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GNOSIS 4/2005
Come e perchè nacque Watergate
dietro la maschera di Gola Profonda


Alberto FLORES D'ARCAIS

Watergate è una parola che è entrata nel linguaggio comune per indicare una vicenda o una scoperta imbarazzante e scandalosa. E’ sovente usata come termine di paragone, per verificare la gravità di una verità improvvisa ritenuta grave al punto da poter minare un qualsiasi sistema. Lo scandalo Watergate ebbe un signifcato terribilmente importante, non solo per la civiltà statunitense ma per tutto il mondo occidentale: con esso si esplorò, come mai era stato fatto fino ad allora e grazie al contributo degli organi di informazione, il lato oscuro della democrazia; con esso si guardò negli occhi quel demone logorante e tentatore presente in qualsiasi sistema di potere. Lo scandalo contribuì ad alimentare un atteggiamento cinico e sospettoso su alcune caratteristiche del sistema di potere negli States i cui effetti ancora oggi si fanno sentire.


Il 17 giugno del 1972 era un giorno come tanti. A Washington, DC, capitale degli Stati Uniti d’America, non era successo nulla di particolare che valesse la pena raccontare, se non fosse stato per quel pezzetto di nastro adesivo che Frank Willis - una guardia di sicurezza che lavorava nel ‘Watergate’ un lussuoso complesso con albergo, residence ed uffici - notó nella porta che dal piano terra portava al parcheggio sotterraneo del grande albergo. Era un nastro comune, attaccato da abili mani per fare in modo che la porta restasse aperta. Quasi senza pensarci Frank lo staccò e riprese tranquillo il suo giro di controllo negli edifici. La storia e il mondo avrebbero forse preso sentieri diversi se Frank Willis non fosse nuovamente passato, poco dopo, davanti a quella porta; un altro pezzo di nastro era stato attaccato, qualcuno voleva proprio che quella porta rimanesse aperta. Fu a quel punto che il ‘vigilante’ si insospettì; pensando che qualche ladro si fosse intrufolato nel palazzo, alzó il telefono e decise che quella di chiamare la polizia era decisamente una buona idea.
Piú o meno in quegli stessi istanti il sergente Paul Leeper e i poliziotti Carl Shoffler e John Barret stavano dirigendosi, vestiti in abiti civili e a bordo di un auto ‘civetta’, verso Georgetown – il quartiere più vivace di Washington, i cui bar e ristoranti frequentati da studenti, politici e bella gente erano spesso terreno di caccia per l’antidroga o la buoncostume – quando, erano esattamente le 1 e 52 del mattino, la radio di bordo gracchiò l’allerta ‘porte aperte’: un possibile tentativo di rapina era in corso nell’elegante complesso del Watergate. Una rapida conversione ad ‘U’ e nel giro di un paio di minuti i tre poliziotti vestiti ‘casual’ si trovavano nella lobby del Watergate per incontrarsi con l’agente della ‘security’ Willis.
“Se pensate che siamo saltati dalla macchina e che siamo entrati correndo nell’albergo vi sbagliate”, ha raccontato tempo dopo il sergente Leeper; aggiungendo a sua giustificazione che “c’erano talmente tanti allarmi di rapina in quei giorni a Washington e il novanta-novantacinque per cento finivano per rivelarsi sempre falsi”. I tre poliziotti del ‘Washington Police Department’ non potevano certo immaginare di avere allo stesso tempo ragione e torto marcio: perché quella era sì una ‘falsa rapina’, ma dietro alla ‘intrusione con effrazione’ perpetrata nell’elegante complesso della capitale degli ‘States’ si nascondeva una vicenda che sarebbe passata alla storia e che avrebbe costretto alle dimissioni l’uomo più potente del mondo, il Presidente degli Stati Uniti: fu in quella notte del 17 giugno 1972 che il ‘caso Watergate’ ebbe inizio.
Leeper, Shoffler e Barret cominciarono il giro di ispezione del grande complesso iniziando dai ventinove uffici della ‘suite’ al sesto piano dove il partito democratico aveva messo in piedi il quartier generale della sua campagna elettorale.
Quando i tre poliziotti entrarono nella stanza occupata abitualmente dalla segretaria di Stanley Griegg (il Vicepresidente del partito) un uomo scattò in piedi da dietro una scrivania, braccia alzate urlando: “non sparate”. Gli agenti rimasero di sasso: davanti a loro c’erano cinque uomini in giacca e cravatta, di mezza età, che indossavano guanti da chirurgo, erano dotati di walkie talkie ed avevano strane apparecchiature elettroniche.


Bernstein e Woodward da http://my.brandies.edu/news/images
'Deep Throat’, ‘Gola Profonda’, era il nome in codice che Bob Woodward aveva dato al suo informatore segreto che gli rivelava, suggeriva o confermava i ‘segreti’ del Watergate e il sempre piu profondo coinvolgimento del presidente Richard Nixon.
Un nome, ‘gola profonda’ preso in prestito da una pellicola per ‘adulti’ molto popolare (e discussa) negli anni Settanta, ma che era anche - come ha raccontato lo stesso Woodward e come ha confermato l’allora direttore del Washington Post Bill Bradlee - un gioco di parole con la frase ‘deep background’ che, nel gergo giornalistico-politico americano, sta a precisare una fonte che non si deve assolutamente riconoscere, neanche definendola ‘fonte Fbi’ o più semplicemente ‘fonte governativa’. Se vogliamo fare un paragone con le vicende di oggi, una ‘deep background source’ è quella che la giornalista del ‘New York Times’, Judith Miller, si rifiuta di rivelare e per cui sta scontando tre mesi di carcere nel penitenziario di Alexandria in Virginia.
A sentire i racconti di Bob Woodward ‘Gola Profonda’, durante tutto il ‘caso Watergate’ era molto nervoso, ed aveva temuto più volte che la sua reale identità potesse essere scoperta. Oggi sappiamo perfettamente perchè: ‘Deep Throat’ altri non era che W. Mark Felt, a quei tempi ‘numero due’ del Federal Bureau of Investigation (Fbi), il leggendario servizio segreto interno creato e diretto per oltre quaranta anni da Edgar J. Hoover.
Per capire i legami di Woodward con Felt occorre fare un passo indietro di qualche anno. Prima di diventare un famoso reporter (il Watergate gli fece vincere il Pulitzer e gli diede notorietà internazionale) in quell’estate del 1969, Bob Woodward stava servendo la patria come tenente della ‘US Navy’, la Marina degli Stati Uniti. Era stato assegnato al Pentagono come ‘watch officer’, l’uomo che doveva monitorare le comunicazioni del sistema ‘Teletype’ per il comandante delle operazioni navali Ammiraglio Thomas H. Moorer; un militare che successivamente divenne anche il ‘Joint Chief of Staff’, il numero uno delle forze armate Usa.
Woodward aveva un compito catalogato ‘top secret’ ed aveva libero accesso al cosiddetto ‘SPECAT’ (Special Category), dove transitavano “messaggi di inusuale sensibilità”. Inoltre per il suo lavoro era anche in grado di accedere al ‘Top Secret Crypto’, le informazioni crittografiche dei codici di comunicazione. Stando a quanto lo stesso Woodward racconta nel suo ultimo libro - ‘The Secret Man’, the Story of Watergate’s Deep Throat’, pubblicato dopo che Felt ha ammesso di essere ‘Gola Profonda’ - in realtà, al di là delle sue sigle altosonanti il lavoro al Pentagono non gli permetteva “alcun accesso speciale a questioni e documenti di intelligence, che venivano fatti circolare su differenti e separati canali di comunicazione”.
Quel lavoro gli dava peró la possibilità di frequentare spesso i luoghi del potere. E quando, una sera, ci fu da portare una busta ‘urgente’ alla Casa Bianca, Woodward si offrì, come spesso gli capitava, volontario. Fu lì, in una sala dell’edificio in cui si decidono spesso i destini del mondo, mentre aspettava di essere ricevuto per fare la sua consegna, che il tenente di Marina Robert Upshur Woodward fece la sua conoscenza con l’uomo che gli avrebbe cambiato la vita. ‘Mark Felt’, il numero due del Fbi si presentò semplicemente con nome e cognome, non avendo alcuna voglia (racconta sempre Woodward nel suo libro) di intavolare alcun tipo di colloquio con quel tenentino della ‘US Navy’. Fu solo grazie alla insistenza, e alla faccia tosta, del futuro ‘reporter’ del Post che in quella attesa, più lunga del previsto – Felt doveva probabilmente incontrare qualcuno molto in alto, se i funzionari della Casa Bianca lo facevano aspettare come fosse un comune mortale – riuscì alla fine a strappare qualche notizia sul conto dell’uomo che gli stava seduto accanto. Il ghiaccio si sciolse perchè Woodward cominciò a raccontare della sua carriera universitaria al ‘George Washington’, lo stesso college della capitale Usa dove Felt negli anni Trenta aveva frequentato la ‘Law School’.
Sia come sia, Woodward riuscì a farsi dare un numero di telefono e la promessa di poter incontrare di nuovo Felt per avere “qualche consiglio” sul suo futuro che Woodward sperava fosse lontano dalla carriera militare. Da quella sera iniziò a chiamarlo spesso, tanto che alla fine riuscì a creare una sorta di amicizia, quasi un rapporto padre-figlio o tutore-studente che pochi anni dopo avrebbe dato i suoi frutti: sotto forma del più grande ‘scoop’ giornalistico della storia americana.


da www.cronologia.it

Bob Woodward divenne un ‘reporter’ del Washington Post il venerdì 15 settembre del 1971. Un anno prima aveva clamorosamente fallito una settimana di prova nel prestigioso giornale – il capo redattore (ed anche Felt che stava diventando sempre di più il suo mentore) gli aveva consigliato di lasciar perdere con il giornalismo – ma lui, testardo, aveva trovato posto in un piccolo giornale del Maryland (“The Montgomery County Sentinel”) dove si era messo in luce facendo piccoli ‘scoop’ locali e in un paio di occasioni dando anche quello che in gergo giornalistico si chiama un “buco” al Washington Post che lo aveva respinto.
Lo stesso caporedattore della cronaca metropolitana che gli aveva consigliato di cambiare mestiere, si rese conto dell’errore e a circa un anno di distanza dal primo colloquio lo presentò al direttore Bill Bradlee che ne decise l’assunzione.
Nel giorno esatto del suo colloquio con il famoso ‘Editor in Chief’ del ‘Post’ Howard Hunt - un consigliere di Nixon alla Casa Bianca - aveva guidato un ‘burglary team’ (una ‘squadra-ladri’) negli uffici dello psichiatra di Daniel Ellsberg, l’uomo che aveva dato al ‘New York Times’ i ‘Pentagon Papers’: i rapporti del Pentagono sulla guerra in Vietnam che furono fino al Watergate il più grande scoop giornalistico dell’epoca.
Il 2 maggio 1972 Edgar J. Hoover - boss indiscusso del Fbi e per anni l’uomo più potente dell’America del Novecento – morì, lasciando un vuoto difficilissimo da colmare. Quando Felt, che di Hoover era stato un uomo di fiducia tanto da essere stato promosso ai vertici del Bureau, ebbe la notizia fu sicuro che sarebbe toccato a lui prenderne il posto come successore. Ma si sbagliava di grosso.
Il presidente Nixon già da tempo si fidava poco del Fbi e decise che era giunto il momento di mettere a capo dell’intelligence interna un suo uomo di fiducia. La scelta cadde su Patrick Gray, un ‘assistant attorney general’, vice ministro della Giustizia, che già si era occupato di coprire qualche malefatta dell’amministrazione ed era entrato a suo tempo in contrasto anche con qualche agente del Fbi, facendo innervosire più d’una volta lo stesso Hoover.
Per Felt lo shock fu grande, anche se riuscì a mascherarlo in pubblico sempre piuttosto bene. Ma forse quella decisione di Nixon non fu estranea alla sua ‘collaborazione’, come ‘Gola Profonda’, al Watergate. Nonostante lo smacco Felt si rimboccò le maniche e divenne nei fatti – anche se formalmente era il ‘numero due’ - il capo operativo del Fbi; Gray era infatti troppo impegnato a viaggiare per visitare i ‘field office’ e per cercare di capire come funzionasse la delicata macchina del Fbi, lui che tutto era tranne che uno ‘special agent’ e che non godeva certo di grande popolarità tra gli uomini che doveva guidare.
Quel 17 giugno del 1972 erano passate sei settimane dalla morte di Hoover e quando i cinque ‘ladri’ fecero irruzione nel Watergate, Gray era appunto fuori città. Il ‘supervisor’ notturno si rese subito conto che il rapporto che doveva trasmettere era importante – si trattava pur sempre degli uffici del partito democratico - e alle sette del mattino decise di chiamare Felt a casa: “Cinque uomini in giacca e cravatta con le tasche piene di biglietti da cento dollari, che avevano auricolari e materiale fotografico e di spionaggio elettronico sono stati arrestati dentro il quartier generale del partito democratico al Watergate circa alle 2 e 30”. “Che diavolo stavano facendo”, chiese Felt, fiutando subito una grana. “Si tratta di una faccenda un pò complicata, rispose il ‘supervisor’, credo sia meglio che ci incontriamo nel suo ufficio”.
Quando Felt seppe che i cinque uomini arrestati avevano guanti da chirurgo, 2300 dollari cash, che erano in carcere ma si rifiutavano di parlare, che non avevano voluto un avvocato, ma che un elegante lawyer si era presentato, del tutto inaspettato, alla discussione in aula sulla cauzione, Felt disse: “Questa storia ha un sacco di implicazioni politiche, la stampa avrá una giornata occupata”. Due ore dopo che il supervisor aveva avvisato Felt, il caporedattore di turno del ‘Post’ chiamò a casa Bob Woodward. Erano le nove di mattina del 17 giugno 1972.
Woodward non era l’unico ‘reporter’ che venne svegliato d’urgenza quella mattina. Il caporedattore aveva ‘fiutato’ la storia e oltre a Woodward – scelto perché si era occupato come tutti i pivellini di ‘nera’, facendo il giro di distretti di polizia ed ospedali (bisogna ricordare che era al Washington Post da appena nove mesi) altri sette reporter vennero ‘buttati’ su quella strana rapina al Watergate; tra questi c’era anche Carl Bernstein che sarebbe diventato l’alter ego di Woodward fino a formare la più famosa coppia di ‘investigative reporter’ del giornalismo mondiale.
Il primo compito che Bob Woodward ebbe quella mattina fu quello di andare nell’aula della Corte dove i cinque ‘ladri’ erano stati portati per ascoltare i capi d’accusa e discutere l’eventuale cauzione. Con una certa sorpresa Woodward notò che un ottimo avvocato, Douglas Caddy, si era presentato in tribunale, ascoltando con estrema attenzione i procedimenti ma negando in un primo tempo di essere l’avvocato dei cinque: sono qui solo per guardare disse più volte, anche se alla fine ammise che aveva già incontrato uno dei cinque, “una volta, ad un ‘social event’, di Washington”. Il comportamento di Caddy insospettì Woodward, che rimase ancora più stupito quando il procuratore Earl Silbert spiegò al giudice che i cinque avevano dato falsi nomi e che la ‘rapina’ – che non aveva fruttato apparentemente alcun bottino - era stata fatta in modo “altamente professionale e con un chiaro intento clandestino”.
Quando il giudice James A. Belsen chiese ai cinque cosa facessero per vivere, uno per tutti rispose, mentre gli altri annuivano: “gli anticomunisti”. Belsen chiese a quello che aveva parlato e che appariva come il ‘capo’ - James McCord - di fare un passo in avanti e ripeté la domanda: “La sua occupazione?” “Consulente per la sicurezza”. Dove? Bisbigliando McCord disse che era appena andato in pensione da un ‘servizio governativo’. Woodward si avvicinò per sentire meglio e potè quindi ascoltare con chiarezza la risposta all’ennesima richiesta di spiegazione (“in quale agenzia di governo?”) fatta dal giudice: “La Cia”, rispose freddamente McCord.
“Cinque uomini, uno dei quali ha detto di essere un ex impiegato della Central Intelligence Agency, sono stati arrestati ieri alle 2 e 30 del mattino in quella che le autorità hanno definito una elaborata congiura per installare microfoni-spia negli uffici del Comitato nazionale Democratico”. Iniziava così il primo articolo sul Watergate che i lettori del ‘Washington Post’ lessero la mattina del 18 giugno sulla prima pagina del quotidiano. L’articolo aveva la firma di Alfred E. Lewis mentre Woodward e Bernstein comparivano solo come collaboratori insieme ad altri sei nomi, i reporter che si erano occupati del caso il primo giorno. Il ‘Watergate’ del ‘Post’ aveva avuto inizio.


da www.griffith-h.schools.nsw.edu.au/nixon

A tutt’oggi non é ancora chiaro cosa abbia spinto i potenti uomini della Casa Bianca a un’operazione di spionaggio del genere. In quell’inizio d’estate del 1972, a meno di cinque mesi dalle elezioni che lo avrebbero visto trionfare a valanga sul candidato democratico George Mc Govern (una delle vittorie più nette e scontate della bicentenaria storia americana) il presidente Nixon veniva dato in vantaggio di circa 19 punti, un margine di assoluta e totale sicurezza per avere la rielezione garantita. Quell’operazione, già inutilmente rischiosa di per sè, una volta andata male per un banale contrattempo (dovuto però a disattenzione se non dilettantismo dei cinque ‘ladri’) sarebbe costato subito molto cara a Nixon se nei primi mesi dopo il ‘furto’ al Watergate i tentativi di insabbiamento e di depistaggio non fossero andati a buon fine. A 33 anni di distanza nessuno sa bene nean-che che cosa i ‘ladri’ stessero veramente cercando. L’unica cosa certa è che stavano tentando di riparare una ‘cimice’ – che avevano installato tre settimane prima - in un telefono, che stavano frugando in mezzo ai documenti e che ne stavano fotografando alcuni.
Il Watergate inizia per una questione di soldi – anche se Woodward precisa che la famosa frase attribuita a ‘Gola Profonda’ (“follow the money”) non venne in realtà mai pronunciata, ma lo scopo non era certo quello di arricchirsi; lo rimarcò lo stesso Nixon al momento delle sue dimissioni, quando, poco prima di salire sull’elicottero che lo avrebbe portato definitivamente lontano dalla Casa Bianca disse: “nessun uomo e nessuna donna sono arrivati in questa amministrazione e se ne ripartono avendo qualche bene in più di quelli che già avevano quando arrivarono”. Aveva ragione. Il Watergate fu soprattutto una storia di (inutile) arroganza del potere e del desiderio di attaccarsi al potere ad ogni costo. Per l’opinione pubblica americana la grande sorpresa fu che molti, troppi, erano stati disposti a sacrificare i principi e i valori fondamentali per queste motivazioni. Chi non rinunciò a valori e principi fu ‘Gola Profonda-Felt’. Che non era certo uno stinco di santo – difficile che potesse esserlo un ‘discepolo’ di Hoover – ma che come il fondatore del Fbi aveva un suo particolare senso dello Stato e non poteva tollerare gli ‘sporchi trucchi’ della Casa Bianca.
I ‘ladri’ sembravano essere usciti dalla fantasia di un romanziere. Lavoravano agli ordini di G. Gordon Liddy, un ex agente del Fbi che a quell’epoca era un dipendente della Casa Bianca che lavorava come ‘counsel’ al ‘Comitato per la rielezione del Presidente’, meglio conosciuto come ‘Creep’. Un nome ‘sfortunato’, come è stato spesso evidenziato, visto che ‘creep’ in inglese significa strisciare, essere viscido e che nello slang americano è sinonimo di ‘persona disgustosa’ (per usare un eufemismo). Liddy aveva in mente gli schemi di una operazione di spionaggio in grande stile, che prevedeva l’uso di prostitute, di microspie telefoniche, di aggressioni fisiche e anche di sequestri di persona. E per questa ‘operazione’ aveva chiesto un milione di dollari anche se alla fine ne ottenne solo 250mila.
Il suo uomo di fiducia era Howard Hunt, il pensionato della Cia, che una decina di anni prima aveva partecipato al fallito sbarco alla ‘Baia dei Porci’ e che quando venne arrestato al Watergate aveva già scritto 42 romanzi di spionaggio, peraltro non del tutto memorabili.
Tre della ‘banda’ (Eugenio R. Martinez, Virgilio R. Gonzales, Bernard L. Baker) facevano parte della comunità di esuli cubani a Miami ed erano anche loro veterani di quella invasione (e chissà di quali altre operazioni ai limiti della legalità). L’intera ‘gang’ era conosciuta come i ‘cubani’ anche se uno di loro, Frank Sturgis, non era affatto di Cuba. Il quinto era James W. McCord, tecnico della Cia da venti anni, che si occupava della sicurezza del ‘Creep’.
Gli investigatori stabilirono rapidamente i legami tra i ‘ladri’ del Watergate e il comitato per la rielezione di Nixon e l’Fbi rintracciò facilmente i pezzi da cento dollari trovati nelle tasche dei ‘cubani’; provenivano dagli 89mila dollari depositati nel conto bancario di uno dei ‘ladri’ attraverso un legame messicano. Dietro di loro, piano piano, emersero - con più o meno implicazioni e responsabilità - le colpe di quasi l’intero vertice che governava l’America all’inizio degli anni Settanta, gli anni della guerra del Vietnam. Per l’Fbi e per Felt fu abbastanza facile – e sempre più sconvolgente - risalire dal basso fino a Nixon, nonostante il Presidente, in un discorso del 15 agosto 1973 rivolgendosi alla ‘nazione’ (un anno esatto prima delle dimissioni) avesse giurato: “Non sapevo nulla della effrazione al Watergate. Non ho mai preso parte nè sono mai stato a conoscenza di attività di ‘cover up’; non ho mai autorizzato, né incoraggiato subordinati a compiere azioni illegali o ad usare tattiche improprie durante la campagna elettorale. Questa é la pura e semplice verità”. ‘Pura e semplice verità’ che venne alla fine smascherata da due coraggiosi e fortunati ‘reporter’ e da quello che adesso sappiamo essere stato il ‘numero due’ del Fbi; che insieme – i reporter alla luce del sole, ‘Gola Profonda’ dall’ombra di un garage sotterraneo - dimostrarono all’America e al mondo che Nixon aveva raccontato alla ‘nazione’ un cumulo di bugie.
La prima volta che Carl Bernstein e Bob Woodward scrissero insieme un articolo fu domenica 18 luglio. Ambedue divorziati e senza figli i due reporter erano gli unici, del gruppo incaricato il giorno prima di seguire gli sviluppi del Watergate, che si erano recati al lavoro in quel giorno festivo. E da quel giorno, salvo rare eccezioni, scrissero sempre in coppia.
Quando i due si accorsero che la storia era molto più di quanto avessero pensato in un primo momento, Woodward si ricordò di quella che era la sua unica importante ‘fonte’ e decise di contattare Mark Felt. Nella prima telefonata il suo ‘mentore’ rispose in modo freddo e distaccato, ma alla fine Woodward riuscì a strappare la conferma di quanto Eugene Bachinski - il miglior reporter del Post tra quelli che seguivano la polizia - gli aveva detto: nelle rubriche telefoniche di due dei ladri c’era il numero di telefono di un certo Howard Hunt seguito dalla scritta ‘”W. House” o “W.H.”. Non ci voleva molto a capire che si stava parlando della “White House”, la Casa Bianca. Felt confermò anche che Hunt era un ex agente della Cia e da quella telefonata prende il via uno straordinario rapporto tra giornalista e ‘fonte segreta’ che per decenni è stato portato ad esempio per tutti gli ‘investigative reporter’ e che porterà alla rovina il Presidente Nixon.
Affinchè la sua identità restasse segreta Felt stabilì delle regole rigidissime. Woodward non avrebbe mai dovuto chiamarlo per telefono, lui e il reporter si sarebbero dovuti incontrare solo in un ‘parking’ di notte, preferibilmente verso le due.
Il piano era semplice: se Woodward voleva incontrare ‘Gola Profonda’ avrebbe dovuto mandare un segnale da casa sua; il reporter scelse una bandierina rossa, di quelle usate nei lavori stradali, che una sua ragazza aveva una volta raccolto per strada.
Fissata in un vaso da fiori vuoto e messa in evidenza nel balcone del retro dell’appartamento dove viveva Woodward sarebbe stato il segnale che era richiesto, per motivi importanti, un incontro quella stessa notte: alle 2 a.m. nell’ultimo livello di un parcheggio sotterraneo al Key Bridge di Rosslyn in Virginia. Se era invece il numero due del Fbi a voler incontrare Woodward gli avrebbe fatto un segno circolare con un orario nella parte bassa della pagina 20 del New York Times che Woodward riceveva ogni mattina a casa, dato che era un fedele abbonato del giornale concorrente. L’appuntamento sarebbe stato sempre nello stesso garage.
Woodward nel suo ultimo libro dice di non avere ancora capito, e a questo punto probabilmente mai lo capirà, come faceva Felt – che non poteva fidarsi di nessun altro – a controllare il balcone di casa sua ogni giorno e addirittura ad aprire la sua copia del ‘New York Times’ che Woodward riceveva sul pianerottolo e scriverci sopra il segnale convenuto.
Una spiegazione che potrà dare, se ne avrà voglia, solo lo stesso Felt nelle sue memorie sul caso Watergate, che presto saranno pubblicate. Sta di fatto che quegli incontri nel parcheggio sotterraneo, magistralmente raccontati nel film ‘Tutti gli uomini del Presidente’ (con Robert Redford nella parte di Woodward, Dustin Hoffman in quella di Bernstein e Hal Holbrook nella parte di ‘Gola Profonda’) diventarono essenziali per far procedere le indagini giornalistiche (e non) del ‘Watergate’ ed arrivare fino alla richiesta di ‘impeachment’ di Nixon, che la poté evitare solo con le dimissioni.


da www.griffith-h.schools.nsw.edu.au/nixon

L’Fbi fin dal primo giorno aveva cominciato a ‘tracciare’ tutte le possibili connessioni dello strano furto al Watergate con funzionari di ogni rango del Comitato per la rielezione di Nixon e della Casa Bianca. E già il 18 giugno il capo dello staff del Presidente, Bob Haldeman, che diventerà una delle figure di spicco di tutto il Watergate, affrontò il problema del legame ormai pubblico (grazie a un dispaccio della Associated Press) tra McCord e il Creep con il Viceresponsabile della campagna elettorale del Presidente, Jeb Stuart Magruder. La sera del ‘furto’ Alexander P. Butterfield, un oscuro funzionario di seconda fila della Casa Bianca aveva del resto già innocentemente rivelato a un agente del Fbi che Hunt aveva lavorato mesi addietro alla Casa Bianca su ‘documenti altamente sen-sibili e confidenziali”. Come Haldeman già sapeva Hunt era stato consulente – a cento dollari al giorno, cifra all’epoca niente male – per Charles W. Colson, consigliere speciale della Casa Bianca. Ma Hadelman e Magruder erano soprattutto preoccupati che l’Fbi potesse legare il ‘furto’ al Watergate al nome di G. Gordon Liddy, il consigliere finanziario del Creep. Gli ‘uomini del Presidente’ non potevano immaginare che Felt e i suoi, spesso anche all’insaputa di Gray, avevano capito tutto e fatto le debite connessioni molto presto.
Il ruolo di Liddy era chiaro a Felt fin dal 28 giugno, solo undici giorni dopo il furto al Watergate. Non lo sapevano neanche Bernstein e Woodward, quest’ultimo lo scoprirà solo nel 1992 quando gli archivi del Fbi sull’argomento vennero resi pubblici.
Gli incontri tra il ‘reporter’ e ‘Gola Profonda’ continueranno, con alti e bassi, con qualche meeting saltato all’ultimo momento, con un flusso di informazioni sempre più preziose per i giornalisti del Washington Post e sempre più pericolose per Nixon e i suoi.
Una sequenza impressionante: il primo agosto 1972 Bernstein e Woodward scrivono che un assegno di 25mila dollari emesso dalla campagna elettorale di Nixon è finito nel conto di uno dei ladri del Watergate; il 29 settembre 1972 il Post scrive che John Mitchell, quando era ancora ‘Attorney General’ (Ministro della Giustizia), controllava un fondo segreto usato dai repubblicani per finanziare operazioni di ‘intelligence’ contro i democratici; il 10 ottobre l’Fbi stabilisce che l’effrazione del Watergate è solo la punta dell’iceberg di una massiccia campagna di spionaggio e sabotaggio politico condotto per conto del comitato per la rielezione di Nixon, il ‘Creep’.
L’11 novembre 1972 Nixon viene rieletto con una grande maggioranza ma il meccanismo messo in moto da Woodward e Felt non si ferma neanche di fronte al potere sempre più grande della Casa Bianca. I loro incontri producono risvolti sorprendenti: il 30 gennaio 1973 G. Gordon Liddy e James McCord sono accusati di ‘cospirazione, furto e intercettazioni’ nel quadro dell’incidente del Watergate; il 30 aprile 1973 i due principali consiglieri di Nixon, Haldeman e John Ehrlichman, e il Ministro della Giustizia, Richard Kleindienst, si dimettono con lo scandalo che è ormai arrivato all’interno delle stanze più importanti della Casa Bianca.
Il consigliere della Casa Bianca John Dean viene licenziato; il 18 maggio 1973 hanno inizio i lavori della Commissione del Senato che indaga sul Watergate, ripresi in diretta televisiva; il 13 giugno 1973 John Dean confessa agli investigatori di avere discusso del ‘cover up’ del Watergate con il presidente Nixon almeno 35 volte; il 13 luglio Alexander Butterfield, ex segretario presidenziale, rivela in una audizione al Congresso che sin dal 1971 Nixon ha registrato tutte le conversazioni e le telefonate che ha avuto nello Studio Ovale.
La rivelazione dell’esistenza dei ‘tapes’ è per Nixon un colpo terribile.
Il Presidente tenta di salvarsi ordinando che il sistema di registrazione della Casa Bianca venga disconnesso, ma il 23 luglio inizia il suo lungo braccio di ferro con il Senato in seguito al suo rifiuto di consegnare alla Commissione d’inchiesta i nastri registrati alla Casa Bianca. Tra ottobre e novembre 1973 Nixon tenta il tutto per tutto e licenzia in tronco il Procuratore speciale del caso Watergate; si dimettono il nuovo Ministro della Giustizia Richardson e anche il suo vice William Ruckelshaus; il 17 novembre Nixon dichiara alla tv “non sono un disonesto” e proclama per l’ennesima volta la sua innocenza.
Il 7 dicembre la Casa Bianca non è pero in grado di spiegare un ‘vuoto’ di 18 minuti e mezzo in uno dei nastri richiesti dal Senato.
Il Capo dello staff di Nixon, Alexander Haig – per anni sospettato di essere lui ‘Gola Profonda’ - lancia la teoria che una ‘qualche forza sinistra’ abbia distrutto una parte del nastro. Il resto è noto: nel 1974, mentre gli ‘scoop’ del ‘Post’ e gli incontri tra Woodward e Felt proseguono sempre più tranquilli, la Casa Bianca consegna 1200 pagine di ‘transcript’ dei nastri registrati.
La Commissione d’inchiesta pretende però gli originali e il braccio di ferro si conclude il 24 luglio quando la Corte Suprema impone a Nixon di consegnare tutti i nastri. Per il Presidente è finita. Il 27 luglio iniziano le procedure di ‘impeachment’ per ‘ostruzione della giustizia”. L’ 8 agosto Nixon si dimette


Lettera di dimissioni del Presidente Nixon da http://images.virgilio.it
Da allora, per trentuno anni, il segreto sulla reale identità di ‘Gola Profonda’ è rimasto tale nonostante decenni di inchieste, libri, documentari e articoli. In molti pensarono di avere capito chi fosse, i nomi più gettonati sono stati nel corso degli anni il già citato Haig, il procuratore Silbert, il vice di Dean, Fred F. Fielding ma si fecero anche i nomi di Kissinger e di Bush padre.
Ironia del destino vuole che gli unici che avessero capito che si trattava di Felt fossero Nixon e i suoi uomini, con un sospetto che via via diventava quasi una certezza; tanto che nei famosi ‘Nixon’s tapes’, ce ne sono due in cui viene fatto il nome del ‘numero due’ del Fbi.
Nel primo (19 ottobre 1972) il capo dello staff della Casa Bianca, Bob Haldeman parla di Felt: “Sir, sappiamo chi ha spifferato”. “Qualcuno del Fbi?” “Yes, Sir. Mark Felt”. Nel secondo (28 febbraio 1973) Nixon e John Dean stanno parlando di Felt e di come la gente avrebbe reagito sapendo che un uomo del Fbi ha tradito il Presidente: “Non vogliamo delatori nella nostra società; quel figlio di puttana ha parlato, non lo voglio più tra i piedi”.
“I’ m the guy they used to call Deep Throat”, sono il tipo che viene chiamato ‘Gola Profonda’. A tradire il segreto ‘meglio custodito della storia’, che Woodward e Bernstein avevano deciso di rivelare solo dopo la morte della loro preziosa ‘fonte’ è stato il 31 maggio scorso la ‘fonte ’stessa.
Mark Felt ha completamente spiazzato i due reporter e la beffa è stata doppia, per tutti i giornalisti americani; perchè “Felt-Gola Profonda” non ha parlato pubblicamente ma ha rivelato la sua identità a un avvocato, John D. O’ Connor, che ha scritto la storia in esclusiva per il numero di luglio di ‘Vanity Fair’: un mensile fatto molto bene, ma che non ha certo gli strumenti dei grandi quotidiani o dei potenti network televisivi.
Lo scoop dell’ anno nasce nel più imprevisto dei modi, in una tipica casa di un suburb (zona borghese - residenziale) di Santa Rosa, piacevole cittadina della California, cinquanta miglia a nord di San Francisco. Qui, in compagnia della figlia Joan, vive la sua tranquilla vita di pensionato (da quando nel 1973 si è ritirato dal Fbi) Mark Felt; che ancora nel 1999 aveva negato di essere ‘Gola Profonda’ quando a Santa Rosa si sparse la voce che Bob Woodward era stato “inaspettato ospite” a pranzo da Felt e dopo che diverse persone avevano notato la limousine del famoso giornalista parcheggiata a pochi blocchi di distanza dalla casa dell’ ex Vicecapo del Fbi; che per una curiosa coincidenza abita in una via che si chiama Redford, proprio come l’ attore protagonista del film sul Watergate.
Il primo a credere fermamente che Felt fosse “Gola Profonda” era stato James Mann, un ex collega di Woodward al Washington Post, che nel 1992 in un lungo articolo per l’Atlantic Monthly aveva messo insieme “troppe coincidenze”; sostenendo che al contrario di quanto dicevano in molti - e cioè che “Gola Profonda” andasse cercata tra “intimi” di Nixon - la fonte non poteva essere altri che un uomo del Fbi: perchè le informazioni che passava venivano dai secret files del Bureau e perchè a quei tempi tra Nixon e l’Fbi non correva affatto buon sangue.
Nel 2002 il nome di Felt torna d’attualità e finisce di nuovo sulle prime pagine dei giornali. Timothy Noah rilancia le accuse dalle colonne di ‘Slate’, esce fuori nuovamente la storia del figlio di Carl Bernstein che dice agli amici adolescenti in un campo estivo «Gola Profonda è Felt».
E’ solo a quel punto che - stando al racconto di ‘Vanity Fair’ - Yvette La Garde, una cara amica di Felt, racconta a Joan che in un momento di sincerità l’ex numero due del Fbi gli aveva rivelato di essere stato l’informatore del ‘Post’. Joan affronta a brutto muso il padre, gli rimprovera di aver lasciato che Woodward si arricchisse con le sue informazioni, gli dice che dovrebbe pensare agli studi e al futuro dei suoi nipoti: in altre parole lo invita a dichiarare pubblicamente la verità e magari a guadagnarci sopra un bel po’ di soldi.
Il resto è storia di oggi, con le polemiche seguite alla rivelazione, le accuse di chi bolla Felt come un ‘traditore’ e le difese di chi sostiene che un agente del Fbi aveva il ‘dovere morale’ di salvare le istituzioni da una Casa Bianca corrotta.
Nessuno ancora ha spiegato come sia stato possibile che Felt sia riuscito a mantenere segreta la sua identità fino a quando lui (e i suoi familiari) non hanno deciso di renderla nota.



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