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GNOSIS 4/2005
Lenta modernizzazione e caute riforme
l’Arabia Saudita del nuovo Re Abdallah


Marco GIACONI

L’Arabia Saudita è il luogo dove è nata la fede islamica ed è il Paese dove il fondamentalismo islamico ha trovato molti tra i suoi più pericolosi sostenitori (dei 19 dirottatori dell’11 setterbre, 15 erano sauditi, come saudita è Osama Bin Laden). La società saudita si basa su un sistema tribale e su regole antiquate che rendono la gestione del potere particolarmente difficile e irta di ostacoli e pericoli. In questo sistema il nuovo Re Abdallah ha già dimostrato di muoversi in modo equilibrato negli anni in cui ha gestito il Paese come Principe della Corona, garantendo buone relazioni con il mondo occidentale e una politica energetica oculata. Ma quali sono i possibili scenari a cui assisteremo in futuro e quale sarà il destino di un Paese la cui strategia può influenzare l’intera area?


L’ascesa al trono saudita di Abdallah, Principe della Corona nominato da Re Fahd, avviene dopo una lunga fase di riequilibrio del sistema di potere interno alla famiglia reale degli Al Saud.
Abdallah è stato il Principe della Corona di Re Fahd, colpito da un ictus cerebrale fin dal 1995, ed è il suo fratellastro.
Molti analisti sostengono che Abdallah abbia un carattere opposto (e un progetto politico divergente) da quello del defunto Re Fahd.
Il nuovo Re è pio, religioso, poco interessato al modo di vita occidentale, viaggia spesso nel mondo arabo, al contrario di Fahd, che si era ritirato nei suoi palazzi spagnoli e svizzeri e conduceva, pur nei limiti di una malattia invalidante, una vita di lussi e di piaceri mondani.


foto ansa

Re Abdallah è percepito dalla pubblica opinione saudita come un ‘riformatore’ che ha avuto finora rapporti critici, ma sostanzialmente positivi con i gruppi dell’opposizione interna e si dedicherà ad una lenta modernizzazione tradizionalista (non è un ossimoro) del Regno saudita.
La linea politica del nuovo Re è stata denominata ‘Fase di Bilanciamento’ e si dirigerà, secondo molti osservatori occidentali, a risolvere l’arretratezza tecnologica saudita, la lotta contro la versione neoterroristica dell’Islam, la nuova posizione geopolitica del Regno nel quadro del nuovo Medio Oriente successivo alla caduta di Saddam Hussein.
Stranamente, il nuovo re non è tra i ‘sette Sudayri’, ovvero tra i membri della famiglia al trono che sono nati dal matrimonio di Abdul Aziz con Hussa al-Sudayri, un gruppo che comprende, oltre il defunto Re Fahd, il principe Sultan, ministro della Difesa, Nayef, ministro degli Interni, Salman, il Governatore di Riyadh.
Possiamo affermare che i ‘sette Sudayri’ è il gruppo, all’interno della famiglia regnante, più esplicitamente filo-occidentale e, per molti aspetti, quello più filo-USA (1) .
Anzi, Abdallah, prima della crisi del Golfo del 1990-’91, ha avuto fama di critico della dipendenza del Regno Saudita dalla protezione militare USA, ed ha iniziato, fin da quel periodo, una serie di contatti con Siria e Iran, sulla base della sua geopolitica personale, che ritiene la sicurezza del suo Paese collegata strettamente ad una politica di buon vicinato con il contesto delle nazioni islamiche del Medio Oriente.
I suoi rapporti con Sultan, il figlio più anziano di Abdul Aziz e un membro dei ‘sette Sudayri’ saranno la chiave per esaminare la linea politica del suo regno e la temperatura dell’amicizia tra il Paese saudita e l’Occidente.
Certo è che un confronto con Sultan, attuale ministro della Difesa, potrebbe essere difficile per qualsiasi capo politico.
Sultan comanda le Forze Armate, ricche di 105.000 uomini selezionati secondo linee di stretta fedeltà personale e tribale, mentre Abdallah può dare ordini diretti solo ai 57.000 membri della Guardia Nazionale, una formazione esterna alle Forze Armate pensata per essere la Guardia Pretoriana della famiglia Reale (2) . Certo, per capire il nesso tra i sauditi e la Siria, probabile futuro punto di nuovo sviluppo delle relazioni tra il Regno e tutta l’area mediorientale, centro geopolitico del nuovo Re Abdallah, occorre andare indietro fino al termine degli anni ’60, quando Riyadh contribuì con i suoi petrodollari alla ricostruzione delle forze armate di Assad, messe fuori gioco da Israele nella Guerra del 1967.
Negli anni successivi, il Regno ha mantenuto un suo ruolo di sostegno, instabile ma pur sempre fondamentale, per il regime baathista della famiglia alawita (e quindi ai limiti dell’apostasia, secondo i criteri islamici) degli Assad.
Oggi, da alcuni reports da fonti turche e tedesche, sembra perfino che il governo siriano sapesse in anticipo, tramite suoi agenti, dell’11 settembre e degli attentati di Londra del 7 luglio scorso (3) .
La logica geopolitica dell’attivismo saudita era, ed è, del tutto comprensibile: coltivare i rapporti preferenziali con un Paese che può controllare l’Iraq, può fornire la profondità strategica degli Al Saud verso il Caucaso, area essenziale per il controllo geopolitico del petrolio non-OPEC, e fare pressioni sull’Iran, alleato-concorrente per il mercato petrolifero del cartello OPEC, sostenitore negli anni della prima crisi del Golfo delle minoranze sciite nel Regno e, soprattutto, futuro fornitore di una strategia globale atomica a tutta l’area del Golfo (4) .
L’assistenza saudita ai siriani ha raggiunto il culmine quando il regno ha fatto la parte del leone nel finanziamento panarabo di cinque miliardi di dollari USA ad Hafez el Assad, che ha peraltro utilizzato gran parte della dotazione per acquisire sistemi d’arma russi.
E’ essenziale comprendere, peraltro, che la politica siriana di sfruttamento del Libano (che è un elemento economico e politico essenziale per il mantenimento del regime baathista degli Assad), e che procederà comunque vadano avanti gli equilibri politici interni del Paese dei Cedri, è in gran parte finanziata e sostenuta dal Regno Saudita, che vede nella presenza siriana in Libano la garanzia di una pressione da Nord verso Israele che risulta fondamentale, secondo i nuovi strateghi panarabi legati a Re Abdallah, per rendere efficace la pressione di Hamas e della Jihad Islamica sullo Stato ebraico a est e a sud (5) .
Immediatamente dopo l’ascesa al potere di Bashar El Assad, nel luglio 2000, quattro compagnie saudite formarono un consorzio per investire 100 milioni di USD nel Paese baathista, ma quel che più conta è che questa linea di relazioni bilaterali tra i monarchi sauditi e il ‘socialismo nazionale’ del baath siriano riguarda anche l’intelligence, dato che Abdallah, nei momenti più critici del suo confronto con l’élite dei ‘sette Sudayri’, ha utilizzato l’apparato dei servizi siriani e ha accettato l’appoggio degli agenti siriani (addestrati dalla Germania Est e dai sovietici) per aggiornare le tecniche di controllo politico e sociale della Guardia Nazionale.
Fra l’altro, è stata proprio l’intelligence siriana a giocare un ruolo-chiave nella preparazione dell’attentato del 2002 alla base statunitense nel Paese saudita, come hanno peraltro dimostrato sia le inchieste USA che quelle della polizia saudita.
Il rapporto con l’area neoterroristica e jihadista nel Medio Oriente tenuto dall’Arabia Saudita è sempre un nesso mediato, attento, ma largamente fondato su scelte geopolitiche essenziali per la stabilità e l’autonomia del Regno.
Si pensi al sostegno dato alla Siria per l’addestramento dei vari gruppi neoterroristi e jihadisti libanesi e palestinesi, che grazie al finanziamento saudita non si limita all’armamento e all’addestramento, ma anche al finanziamento diretto dei vari gruppi (6) .
In particolare, l’Arabia Saudita ha sostenuto l’impegno siriano (ma anche iraniano) per l’addestramento della, chiamiamola così, sezione delle Brigate dei martiri di Al Aqsa (oggi ufficialmente chiamate, nei documenti dell’Autorità Palestinese, Brigate Yasser Arafat) diretta dal comandante di Al Fatah Mounir Al-Maqdah, che opera a partire dal Libano.
Ennesima verifica del nesso tra politica panaraba del nuovo Re Abdallah e gestione attenta della situazione palestinese e neoterroristica per destrutturare Israele, ovvero per evitare il coupling tra presenza USA in Medio Oriente e sostegno americano allo Stato ebraico.


Petrolio e politica in Arabia Saudita

Quindi, il Paese degli Al Saud, con il nuovo Re Abdallah, vive una fase politica nella quale i due referenti-chiave nell’area sono Iran e Siria, mentre l’Iraq successivo a Saddam Hussein non viene visto dalla classe dirigente locale vicina alla Casa Reale come una minaccia immediata, né sul piano geoeconomico del petrolio né per quanto riguarda la pressione militare o il potenziale iracheno di innesco di una crisi interna al mondo saudita.


foto ansa

Anzi, la politica USA in Iraq viene vista, sia dalla pubblica opinione araba che da quella influenzata dall’Arabia Saudita, come ambigua e fondamentalmente ipocrita: si afferma la validità delle risoluzioni dell’ONU per quanto riguarda il Paese mesopotamico, mentre non si implementano le risoluzioni delle Nazioni Unite che riguardano Israele (7) .
Ma, per fare una politica di egemonia regionale, che rompa il coupling tra USA e Israele e ricostruisca una presenza autonoma del regno saudita, occorrono le risorse, e quindi la chiave è il management del petrolio.
La percezione che la classe dirigente saudita ha del mercato futuro del petrolio mondiale è quella di una lenta ma inesorabile saturazione, di una moltiplicazione dei concorrenti, di una lunga tendenza all’ eccesso di offerta (8) .
Quindi, la politica della casa di Al Saud è quella di creare una egemonia regionale petrolifera, che rallenti la crescita dei concorrenti globali caucasici, e apra alla gestione politica e bilaterale dei mercati in crescita delle nuove aree geoeconomiche in fase di sviluppo strutturale: la Cina, l’India, in un non lontano futuro l’Indonesia islamica e il Sud Est asiatico.
Ecco quindi la necessità geopolitica di allontanare l’Arabia Saudita dagli interessi globali dei compratori principali dell’Occidente: gli USA, la stessa Unione Europea, il Canada.
La crescita della produzione attuale, quindi, serve all’Arabia Saudita per ‘fare cassa’ e gestire la penetrazione del petrolio futuro disponibile verso altre aree geopolitiche, che siano disposte a ricostituire un mercato del venditore come quello avvenuto dagli anni ’70 fino all’attentato contro le Twin Towers.
Attualmente, il regno della penisola arabica dichiara di aver prodotto 9,25 milioni di barili al giorno nel febbraio scorso; 9,5 in marzo e aprile; 10 milioni di bpd in maggio, secondo gli ultimi dati diffusi (9) . Secondo le previsioni più accreditate, la domanda dovrebbe crescere per altri due anni, sebbene a ritmi meno veloci degli attuali.
Ma quello che è più importante per i pianificatori sauditi è che la produzione nei Paesi non-OPEC non si ritiene possa seguire i ritmi della crescita mondiale della domanda, anzi la crescita della produzione non-OPEC dovrebbe diminuire rispetto a quella del 2002-2003.
Inoltre, il che rende più difficile la situazione geopolitica della casa saudita e le fa stringere i tempi della sua trasformazione interna e del suo nuovo ruolo in Medio Oriente, l’elasticità produttiva dell’Arabia Saudita tende a diminuire costantemente negli ultimi tre anni, il che significa che i produttori mediorientali devono vendere al ribasso le loro scorte di produzione per seguire la domanda globale in crescita (10) .
Il rischio politico inerente ad altri paesi produttori, quali Nigeria e Venezuela, dovrebbe comunque tenere alto il prezzo del barile mediorientale.Ecco una intuibile utilità geopolitica del neoterrorismo: tiene ‘caldi’ i mercati delle materie prime destrutturando selettivamente alcuni Paesi produttori, e irrigidisce la struttura della domanda dei Paesi consumatori.
La crescita del consumo mondiale di energia dovrebbe essere del 57% circa tra il 2002 e il 2025.
La lotta attuale per la stabilità interna in Arabia Saudita e il nuovo equilibrio geopolitico dell’area mediorientale sono pertanto elementi di una nuova forma di concorrenza interna tra i Paesi OPEC e tra questi e l’area dei produttori non-OPEC, lotta geopolitica di inserimento di fenomeni di destabilizzazione interna tra concorrenti e tra questi e l’area non-OPEC alla quale il terrorismo jihadista non è affatto estraneo, anzi ne è un elemento essenziale.
La forma della produzione è indice di qualche problema sia infrastrutturale che strettamente geologico, che ovviamente potranno essere risolti solo a medio-lungo termine: oltre il 50% delle riserve saudite è concentrato in otto campi di estrazione, Ghawar e Safaniyah (campo offshore), due tra i più ‘vecchi’ luoghi di estrazione, producono il 65% del petrolio saudita (con evidenti pericoli aggiuntivi per quanto riguarda la sicurezza, data la concentrazione della produzione) e il campo di Munifa è attualmente bloccato.
La percentuale di impoverimento dei pozzi, in totale, dovrebbe essere induttivamente del 28-30%, e quindi per mantenere lo stesso potenziale produttivo, il Paese saudita ha necessità di trivellare nuovi pozzi (11) .
Nella situazione attuale di prezzi alti (e in crescita) per barile, la produzione tende a diminuire nel breve periodo poiché cade la domanda di beni petroliferi dei Paesi in via di sviluppo.
Quindi, sul piano politico, si crea una forte capacità di trasferimento di capitali dai paesi del ‘primo mondo’ verso i produttori OPEC, e in particolare l’Arabia Saudita, che permette la disponibilità di capitali in petrodollari per investimenti dell’area OPEC nei Paesi in via di sviluppo, futuri clienti del cartello petrolifero a larga maggioranza di nazioni islamiche.
La discussione con gli USA, da parte del Re Abdallah, maturata soprattutto nel recente Summit texano tra l’allora Principe della Corona saudita e George W. Bush, riguarda l’accusa da parte del Paese produttore agli USA di aver causato l’aumento dei prezzi per l’eccessiva arretratezza tecnologica delle raffinerie statunitensi, mentre il presidente Bush ha segnalato ai sauditi la necessità di aumentare l’estrazione di petrolio nel breve periodo per far diminuire i prezzi al barile sul mercato mondiale.
E’ possibile un investimento strutturale saudita nelle raffinerie statunitensi, mentre il Regno ha presentato alla controparte USA un piano di investimenti interni al sistema estrattivo saudita di 50 miliardi di USD per aumentare la produzione fino a 12,5 milioni di barili/giorno dal 2009, e infine raggiungere i 15 milioni di barili/giorno entro 15/20 anni.
Il consumo di energia petrolifera, comunque, a livello mondiale, è previsto che salga di oltre il 50% entro il 2025, quindi il gioco strategico dell’Arabia Saudita di divenire il pivot politico dell’area mediorientale e di costringere i vecchi compratori del ‘Primo mondo’ a seguire le proprie necessità estrattive è, come si direbbe in economia, un ‘gioco a somma zero’.
Un esempio di questa nuova conformazione geoeconomica del rapporto tra produttori e consumatori di petrolio è la proposta di formare, in Iran, una Borsa del Petrolio.
Attualmente, coloro che trattano sul mercato fuori dall’area del Dollaro sopportano costi di transazione aggiuntivi per quanto riguarda le acquisizioni petrolifere (12) .
Ma i produttori mantengono in Dollari USA solo 120 miliardi di USD l’anno dei 110 miliardi di USD al mese (su base di venti giorni operativi) che arrivano nelle loro casse.
E’ una chiara indicazione che i produttori vanno ad investire altrove.
Se il dollaro USA fosse quindi ristretto nel suo ruolo di divisa nazionale, la proposta di una Borsa Iraniana del Petrolio risulterebbe più pericolosa, per gli equilibri geopolitici e interni degli USA, di un attacco nucleare sferrato dallo stesso Iran.
Il punto è che, dal 1998, la trasformazione dei consumi occidentali, la razionalizzazione delle tecnologie, la differenziazione delle fonti energetiche hanno creato uno strutturale meccanismo di sovrapproduzione petrolifera che, in quell’anno, ha causato la caduta del 50% dei prezzi al barile.
Ciò ha lasciato i paesi OPEC con forti debiti pubblici, che possono essere risolti solo creando una carenza strutturale di petrolio in Occidente, anche con mezzi geopolitici, fra i quali il neoterrorismo.
La Cina oggi è responsabile per un terzo della domanda mondiale, e l’India dovrebbe far crescere la domanda di petrolio oltre i dieci milioni di barili al giorno nei prossimi dieci anni (13) .
La presenza statunitense in Iraq è quindi in funzione del controllo da parte di Washington delle seconde riserve petrolifere disponibili sul pianeta, ma non tali comunque da esercitare un controllo geopolitico su una Cina assetata di petrolio.
Beninteso, nessuna scelta strategica è gestita per un solo fine, e il marxismo volgare del fondamento economico della politica estera è ormai inutilizzabile.
Ma certamente questa linea di interpretazione del Regno di Abdallah chiuso tra una costrizione politica tramite il petrolio verso l’Occidente in tendenziale sovraccarico petrolifero e una serie di medie potenze in espansione (e in contrasto geopolitico tendenziale con gli USA e l’Occidente) da fornire di petrolio ad alto prezzo, è uno scenario da studiare con attenzione.
Le società cinesi e indiane cercano nuove aree di estrazione e ricerca, quasi tutte poste in Paesi ‘nemici’ degli USA e dell’Occidente: l’indiana OVL ha tre concessioni in Sudan, altre compagnie indiane sono leader nelle esplorazioni nel Golfo libico della Sirte.
Vi sono contratti per il gas con l’Iran e il progetto di una pipeline attraverso il Pakistan (14) .
Per gestire questo nuovo quadro, l’Arabia Saudita deve risolvere molti problemi interni e di caratere regionale.
Fino a che gli interessi al mantenimento dei prezzi petroliferi alti fanno convergere l’Iran di Ahmadinejad e il nuovo Re saudita, nessun problema.
Anzi, l’interesse geopolitico del Regno sarà finalizzato al sostegno della politica nucleare della Repubblica sciita, che libera risorse petrolifere per l’esportazione e permette una trattativa ‘forte’ con l’insieme dei paesi consumatori occidentali, soprattutto per quanto riguarda la questione israelo-palestinese e la presenza politico-militare USA in Iraq.
Il Regno saudita deve comunque risolvere la questione della sicurezza delle sue esportazioni petrolifere, e garantire simultaneamente la pace nel quadro strategico del Golfo meridionale.
Bahrain e Kuwait, in particolare, sono particolarmente vulnerabili, dato che confinano con il Regno saudita e possiedono le loro aree petrolifere in zone vicinissime all’Iraq e all’Iran.
E’ ovvio che l’Arabia Saudita è ben capace di sostenere la difesa dei suoi alleati minori nel Consiglio di Sicurezza del Golfo, Emirati e Paesi confinanti, ma è assolutamente incapace di sostenere una pressione politico-militare combinata di Iran e Iraq.


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Deve quindi svolgere una politica di alleanze asimmetriche con le altre potenze regionali nell’OPEC mediorientale.
La combinazione tra armi di distruzione di massa e forze convenzionali permette all’Iran di porre un controllo ultimativo sullo stretto di Hormuz, linea vitale per gli scambi sauditi.
L’Arabia Saudita, inoltre, ha sanato l’annosa disputa di confine con il Kuwait, che permette lo sviluppo dei campi di estrazione del gas di Dorra, che sono situati nelle acque all’incrocio dei confini iraniani, sauditi e kuwaitiani.
Nel quadro del Medio Oriente meridionale, l’Arabia Saudita di Re Abdallah ha interesse a mantenere un profilo di leadership nel mondo islamico per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese, come è stato ampiamente dimostrato dal Piano di Re Fahd del 2002.
Israele non ha alcun interesse ad allargare il conflitto fino a includere l’Arabia Saudita (15) .
Certamente il Regno di Abdallah non potrà evitare, se la situazione precipitasse, un impegno militare non irrilevante ma non eccessivo, anche se lo Stato ebraico è certamente il pivot di una significativa minaccia indiretta alla sicurezza saudita.
La pressione costante dello Stato ebraico verso l’Autorità Palestinese e la Siria significa che l’Arabia Saudita è sottoposta a una costante richiesta, da parte del mondo arabo e di gran parte della pubblica opinione interna, a ridurre in modo significativo i suoi legami militari e di sicurezza con gli USA, che porterebbero il Regno a divenire un’area sottoposta all’egemonia iraniana e, in futuro, anche a quella irachena.
Due Paesi, fra l’altro, di capacità estrattiva comparabile a quella del Regno saudita.
Inoltre, i problemi dell’area giordana sono essenziali per la geopolitica saudita.
Nel caso peggiore, il Regno saudita deve studiare l’occorrenza di una caduta del Regno hashemita e la minaccia quindi posta ai suoi confini da uno stato radicale palestinese che potrebbe sorgere dalle ceneri del Regno giordano.
Né, peraltro, l’Arabia Saudita può essere indifferente alle pressioni militari siriane e palestinesi su Israele, che potrebbero generare tensioni interne e, in ogni caso, aumentare eccessivamente i costi sauditi del finanziamento per la Siria e buona parte del neoterrorismo palestinese.
Il Regno non percepisce minacce dall’Egitto. Peraltro, la Repubblica del Nilo è il solo potere militare arabo capace di spingere l’Arabia Saudita in un conflitto con l’Iran e l’Iraq.
Per quanto riguarda i rapporti militari e geopolitici con gli USA, la questione è sommamente complessa, e non sembra possibile che il nuovo Re possa trasformare i rapporti con gli USA così rapidamente come vorrebbe.
Non ha risorse tali da sostenere da solo le sue necessità di proiezione di forza e di sicurezza strategica, il Regno saudita, ma gli USA sono un Paese non-islamico e, soprattutto, rimangono l’alleato migliore di Israele.
Fra l’altro, la presenza americana in Arabia Saudita crea problemi di attrito culturale, oltre al fatto che, dopo l’inizio della Seconda Intifada, il rapporto bilaterale tra gli USA e Israele diviene difficilissimo da sostenere insieme al sostegno militare per gli interessi sauditi.
In parte, gli USA hanno reagito, fin da dopo l’11 settembre, con il riposizionamento delle loro forze navali a Diego Garcia, e espandendo la loro presenza in Kuwait, Bahrain, Qatar, Oman e negli Emirati Arabi Uniti.
Peraltro, sembra probabile che il nuovo Re saudita vorrà migliorare i suoi rapporti di sicurezza e militari con altri partners: la Gran Bretagna opera già per l’aggiornamento delle forze aeree saudite, mentre la Francia ha fornito il Regno di armamento navale aggiornato.
In ogni caso, solo gli USA possiedono sufficiente potenziale di proiezione nel quadrante mediorientale da fare deterrenza verso l’Iran (e, in futuro, verso un Iraq ‘stabilizzato’) e quindi proteggere fattivamente gli interessi sauditi.


Il terrorismo jihadista in Arabia Saudita

Osama Bin Laden torna in Arabia Saudita dall’Afghanistan, dove i sovietici si sono ritirati sconfitti, nel 1989, ma l’anno successivo si sposta in Sudan dopo essere stato messo in carcere a Gedda e inibito all’espatrio a causa della sua attività di contrabbando di armi.
Questa è la ‘scena primitiva’ del rapporto tra Bin Laden e il suo Paese.
La rete di Al Qaeda in Arabia Saudita, centro delle operazioni del jihad di Osama Bin Laden, che ha tra i suoi fini quello di separare il Regno arabo dagli USA e rovesciare la famiglia degli Al Saud, è stata formata all’inizio da Yussef al Ayeri, che era l’unico capo regionale di Al Qaeda a comunicare direttamente con Osama Bin Laden.
La cellula secondaria era diretta da Al Ghamdi, ovvero Abu Bakr Al Azdi, ma tutte e due, oltre le altre successivamente formatesi, sono state infiltrate fin dall’inizio da elementi della Sicurezza saudita.
L’organizzazione di Bin Laden incolpa la monarchia saudita di essere se stessa, ovvero appunto una monarchia, illegittima secondo la sua interpretazione dei precetti islamici, e la corruzione, che Al Qaeda vede correlata alla presenza degli USA sul suolo saudita (16) .
La linea del nuovo Re sembra ormai chiara, dopo i recenti arresti e le azioni della Sicurezza: rompere il legame tra alcuni membri della vasta famiglia reale con Osama Bin Laden e la sua organizzazione terroristica, talvolta utilizzata per la lotta politica interna tra le varie fazioni del gruppo al potere, distruggere la rete della jihad in Arabia Saudita, e porre quindi questi successi sulla bilancia di un nuovo rapporto con gli USA, che permetta al Regno una maggiore autonomia geopolitica sia nei rapporti con l’Iran che in quelli con l’Iraq post-Saddam.
Le accuse all’Arabia Saudita successive all’11 settembre (17) sono il punto dolente della nuova immagine che il Regno intende dare di sé in Occidente.
Attualmente, l’organizzazione di Al Qaeda nel Regno ha colpito essenzialmente gli interessi economici della Famiglia Reale ed ha compiuto il grave errore di sottostimare l’efficacia e la professionalità delle Forze di Sicurezza saudite, che peraltro potrebbero essere parte del gioco politico interno al gruppo dei ‘sette Sudayri’ e il nuovo Re Abdallah.
L’equilibrio di fedeltà, personale e tribale, tra le Forze Armate e di Sicurezza del Regno tra il Ministro della Difesa e il Re, sarà centrale per la gestione della minaccia terroristica interna all’Arabia Saudita.
L’altra operazione che il nuovo Re si incaricherà di portare avanti è quella, come abbiamo detto, della modernizzazione in chiave islamica del Paese saudita.
Una modernizzazione che prevede un maggiore controllo della predicazione islamica, imposto fin dai giorni successivi all’11 settembre dal Principe della Corona Abdallah, e quindi una sorta di rigerarchizzazione dell’islamismo che potrebbe portare l’Arabia Saudita a una sorta di nuova leadership religiosa all’interno dell’area sunnita.
E’ la contropartita della riforma modernizzatrice: il regno degli Al Saud, nato dalla fusione, anche familiare e clanica tra il gruppo tribale dei Bin Abdulaziz e la predicazione di Al-Wahab, si è sempre retto sulla gestione diretta del rapporto tra sudditi e apparato burocratico-familiare degli Al Saud (18) .
Oggi, con il Re Abdallah, questo meccanismo si ripropone in funzione di una possibile e forte presenza di una società civile autonoma saudita sensibile alle istanze del neoterrorismo jihadista.
L’allontanamento di Bin Laden prima in Afghanistan e poi in Sudan, prima dell’11 settembre, non ha risolto i problemi di sicurezza politica interna del Regno.
Il potenziale di instabilità dell’Arabia Saudita permane elevato, tale da non permettere una ridefinizione della sicurezza regionale dopo la pacificazione dell’Iraq.
Si pensi inoltre che la società saudita è, come tutte quelle islamiche oggi, caratterizzata da oltre il 50% della popolazione sotto i 25 anni, da una progressiva carenza di posti di lavoro (che la ‘saudizzazione’ delle attività prima gestite da stranieri non ha sanato), dalla espansione del potere dell’islamismo radicale nelle università e nelle scuole, dalla nuova dislocazione dei potenziali petroliferi e di sicurezza nel Medio Oriente (19) .
Quindi, siamo di fronte a una sorta di ‘disturbo bipolare’ del Regno saudita: la crisi interna spinge la classe dirigente locale a indebolire i propri legami con gli USA, per sostenere una pubblica opinione radicalizzata, mentre il welfare state petrolifero diviene sempre più difficile da sostenere e l’area produttiva della popolazione si riduce, a causa della crescita della natalità.
Se Re Abdallah saprà gestire un nuovo patto di sicurezza con gli USA, per tenerli sul suo territorio e quindi trattare seriamente e credibilmente con Iran e Iraq, e insieme sostenere una riforma religiosa e culturale interna capace di eradicare il neoterrorismo, questo sarà davvero una quadratura del cerchio all’altezza della tradizionale capacità mediatoria della Famiglia Reale saudita.
Dall’altra parte, gli USA sanno benissimo che parte della bolletta petrolifera pagata all’Arabia Saudita va a sostenere il terrorismo islamico in Afghanistan, Nordafrica, Bosnia, e in tutti i Paesi dove si sia instaurata una guerriglia terrorista e fondamentalista (20) .
Ma quale potrebbe essere l’alternativa geopolitica, a parte la pressione sul governo saudita? L’abbandono dell’area, che porterebbe a una rapida implosione terroristica del Paese, e alla successiva egemonia regionale iraniana, uno Stato del-l’”Axis of Evil”?
La costrizione ad una ‘democratizzazione’ occidentalista nel Paese wahabita, sul modello iracheno?
E’ probabile che la popolazione si rivolterebbe o, magari, porterebbe al potere, con il voto, proprio i predicatori estremisti e i dichiarati sostenitori della jihad globale contro i ‘crociati e gli ebrei’.
Quindi, è probabile che gli USA mobiliteranno altre strutture militari intorno al Regno saudita, per condizionarne gli sviluppi senza generare altri problemi alla casa di Al Saud, ma sono comunque condannati a rimanere i guardiani della dinastia wahabita, che finanzierà stabilmente, nel prossimo decennio, i competitori globali degli USA e investirà, in Nordamerica, petrodollari sempre più necessari al sostegno del ‘doppio deficit’ (interno ed estero) della moneta statunitense. Sempre che l’ipotesi di ‘fare a meno del dollaro’ degli iraniani, di cui abbiamo parlato, non divenga interessante.
In ogni caso, il Re Abdallah non tenterà un controllo particolarmente violento e poliziesco della rete islamista interna all’Arabia Saudita.


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Il potere degli Al Saud è troppo dipendente dal consenso gestito dalla macchina dei mullah islamici, e infatti finora il Re, da Principe della Corona, ha sempre cercato di venire a patti con l’opposizione fondamentalista interna al Paese saudita.
Gli arrestati per l’attentato alle Torri Khobar, di cui peraltro sono noti i contatti con l’Iran, sono stati interrogati con estrema difficoltà dagli investigatori USA.
Gli attentati alla Guardia Nazionale Saudita del 1995 a Riyadh, perpetrati da quattro sauditi che dichiaravano di operare agli ordini di Osama Bin Laden, sono stati ‘coperti’ agli investigatori USA; e gli attentatori sono stati impiccati prima che l’FBI potesse interrogarli (21) . Insomma, si deve presumere che l’allontanamento degli USA dal quadrante strategico saudita debba continuare.
Sul piano psicologico, che è essenziale per la valutazione dei comportamenti di massa, i sauditi si ritengono superiori ai loro ‘fratelli’ arabi, oltre a fomentare un radicato risentimento nei confronti di tutti gli stranieri, ovviamente soprattutto gli ‘infedeli’.
Questo strano disequilibrio di massa si riflette sulla classe dirigente: dopo l’arrivo ufficiale al potere di Abdallah nel 1995, il Re Fahd riottenne parzialmente il potere nel 1996, si ritiene su pressione dei ‘sette Sudayri’ che erano scontenti della nuova gestione di Abdallah.
Si riferisce, addirittura, che il pio Principe della Corona, oggi Re, avesse in animo di arrestare i viziosi e immorali principi vicini a Re Fahd (22) .
Sul piano delle riforme interne, come abbiamo già visto, tutto sarà molto lento, se mai vedrà la luce.
Quindi: la gestione della politica interna saudita sarà, quindi, inevitabilmente lenta, e comunque profitterà di questi anni di ‘vacche grasse petrolifere’, mentre gestirà la pressione dei concorrenti OPEC e non-OPEC con tutte le armi, lecite e illecite, della politica internazionale.
Altro elemento essenziale sarà la politica bilaterale USA-Arabia Saudita, che vedrà il sostegno collaterale, con investimenti mirati, della Casa Reale saudita a investimenti USA nel Golfo e, in ogni caso, nel settore delle infrastrutture petrolifere.
L’idea di Re Abdallah di utilizzare l’Iran come pivot militare nei confronti dell’Occidente, per ‘tenere fuori’ gli interessi non-islamici dal petrolio, continuerà, magari con un finanziamento saudita ai progetti di armi atomiche iraniane, come anni fa era già accaduto con i sistemi nucleari pachistani contro l’India.
L’Unione Europea, se il mondo arabo e islamo-ariano deciderà di passare all’Euro, godrà dei benefici della nuova, eccezionale liquidità, ma non avrà nessun tipo di controllo politico-militare sulle decisioni dei Paesi del Golfo e dell’area iranica.
Il neoterrorismo islamista, se sarà deciso che sopravviva a sé stesso, colpirà le aree marginali della produzione petrolifera e i Paesi meno capaci di trattare le condizioni finanziarie dell’importazione di greggio (23) .


(1) Middle East Intelligence Bulletin, Vol. 1, No.10, October 1999.
(2) Gregory Gause, The Approaching turning point: the future of U.S. Relations with the Gulf States, Brookings project on U.S. Policy towards the Islamic World, Analysis Paper, Washington D.C., May 2003.
(3) Syrian had inside knowledge of 9/11 and London bombings, Spiegel on line, 24 Agosto 2005.
(4) Steve Plaut, The coming economic collapse of Syria, Middle East Quarterly, Sept. 1999.
(5) Michael Levitt, Syrian sponsorship of Global Terrorism, the need for accountability, Policywatch, No. 660,
Sept. 2002.
(6) Middle East Intelligence Bulletin, The Syrian-Saudi Arabian Nexus, Vol. 5, No.7, July 2003.
(7) Middle East Institute, Policy Brief, US challenges and choices: Saudi Arabia: A View from the Inside, 2004.
(8) Intervento del Ministro del Petrolio saudita Al Naimi al Center for Strategic and International Studies, 31 Marzo 2005.
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(10) EIA, Short Term Energy Outlook, July 2005.
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(12) Toni Straka, Killing the dollar in Iran, Asia Times, 26 Agosto 2005.
(13) The Guardian Weekly, April 29-May 5, 2005.
(14) Singapore Business Times, India works hard to secure Oil, 25 Febr. 2005.
(15) Anthony Cordesman, Saudi Arabia enters the 21st century, CSIS, Ottobre 2002.
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(18) F. Gause, Oil Monarchies, McGill University, 1994.
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(20) FrontPage magazine, Symposium: the Future of US-Saudi Relations, 11 June 2003.
(21) The Moshe Dayan Centre, Joshua Teitelbaum, Why Riyadh stiffs America, 22 Ottobre 2001.
(22) Jerusalem Center for Public Affairs, Jerusalem Letter, Mordechai Abir, Saudi Arabia in the 1990’s: stability and foreign policy, September 1997.
(23) Fiona Hill, S. Telhami, Does Saudi Arabia Still matter? Differing perspectives on the Kingdom and its oil. Foreign Affairs, November 2002, The Brookings Institution, Washington D.C., 2002.

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