo cercare di capire perché le relazioni di alcuni paesi con Mosca siano state per tanto tempo così difficili.
Dopo il vertice atlantico di Pratica di Mare, nel giugno del 2002, avemmo l’impressione che il problema dei rapporti delle democrazie occidentali con la Russia post-sovietica fosse stato brillantemente impostato, se non addirittura risolto. A Mosca vi era un nuovo leader, Vladimir Putin, che sembrava più concreto e affidabile del suo predecessore, Boris El’cin, un vecchio apparatcik non privo di coraggio, ma vittima di un’antica patologia russa (la vodka) e circondato da un gruppo di oligarchi che si erano impadroniti del Cremlino.
Quando ricevette Putin in un ranch del Texas, nel novembre del 2001, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush disse ai giornalisti di averlo guardato negli occhi e di avere visto la sua anima. A Pratica di Mare, con l’ospitale regia di Silvio Berlusconi, il clima fu ancora più cordiale. Venne creata una nuova istituzione, quasi una Nato allargata di cui la Russia sarebbe stata membro insieme ai paesi dell’Alleanza Atlantica.
A me sembrò in quel momento che fossero state create le condizioni per la graduale trasformazione dell’Alleanza da Patto militare contro un nemico comune a Organizzazione per la sicurezza collettiva dell’intero continente europeo.
Il presidente francese, Jacques Chirac, rilasciò una dichiarazione in cui disse che «è giunto il momento di fare un passo avanti e di accogliere la Russia in quanto partner effettivo in seno a un Consiglio dove i Venti membri siederanno come noi stessi attorno a questo tavolo, esattamente allo stesso livello». Il leader francese aggiunse che «non bastava approvare testi; occorre farli vivere, stabilire abitudini di lavoro, sia in campo militare, sia in campo diplomatico …». Era necessario in particolare che «le decisioni o le azioni comuni che possiamo adottare insieme portino su argomenti che sono al cuore delle competenze della Nato, come la gestione delle crisi in Europa, in particolare nei Balcani, il disarmo o la non proliferazione». Concluse dicendosi convinto che «queste nuove relazioni della Russia con la Nato devono essere accompagnate da più stretti rapporti con l’Unione europea».
Le cose andarono diversamente.
Nel 1999 tre paesi dell’Europa centro-orientale – Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca – divennero membri della Nato.
Nel marzo del 2004 la Nato festeggiò l’arrivo di nuovi membri: Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia, di cui tre (le repubbliche del Baltico) erano stati parte integrante dell’Urss e due (Bulgaria e Romania) membri del Patto di Varsavia.
Nell’aprile del 2009 Albania e Croazia avevano completato il processo di adesione e furono invitate a entrare nell’Alleanza. Nel frattempo, una provincia della vecchia Jugoslavia, il Kosovo, era divenuta indipendente: una decisione sgradita alla Serbia e, indirettamente al paese (la Russia) che della Serbia era stato tradizionalmente tutore e protettore.
L’ultimo arrivato dal giugno del 2017 è il Montenegro, un altro paese che nel corso della sua storia ha avuto legami politici e religiosi con la Russia.
Non è tutto. Durante il vertice della Nato a Bucarest, nell’aprile del 2008, il Presidente degli Stati Uniti auspicò che l’organizzazione fosse estesa sino a comprendere la Georgia e l’Ucraina. Non vi fu alcuna decisione perché la Cancelliera tedesca suggerì una pausa di riflessione, ma la questione georgiana era ormai all’ordine del giorno.
Recentemente il ministro degli Esteri della repubblica caucasica ha incontrato il Segretario generale della Nato da cui ha avuto l’assicurazione che il suo paese sarebbe diventato membro dell’Alleanza.
Esiste una relazione fra il discorso di Bush a Bucarest nell’aprile del 2008 e la guerra georgiana nell’agosto dello stesso anno?
Come altre ex repubbliche dell’Urss, soprattutto nell’area caucasica, la Georgia ospita, accanto al gruppo nazionale da cui trae il suo nome, altri gruppi etnici: abkazi, osseti del Sud e del Nord, russi immigrati negli anni in cui allo stato sovietico non spiaceva diluire la popolazione locale con elementi provenienti dalla grande patria russa.
Dopo l’indipendenza, nel 1991 si erano formate in Georgia, come in altre repubbliche, milizie armate che chiedevano l’annessione alla Russia e che i russi potevano incoraggiare o frenare a seconda delle relazioni fra Mosca e il governo locale.
Nell’estate, il presidente georgiano (Mikhail Saakashvili), incoraggiato dalle dichiarazioni del presidente Bush a Bucarest e dalla presenza nel proprio territorio di 800 addestratori delle Forze armate americane, credette di poter contare sull’appoggio anche militare degli Stati Uniti e invase l’Ossezia del Sud. La reazione russa fu rapida ed efficace.
Gli Stati Uniti non intervennero e lasciarono alla Francia il compito di trovare un accordo fra le parti. Ma nella grande pentola dell’Europa orientale stavano cuocendo, nel frattempo, altre due crisi.
Gli Stati Uniti volevano installare basi antimissilistiche in alcuni paesi dell’Europa centro orientale (Polonia, Repubblica Ceca, Romania) e dovevano sbarazzarsi di un accordo con l’Unione Sovietica (il trattato Abm) stipulato nel 1972 per limitare il numero delle installazioni che ciascuno dei due paesi avrebbe avuto il diritto di costruire. Quando lo denunciarono, i russi, non senza ragione, videro nei progetti americani un atteggiamento potenzialmente ostile.
La seconda crisi fu ancora più grave. Quando l’Ucraina cominciò a negoziare un accordo d’associazione con l’Unione europea, Mosca temette che questo accordo avrebbe preceduto, come era accaduto in altri casi, quello con la Nato e offrì all’Ucraina uno status analogo nella organizzazione economica euro-asiatica che Putin stava costruendo in quei mesi. Vi furono manifestazioni organizzate da gruppi nazionalisti, brutali interventi della polizia per disperdere i manifestanti e un intervento diplomatico di potenze europee per trovare una soluzione soddisfacente.
Il risultato sembrava felicemente raggiunto con l’aiuto di alcuni ministri degli Esteri europei quando una improvvisa impennata notturna dei gruppi nazionalisti nel parlamento di Kiev costrinse il presidente filorusso a fuggire. Privato del suo proconsole e convinto che l’Ucraina, da quel momento, avrebbe appartenuto all’area d’influenza euro-americana, Putin reagì con l’annessione dell’Ucraina e l’invio di militari nelle zone russofone di quella che era stata, nell’epoca della Grande Caterina, la Nuova Russia.
Come in molte crisi internazionali, in quella dei rapporti fra alcune democrazie e la Russia i torti e le ragioni sono più o meno equamente divisi fra le due parti. Ma la politica internazionale non è un’aula di giustizia. La domanda a cui dovremmo dare risposta è se convenga alle due parti continuare a considerarsi potenzialmente nemiche o se non abbiano buone ragioni, non soltanto economiche, per trovare un’intesa.

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