di Sebastiano Maffettone
e Domenico Melidoro
DEMOCRAZIA E SEGRETO
La democrazia è trasparenza. Essa richiede sicurezza e la sicurezza presuppone l’esistenza di segreti, di dati oscurati, di arcana imperii e così via. Questa contraddizione di fondo caratterizza ogni regime democratico, ma assume maggiore rilievo in presenza di tensioni speciali oppure quando il caso in questione raggiunga dimensioni straordinarie per qualità e quantità. Cosa che avviene, di regola, quando informazioni riservate sono proposte da media ad alta diffusione.
Il modo classico di affrontare un problema del genere consiste nel bilanciare due esigenze opposte: da un lato, la necessità di rendere l’opinione pubblica consapevole; dall’altro, l’opportunità di tutelare riservatezza e segretezza. Un conflitto così delineato è immanente al mondo dell’informazione di massa e prende forme assai diverse, dal teleobiettivo che spia da lontano la casa di un politico alla pubblicazione sui giornali di conversazioni telefoniche private, dall’esposizione televisiva di fatti crudeli o di minori all’uscita di libri che raccontano vicende, in qualche modo, private.
La teoria etica e politica ha spesso affrontato la questione. Lo ha fatto nei modi più diversi, andando dal rifiuto reazionario dei media alla maniera di Kierkegaard e di Heidegger all’entusiasmo di chi concepisce il moderno come una sorta di enorme piazza mediatica. Un modo equilibrato per porre la questione teorica di fondo consiste nel contrapporre diritti individuali e utilità sociale. I diritti individuali prevedono l’esistenza di una sfera protetta che circonda ogni singolo individuo. L’utilità sociale, però, richiede che la comunità sia informata quanto più e meglio possibile. Quale di questi due imperativi dovrebbe prevalere? E perché?
Una risposta nota agli studiosi è quella fornita da Ronald Dworkin nella sua raccolta di saggi intitolata A Matter of Principle (1). In uno di questi, l’autore espone un fatto realmente accaduto per trarne una regola affatto generale. Il caso è quello di Frank Warren Snepp, giornalista, classe 1943, già analista della Cia, che si occupava della guerra in Vietnam (lavorava presso l’Ambasciata americana di Saigon). È stato forse il primo whistleblower (letteralmente ‘soffiatore di fischietto’, sinonimo di ‘gola profonda’ o ‘delatore interno’), conosciuto per aver rivelato al pubblico segreti di Stato. Come agente, Snepp era stato ineccepibile, essendo stato, tra l’altro, uno degli ultimi americani a lasciare il Vietnam. Insignito nel 1975 dell’Intelligence Medal of Merit, nel 1977 scrisse un saggio intitolato Decent Interval – senza la previa autorizzazione di Langley – in cui lamentava gli errori compiuti durante l’evacuazione dal Paese del sud-est asiatico, a cominciare dall’abbandono degli alleati vietnamiti. L’Agenzia lo citò in giudizio per violazione del patto che sanciva limiti alla disclosure. Snepp si difese invocando il primo Emendamento sulla libertà di espressione (United States v. Frank W. Snepp III).
Fu condannato per aver procurato un ‘danno grave’ anche se, in appello, la pena pecuniaria fu ridotta. Del caso fu, infine, investita la Corte Suprema, che confermò la sentenza originaria, più pesante per l’imputato.
Dworkin difende Snepp con un argomento diverso da quello usuale che risale a John Stuart Mill. L’argomento di Mill è di stampo utilitarista e fonda la difesa della libertà di espressione sul fatto che la libertà di parola per tutti assicura maggiori possibilità di raggiungere la verità (analogamente a come la concorrenza incide sul mercato). Dworkin, invece, insiste sul diritto individuale – di natura costituzionale – che ognuno ha di esprimersi con libertà. La ragione principale sottesa a questa opzione è riconducibile al fatto che qualsiasi scelta basata sul calcolo dei pro e dei contro – come quella di Mill – indebolisce, in ultima istanza, la libertà di parola e di stampa che, quindi, non può dipendere soltanto da un vantaggio finale per la comunità al netto del saldo costi-benefici. Piuttosto, si deve proteggere tale libertà per ‘questioni di principio’. E il principio che abbiamo in mente è quello che tutela chiunque voglia esprimersi in quanto cittadino libero di una democrazia. Da tale tesi è possibile inferire il concetto secondo il quale i professionisti dell’informazione – come i giornalisti – non hanno speciali privilegi in ragione del maggior impatto che la loro libertà di parola ha sul pubblico, ma sono destinatari della stessa protezione assicurata dalla legge alla generalità delle persone. Com’è tipico delle tesi liberali, questa posizione di Dworkin fa perno sui diritti individuali e sul fatto che – con rare eccezioni – la libertà dell’individuo conta più dell’interesse sociale aggregato.
Se la questione del diritto alla privacy contrapposto alla sicurezza pubblica è antica, non v’è però dubbio che la sua importanza si sia moltiplicata per mille nell’era digitale che, se da un lato, apre prospettive inedite per lo sviluppo delle relazioni umane, dall’altro, evidenzia nuove minacce per le libertà individuali. Il recente caso Snowden è esemplificativo di alcuni degli aspetti principali che connotano il tradizionale conflitto tra diritti individuali e sicurezza nell’era digitale.
SEGRETO, WHISTLEBLOWING E DISOBBEDIENZA CIVILE
Edward Snowden è un giovane informatico americano che ha lavorato presso la Cia e, fino al giugno 2013, ha collaborato con la National Security Agency (Nsa). Proprio a partire da quel mese Snowden è diventato protagonista di una vicenda universalmente nota perché, tramite il quotidiano inglese «The Guardian» e il quotidiano americano «Washington Post», ha rivelato a tutto il mondo il programma di sorveglianza di massa della più grande, sofisticata e tecnologicamente avanzata Agenzia di intelligence del mondo. Per rendere un’idea del suo potere, basti dire che essa è tre volte più grande della Cia e avrebbe al suo servizio 30/40.000 persone. La Nsa, grazie a tecnologie e a personale estremamente qualificato, è capace di intercettare e di immagazzinare il contenuto di comunicazioni in ogni parte del pianeta.
Snowden, rendendo pubblici alcuni dettagli riservati di un programma di sorveglianza di massa, ha esercitato la sua libertà, costituzionalmente tutelata (nel senso sostenuto da Dworkin), per mostrare come la necessità di garantire la sicurezza collettiva possa comportare la violazione di plurimi diritti, soprattutto quelli riconducibili alla privacy. Infatti, negli Stati Uniti del post 11 settembre, i poteri dell’Agenzia sono enormemente cresciuti, fino al punto che ogni cittadino può considerarsi sotto sorveglianza.
Le rivelazioni di Snowden possono essere lette come un chiaro caso di whistleblowing. È un termine spesso impiegato nel mondo degli affari e della business ethics per indicare un lavoratore che rivela pubblicamente alcune irregolarità verificatesi all’interno dell’azienda in cui presta servizio. Nel presente articolo facciamo riferimento a una nozione più generale, riferita a un atto compiuto deliberatamente da un soggetto in possesso di informazioni riservate afferenti ai diritti dei suoi concittadini o al bene pubblico. Il whistleblower decide di rivelare le informazioni cui ha accesso per far cessare le violazioni oppure per evitare danni alla collettività; egli agisce pubblicamente, in quanto le sue rivelazioni sono indirizzate alle autorità pubbliche, allo scopo di creare una larga discussione che consenta di risolvere i problemi emersi (2).
Snowden, come si è detto, ha rivelato informazioni riservate di cui era in possesso e lo ha fatto nella convinzione che l’Nsa stesse seriamente violando i diritti dei cittadini. La sua azione è stata palese fin dal principio, visto che ha divulgato le informazioni ai giornali, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità affinché cessassero le incursioni nei diritti individuali messe in atto da quella struttura. Come prevedibile, le rivelazioni di Snowden hanno immediatamente innescato un ampio dibattito sia in ambito accademico che giornalistico. Secondo alcuni osservatori, le violazioni di diritti individuali dovute all’intrusione della Nsa nella vita privata dei cittadini sarebbero giustificate in quanto necessarie a garantire la sicurezza collettiva. Altri, per esempio, come il teorico politico William Galston, partendo dall’assunto che «il principio guida della nostra Costituzione è la paura della tirannia», ritengono che il sistema di sorveglianza messo in atto dagli Stati Uniti sia eccessivo. Da questo punto di vista, le tecniche di spionaggio dell’Agenzia farebbero pendere in modo esagerato la bilancia a favore della sicurezza e a discapito delle libertà. La conclusione, per quelli che seguono l’impostazione di Galston, è che il Governo abbia attribuito alla Nsa poteri molto estesi che, se impiegati in maniera impropria, potrebbero rischiare di minacciare seriamente le libertà dei cittadini americani (3).
Le brevi osservazioni lasciano capire come nel cosiddetto ‘caso Snowden’ si mostri in tutta la sua interezza il classico trade-off tra sicurezza collettiva e libertà individuali. Nel tralasciare la questione (largamente empirica) riconducibile all’interrogativo se le violazioni della libertà individuale perpetrate dai sistemi di sorveglianza siano effettivamente sufficienti per garantire la sicurezza collettiva in un’epoca di lotta al terrorismo, ci dedicheremo a una questione di natura concettuale e teorica. L’atto di whistleblowing messo in opera da Snowden può essere considerato un caso di disobbedienza civile? Valuteremo se e come molte azioni siano giustificabili in un contesto politico democratico.
A proposito di disobbedienza civile, ci rifaremo alla trattazione offerta dal filosofo americano John Rawls, il più autorevole pensatore politico del Novecento. Rawls ha affrontato per la prima volta il tema della disobbedienza civile in un saggio pubblicato nel 1969 (4). Due anni dopo, le riflessioni sono state riprese in Una teoria della giustizia del 1971 (5), sua opera fondamentale, apparsa nel pieno dei fermenti politici e sociali in favore dei diritti civili. Per Rawls il problema della disobbedienza civile si pone per i cittadini che vivono in uno Stato democratico, più o meno giusto, che si regge su una Costituzione la cui legittimità sia, generalmente, accettata. Le difficoltà teoriche e pratiche riguardanti la tematica sono dovute al fatto che si tratta di un conflitto tra doveri. I casi di disobbedienza civile si presentano, infatti, quando il dovere di rispettare le leggi legittimamente approvate, che costituisce un obbligo politico, entra in conflitto con il dovere, prima facie morale ma anche politico, di opporsi all’ingiustizia. Come è facile intuire, tale forma di disobbedienza può essere vista come una questione riconducibile ai limiti dell’obbligo politico ed è per questa ragione che ogni teoria democratica dovrebbe tenerla in considerazione.
La disobbedienza civile, secondo Rawls, è «un atto di coscienza: pubblico, non violento, e tuttavia politico, contrario alla legge, in genere compiuto con lo scopo di produrre un cambiamento nelle leggi o nelle politiche del governo»(6). Tale manifestazione di volontà è pubblica, nel senso che riguarda questioni pubbliche e non si svolge di nascosto. Si tratta anche di un gesto politico, non solo perché si rivolge alla maggioranza che detiene il potere, ma anche in quanto si basa su princìpi politici, cioè riguardanti la giustizia sociale. I disobbedienti protestano contro le norme e le persone che, deliberatamente e in modo continuato, violano i princìpi fondamentali della democrazia, soprattutto quelli afferenti alle libertà fondamentali. Infine, in continuità con altri sostenitori della disobbedienza civile, come Gandhi e Martin Luther King, anche per Rawls la disobbedienza civile è non-violenta: il ricorso alla violenza tenderebbe, infatti, a oscurare la profondità delle motivazioni politiche.
Si può, pertanto, sostenere che un atto simile sia giustificato solo a determinate condizioni. Rawls ne specifica tre. In primo luogo, deve riguardare situazioni politiche particolarmente gravi come, ad esempio, casi di ingiustizia sostanziale in cui eguali libertà e opportunità siano ricusate ad alcune tipologie di cittadini. Negazione del diritto di voto, repressione operata nei confronti di minoranze religiose o culturali, soppressione di libertà fondamentali, come quella di movimento o di proprietà, sono casi in cui disobbedire è giustificato. In secondo luogo, sostiene Rawls, la disobbedienza civile deve essere considerata «l’ultima risorsa» (7), nel senso che il ricorso alla stessa è consentito solo dopo aver visto fallire altre metodiche per sollecitare ad agire in un certo modo. Dunque, i cittadini possono giustificatamente disobbedire solo quando la maggioranza è inamovibile, oppure insensibile, alle questioni che alcuni cittadini sollevano.
Infine, sussistono dei limiti che i disobbedienti sono tenuti a considerare. In particolare, i casi di disobbedienza civile non possono essere generalizzati, non devono condurre cioè a una situazione in cui la Costituzione e il rispetto delle leggi siano messi in pericolo.
Quando essa è giustificata, opera come un fattore di rafforzamento della democrazia di una società. Come infatti si è visto, i disobbedienti sono spinti a trasgredire alcune leggi in ragione della fedeltà a un ideale di giustizia che riguarda la società nel suo complesso.
Prima di analizzare se il whistleblower Snowden sia anche un disobbediente, osserveremo un’analogia e una differenza fondamentale tra disobbedienza civile e whistleblowing. In primo luogo, entrambi hanno una natura pubblica e mirano ad agire nell’interesse collettivo. Tuttavia, mentre la disobbedienza civile è sempre un atto contrario alla legge, il whistleblowing può manifestarsi anche senza una violazione della legge. Per esempio, le rivelazioni di un whistleblower possono essere giustificate dalla libertà di parola. Oppure, se pensiamo al whistleblowing nell’ambito della business ethics, un’azienda può rendere operativi appositi strumenti di protezione per difendere i suoi whistleblower. In sintesi, riteniamo che, secondo la definizione proposta da Rawls, il caso Snowden possa essere considerato una forma di disobbedienza civile, soprattutto se valutiamo che ricorrano le caratteristiche dallo stesso elencate. Sorgono, tuttavia, dei problemi relativi alla giustificazione del whistleblowing di Snowden.
Sul fatto che le sue azioni abbiano natura pubblica e non-violenta non sembrano esserci dubbi, così come sul carattere contrario alla legge delle rivelazioni, considerata anche la natura strettamente riservata delle informazioni cui egli aveva accesso. Il quesito fondamentale cui fare riferimento è se le azioni di Snowden costituiscano un atto di coscienza, se abbiano carattere politico e se mirino a cambiare la condotta del Governo o, meglio, di un organismo governativo come l’Nsa.
Per la prima ipotesi, possiamo prendere in esame una dichiarazione resa da Snowden all’aeroporto di Mosca il 12 luglio 2013. Egli sostiene di aver agito mosso da una motivazione etica, di aver fatto ciò che riteneva giusto dal punto di vista morale dopo aver riflettuto lungamente. Inoltre, non ha tentato – per quanto noto – di arricchirsi vendendo a governi stranieri le informazioni di cui disponeva, né ha cercato il sostegno di un altro Stato per garantirsi la sicurezza personale. Ha dichiarato di essere stato guidato dall’idea di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale sui pericoli derivanti dallo spionaggio. Per quanto concerne la natura politica delle sue azioni, è chiaro che Snowden ha agito in nome di un ideale di giustizia che postula la tutela dei diritti fondamentali degli individui. In un’intervista del 23 dicembre 2013 al «Washington Post», egli ha dichiarato di aver violato leggi particolari (avendo sottoscritto lo ‘Standard Form 312’ ovvero il ‘Classified Information Nondisclosure Agreement’) che impediscono di rivelare informazioni segrete per mantenere fedeltà al dettato della Costituzione degli Stati Uniti, in particolare agli emendamenti quarto e quinto (che proteggono l’integrità personale e assicurano a ciascun individuo un’adeguata protezione dal potere arbitrario dello Stato) (8).
Infine, per quanto riguarda l’obiettivo delle rivelazioni sulle attività dell’Agenzia, nella stessa intervista Snowden ha dichiarato che non era sua intenzione sovvertire l’Organismo, quanto contrastare specifiche attività al fine di renderne l’operato coerente con i princìpi costituzionali.
Stando alle dichiarazioni diffuse, il whistleblowing attivato dall’informatico americano si configura come un tipico esempio di disobbedienza civile, anche se potrebbe essere messa in dubbio la sincerità delle affermazioni rilasciate e potrebbero essere sollevate perplessità sui motivi che realmente hanno giustificato un simile comportamento.
CONCLUSIONI
Abbiamo sostenuto che democrazia vuol dire trasparenza ma anche sicurezza. Abbiamo difeso il whistleblowing invocando la teoria rawlsiana della disobbedienza civile che, ridotta all’osso, sostiene come – in casi specifici ed entro determinati limiti – la disobbedienza civile non si configuri come una violazione grave dell’obbligo politico (rispettare le leggi), ma come un contributo sui generis alla democrazia. Quando un regime democratico fallisce in ambiti specifici e limitati, la disobbedienza civile può svolgere un ruolo di supplenza, consentendo di fare ciò che è giusto anche quando l’applicazione rigorosa della legge non lo consentirebbe. In parte, una visione del genere si ritiene possa essere applicata a quella specifica violazione del segreto istituzionale riconducibile al whistleblowing, alla maniera di Snowden. Ci sembra, a questo punto, corretto concludere sottolineando i limiti di una simile opzione. Può ben darsi, infatti, che condotte anomale come quelle alla Snowden costituiscano forme di disobbedienza civile virtuosa, nel senso che – in ultima analisi – giovino alla causa democratica. Tollerarle presuppone l’esistenza di un diritto individuale di natura costituzionale – come sostiene Dworkin – che valga più dell’interesse generale a mantenere il segreto. Tuttavia, non si deve trascurare il fatto che comportamenti del genere possano mettere a rischio la stabilità istituzionale. Né si può sottacere la circostanza che chi svela segreti di Stato sa di non diffondere il contenuto di un manuale di boy scout. Questo vuol dire che – in casi del genere – i responsabili di atti di disobbedienza non sono necessariamente immuni da conseguenze legali. Si tratta, come spesso capita, di bilanciare due soluzioni contrapposte: la repressione dura del whistleblowing e il permissivismo totale. Crediamo che una strategia atta a mediarle possa essere più utilmente individuabile e percorribile. Il caso di Snowden potrebbe essere affrontato come un downgrading del reato supposto: si potrebbe ritenere, cioè, che ‘alto tradimento’ costituisca un eccesso repressivo e optare, quindi, per ‘violazione del contratto’ come ipotesi legale più appropriata.
NOTE
1. R. Dworkin, A Matter of Principle, Harvard University Press, Cambridge, MA 1985.
2. Una definizione simile si trova in M. Kumar, For whom the Whistle Blows?, Dissertazione di dottorato, Luiss 2013.
3. http://www.lawfareblog.com/2013/06/william-galston-on-the-nsa-controversies/.
4. J. Rawls, The Justification of Civil Disobedience, in H.A. Bedau (a cura di), Civil Disobedience: Theory and Practice, Pegasus Books 1969, pp. 240-255. Il saggio è stato ripubblicato in J. Rawls, Collected Papers, Harvard University Press 2011, pp. 176-189.
5. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1971.
6. Ivi, p. 348.
7. Ivi, p. 356.
8. Ivi, p. 348.