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punto di vista 1/2018

punto di vista L'asse franco-tedesco
Sergio Romano biografia

Quando cadde il muro di Berlino e il cancelliere Kohl mise i suoi partner europei di fronte al fatto compiuto di una Germania unificata, molti credettero che l’asse franco-tedesco avrebbe perduto da quel momento una buona parte della sua efficacia. Il trattato che Francia e Germania avevano firmato nel palazzo dell’Eliseo il 23 gennaio 1963 era una creazione gollista, fondata sulla convinzione che le redini della carrozza matrimoniale sarebbero rimaste nelle mani del cocchiere francese.
La Germania era già allora una potenza economica, ma divisa e occupata dai vincitori della Seconda guerra mondiale. La Francia, invece, aveva almeno due carte di cui la Repubblica Federale non poteva disporre: l’arma nucleare, nota in Francia come force de frappe, e un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Sembrò a molti evidente, in quel momento, che la fine della Guerra fredda e la riunificazione avrebbero cambiato le regole del gioco. La force de frappe, dopo il crollo dell’Urss, avrebbe perduto una parte della sua importanza. La liberazione dei satelliti dal giogo sovietico avrebbe aperto mercati che la Germania non avrebbe tardato a occupare con le sue aziende e i suoi capitali. La firma del Trattato di Maastricht, tre anni dopo la caduta del Muro, avrebbe rilanciato il processo d’integrazione europea e ridimensionato il ruolo dei singoli stati.
A Parigi come a Berlino e in altre capitali europee, tuttavia, prevalse la convinzione che l’asse continuasse a essere utile. Dopo le molte guerre che Francia e Germania avevano combattuto per il dominio del continente, la loro riconciliazione aveva assunto un’importanza storica e culturale che sarebbe stato imprudente ignorare. Il rapporto speciale fra i due paesi era indubbiamente un’eccezione al principio di eguaglianza che avrebbe dovuto ispirare le relazioni fra tutti i membri della Comunità europea; ma archiviava un dissidio che aveva insanguinato la storia d’Europa. La fotografia di François Mitterrand e Helmut Kohl, la mano nella mano di fronte al grande ossario di Douaumont il 22 settembre 1984, per una celebrazione dedicata ai morti della battaglia di Verdun, è molto più di una semplice immagine: è una bella pagina di storia. Non è tutto. Il patto aveva dimostrato di essere utile al buon funzionamento dell’Europa.
Vi sono state circostanze in cui Francia e Germania si sono accordate per imporre soluzioni che corrispondevano ai loro interessi piuttosto che a quelli dell’Unione. Ma sono probabilmente più numerosi i casi in cui l’intesa franco-tedesco ha persuaso la maggioranza dei partner a convergere verso una decisione comune. Forse non vi sarebbe stata la moneta comune se Kohl non si fosse reso conto della necessità di provare, soprattutto alla Francia, che la Germania riunificata era pronta a sacrificare la sua sovranità monetaria. Ma il buon funzionamento del reciproco impegno dipende, in ultima analisi, dalle persone che governano la Francia e la Germania. A differenza di Helmut Kohl, Angela Merkel non è cresciuta in quella parte della Germania dove Europa e democrazia sono diventate, dopo la fine della guerra, un binomio indissolubile. È abile, intelligente e straordinariamente seria; ma esiste nella sua carriera politica, dopo la caduta del Muro, un profumo di opportunismo che la rende meno convincente, nelle questioni europee, di quanto fossero Helmut Schmidt e Helmut Kohl. Le stesse considerazioni valgono per almeno due fra i suoi interlocutori francesi degli scorsi anni.
Nicolas Sarkozy impiegò buona parte del tempo trascorso all’Eliseo cercando di appagare le proprie ambizioni con una politica mediterranea, che ha avuto per effetto l’instabilità della Libia dopo la disastrosa operazione del marzo 2011. François Hollande, invece, era molto più uomo di partito che di governo. Né l’uno né l’altro sembravano particolarmente desiderosi di avanzare con maggiore fermezza sulla strada dell’integrazione europea.
Il quadro è cambiato con l’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Repubblica. Il nuovo leader sembra avere sull’Europa e sulla sua integrazione idee e intenzioni molto più chiare di quelle dei due predecessori. E sembra credere, soprattutto, che l’asse franco-tedesco possa avere in questa prospettiva una funzione decisiva. I grandi temi su cui i due paesi stanno lavorando in questi mesi sono quattro. Il primo è quello della politica fiscale.
Oggi gli stati sono liberi di applicare alle aziende aliquote diverse: una pratica, secondo Federico Fubini («Corriere della Sera», 12 febbraio 2018), che ha favorito la nascita all’interno dell’Unione di nuovi paradisi fiscali. La concorrenza è un fattore positivo, ma diventa un ostacolo sulla strada dell’integrazione quando alcuni stati traggono uno straordinario beneficio dai finanziamenti della Commissione europea (e quindi dai grandi pagatori dell’UE), ma attirano aziende con tariffe fiscali particolarmente favorevoli.
È una sorta di dumping fiscale che Francia e Germania vorrebbero correggere armonizzando anzitutto le basi imponibili e successivamente le tariffe (cfr. il blog dedicato alle questioni europee: ).
Il secondo tema è dell’unificazione dei mercati di capitale. Un’Europa federata non può essere un arcobaleno di centri finanziari dove la natura giuridica di un’azione o di una obbligazione cambia da uno stato all’altro, dove le norme sui fallimenti non sono le stesse in tutta l’UE. La matassa è imbrogliata e le resistenze ‘sovraniste’, soprattutto dei partiti euroscettici, sono considerevoli. Ma il fatto che Parigi e Berlino abbiano deciso di affrontare il problema è rassicurante.
Il terzo tema è quello dell’Unione bancaria. È già stato deciso che la vigilanza bancaria spetterà alla Banca Centrale europea ed è stato creato un Fondo europeo per la risoluzione delle crisi creditizie. Occorre comunque una comune garanzia dei depositi bancari ed è necessario che il Fondo europeo possa contare sul denaro pubblico in attesa di quello privato delle banche. Secondo il blog prima richiamato «le trattative sarebbero a buon punto.
La Francia preme su Berlino perché accetti una responsabilità in solido dei conti bancari, la Germania arriccia il naso, ma ha recentemente accettato la messa a punto di un processo a tappe che potrebbe essere approvato a livello europeo entro giugno. I progressi sono lenti, ma dovrebbero a un certo punto dare i loro frutti.
Quanto al paracadute pubblico, questo dovrebbe ormai essere stato accettato anche dalla Repubblica Federale, in cambio della trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità in un Fondo monetario europeo». Resta naturalmente l’anomalia rappresentata dall’esistenza nella Unione Europea di un direttorio ristretto composto da due soli paesi. All’inizio degli anni Ottanta, quando era ministro degli Esteri, Emilio Colombo cercò di creare con il suo collega della Repubblica Federale (era Hans-Dietrich Genscher) un asse italo-tedesco. Tuttavia i rapporti tra la Francia e la Germania erano ben più intensi e profondi di quelli che l’Italia potesse stabilire con la Repubblica Federale tedesca. Ne avemmo la prova nel settembre 1992 quando la Germania sostenne il franco francese, ma lasciò che l’Italia e la Gran Bretagna uscissero dal Sistema monetario europeo. In parecchi casi, quando l’asse franco-tedesco si scontrava con il malumore di altri paesi, l’Italia ha recitato con successo la parte dell’onesto sensale e, più recentemente, è stata indispensabile per mettere all’ordine del giorno il problema della difesa europea. Ma il suo ruolo al vertice dell’Europa dipende, in conclusione, dalla soluzione di due problemi: quello della sua stabilità politica e quello del suo debito pubblico. Se riuscirà a sciogliere questi due nodi, i primi paesi che ne avranno bisogno saranno proprio la Francia e la Germania.

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