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personaggi 2/2015
Storie di chi si è dato coraggio

De Martini Francesco De Martini

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Già affermatosi in gesta magnifiche per essenza di valore e temerario ardimento. Braccato dal nemico occupante, venuto a conoscenza dell’esistenza di un deposito di materiali, del valore di miliardi, di grande interesse ai fini operativi dell’avversario, nonostante la stretta vigilanza riusciva a incendiarlo, per sua iniziativa e da solo, con gravissimo rischio e estrema abilità, determinandone la totale distruzione. Subito dopo prendeva il mare su mezzo di scarsa efficienza e, lottando contro l’infido equipaggio e la furia degli elementi, raggiungeva la costa araba, da dove riusciva a ristabilire contatti – come da ordine ricevuto – con la Patria lontana. Incaricato di nuova missione, benché fisicamente debilitato e privo di qualsiasi aiuto, animato da ferma volontà e fede inesausta, si avventurava ancora una volta in mare aperto su fragile imbarcazione di fortuna per rientrare in Eritrea. Catturato da unità navali nemiche, che lo ricercavano, destava l’ammirazione dello stesso avversario per il suo eccezionale coraggio e la generosa noncuranza del pericolo. Fulgido esempio, luminosa affermazione e simbolo della eroica resistenza italiana in terra d’Africa.

Massaua – Daga, 1-7 agosto 1941, Mar Rosso, 16 luglio - 1 agosto 1942


Nasce a Damasco il 10 agosto 1903, figlio di emigrante. Sul curriculum del Gruppo Medaglie d’Oro, alla voce ‘Corso di studi seguiti’ si legge: «Autodidatta». Ha due figli, Liliana e Antonio. Soldato di leva nel 1923, promosso caporale, poi sergente e sergente maggiore, nel 1927 è assunto dal governo etiopico quale istruttore per la condotta di carri armati Fiat 3000. Diviene il primo comandante di un reparto di carri armati e mitraglieri del Negus. Nel 1932 riprende il servizio presso l’amministrazione militare italiana. Va in Eritrea, torna ad Addis Abeba occupata dagli italiani e, nel 1936, è nominato sottotenente per merito di guerra. In Albania nel 1939, dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale è nuovamente in Etiopia. Trasferito all’Ufficio Informazioni del Comando Superiore dell’A.O., nel marzo 1941 è nominato Capo Centro della Dancalia. Ferito e fatto prigioniero dagli inglesi, fugge dall’ospedale militare dov’è ricoverato. Durante la latitanza riesce a incendiare un deposito inglese di materiali bellici e, secondo gli ordini ricevuti, ripara in Arabia Saudita dov’è catturato un’altra volta. Torna in patria a guerra finita e, solo allora, gli è riconosciuto il grado di capitano, pur se con decorrenza retroattiva. Il resto è l’onorata carriera di un militare che, decorato anche di una Medaglia di Bronzo e una d’Argento, diviene generale, forse troppo tardi considerata la sua conoscenza delle lingue, del mondo arabo e dell’Etiopia in particolare. Gli anni (dal 1927 al 1932) trascorsi in prestito a Tafari Makonen, Negus di Abissinia, sono forse i meno eroici ma certo i più avventurosi: De Martini ne lascia il racconto in un lungo articolo, pubblicato sul quotidiano «Il Tempo». Tafari, alias Hailé Selassié, alla fine è detronizzato e muore nel 1975: diventa destinatario di un culto religioso del quale il cantante Bob Marley è appassionato ambasciatore. Singolarmente, nel 1981, se ne vanno due testimoni dell’altalenante vicenda di Tafari: De Martini, che parlò dell’uomo, e Marley, che esaltò l’improbabile dio.


La misteriosa morte dell’Imperatrice Zauditù di Giampaolo Rugarli
...e, sinceramente, mi sento la persona meno adatta per recitare un elogio funebre. Il generale Francesco De Martini era un uomo d’azione, diffidava delle parole, specie delle parole ornate. Ci ha lasciato alla soglia degli ottant’anni, e tutti conosciamo le gesta che, durante la seconda guerra mondiale, gli meritarono il soprannome di ‘Diavolo del Mar Rosso’. Il comando in Dancalia, la ferita, la prigionia, la fuga, la distruzione di un deposito di armi, la seconda cattura... Non c’è nulla da aggiungere, i fatti si commentano da soli. È meno nota l’attività che De Martini svolse in Etiopia, tra il 1927 e il 1932, prestato, se così può dirsi, dal governo italiano al Negus, Hailè Selassiè. Il Nostro arrivò con un dono, un carro armato della serie Fiat 3.000. A me raccontò tutto lui stesso, nei minimi particolari: benché fossi più giovane di lui, mi stimava e mi voleva bene. Come se fossi stato un figlio. Forse il carro armato era un dono un po’ peloso: il mezzo corazzato elargito al Negus non era una meraviglia della tecnica, le blindature erano poco più che lamierino e l’armamento non era tale da impressionare. L’idea andò comunque a buon fine: in breve De Martini si trovò prima ad addestrare e poi a comandare i reparti corazzati del regno di Etiopia. Tra l’istruttore-comandante e il Negus si stabilì presto un rapporto di stima, di amicizia, tant’è che più di dieci anni dopo, quando il sovrano fu rimesso sul trono che gli era stato tolto dagli italiani, questi offerse ospitalità a De Martini, catturato per la seconda volta dagli inglesi. De Martini era un gentiluomo: mai e poi mai avrebbe accettato una prigionia dorata per se stesso, lasciando ai commilitoni le tristezze del campo di concentramento. Ringraziò e rifiutò, riservandosi di rivedere l’amico a guerra finita, come poi avvenne. Ma il mondo stava cambiando a un ritmo sempre più frenetico: oramai si andava a passeggio sulla luna, e il carro armato Fiat 3.000 sembrava appartenere alle poesie di Guido Gozzano. Il vecchio monarca e il vecchio generale sospettavano di essere due sopravvissuti.
Negli anni che De Martini passò alla corte di Hailé Selassié avvennero tante cose: il passatempo preferito era il complotto, e nel 1928 egli domò una sedizione di palazzo, salvando la vita al Negus. Menelik era stato un grandissimo re: era morto nel 1913, e a succedergli era stato chiamato suo nipote Ligg Yasu, che subito aveva mostrato la propria inettitudine e la propria indegnità. Così, a sedere sul trono, era stata chiamata Zauditù, figlia primogenita di Menelik: solo che, nell’esercizio del potere, alla donna doveva essere affiancato un compagno che avesse polso e raziocinio. Il compagno era stato ras Tafari, il futuro Hailé Selassié. Nel 1930 Zauditù morì, e Ligg Yasu, che non aveva mai rinunciato al desiderio di prendersi la rivincita, insinuò che la regina non fosse passata a miglior vita per cause naturali, ma che qualcuno l’avesse assassinata per conto del Negus. Il Negus rimasto solo, si sarebbe potuto fregiare del titolo di ‘re dei re’, e avrebbe assunto un potere totale. Erano tutte sciocchezze. Hailé Selassié era già un padrone assoluto, saggio e illuminato a dire il vero, e non aveva alcun bisogno di eliminare la mite Zauditù, che viveva lontano dal palazzo e dai suoi intrighi, che era religiosissima e tutta presa dalle pratiche della fede. Il suo miglior amico, era tal Basilio, un prete copto monofisita, che dedicava ogni sua energia a imprecare contro il Concilio di Calcedonia. A suo dire, Cristo non aveva una duplice natura, umana e divina, ma aveva solo natura divina, e le sue manifestazioni materiali erano illusioni, allucinazioni, trasparenze, chi sa... Zauditù ascoltava le dotte dissertazioni del consigliere spirituale, e pregava. Certo aveva pregato anche nel momento di rendere l’anima, sebbene fosse arduo comprendere quando, come e perché quel momento si fosse presentato. Le circostanze della sua morte erano oscure, e il Negus mandò De Martini a indagare.
Addis Abeba, che in italiano significa Nuovo Fiore, adesso non so proprio come sia: sembra che conti due milioni e mezzo di abitanti, e che stia diventando una grande capitale moderna. Lo spero. Settantacinque anni fa era una bidonville dove si alternavano baracche di legno o di lamiera e capanne; le costruzioni in muratura erano rare, sconnesse, corrose dal tempo. Più che arterie cittadine, vi era l’intenzione di tali arterie: ed era impossibile disegnare una pianta delle strade e delle piazze, perché l’abitato era un dedalo di vicoletti strettissimi, con andamento mutevole, a seconda dell’apparire o dello scomparire dei tucul, tutti equamente pavimentati col fango. Il verde pubblico era costituito da avari boschetti di bambù, di muse, di eucalipti (si diceva che gli eucalipti tenevano lontana la malaria: frottole, anche se, a 2.500 metri di altezza, le zanzare non trovavano l’ambiente più adatto). Era molto freddo, d’inverno. In compenso il cielo per lo più era limpido, le stelle era come se stessero per scendere sull’altopiano.
La regina Zauditù si era ritirata da alcuni anni in una villetta, al di fuori della città: nel giardino, se vogliamo chiamarlo così, aveva preso dimora una colonia di scimmiotti, mentre, al calar delle tenebre, cominciava a sentirsi il lamento delle iene. Non era la prima volta che De Martini si recava nella dipendenza reale: era un uomo versatile, parlava l’amarico, l’arabo e non so quante lingue, perciò gli era facile entrare in confidenza con la gente che incontrava, quale ne fosse la provenienza. Nella villetta di Zauditù lui era di casa.
Ad aprigli la porta andò Turkane, la cameriera. Era nubiana, una bella ragazza alta e dritta, un po’ efebica. Non disse nemmeno una parola. Scoppiò a piangere. De Martini le accarezzò una guancia, si provò a quietarla. «E allora?» domandò. «Come è accaduto?». Turkane spiegò che la signora non stava molto bene, già da qualche giorno, e che il Negus, preoccupato, aveva spedito i suoi tre medici a rendersi conto della situazione. I tre erano il dottor Hanner (svedese), il dottor Mainberg (svizzero) e il dottor Germaine (francese), scienziati provetti capaci di operare miracoli: se non che Zauditù si era rifiutata di riceverli, e non aveva voluto che la vedessero, nemmeno da lontano. Almeno, così aveva annunciato... È certo che i medici l’avevano veduta da morta e che, a mezza bocca, avevano farfugliato qualche cosa, ma lei, Turkane, benché fosse presente, non aveva capito, e poi sentire era quasi impossibile, con padre Basilio che, inginocchiato accanto alla salma, declamava a voce stentorea le orazioni per i defunti.
De Martini cercò i tre dottori e sollecitò la loro opinione. Il primo a pronunciarsi fu lo svedese, il dottor Hanner: «Credo che la regina fosse stata colpita da una congestione polmonare, abbastanza seria. Ma non tanto seria da spedirla al Creatore. Una appropriata terapia, a base di senapismi, antipiretici e riposo, forse avrebbe scongiurato l’exitus. Purtroppo temo che Sua Maestà abbia agito all’incontrario di quanto dovuto, se è vero, come confidato dall’ancella Turkane, che l’augusta paziente volle lavarsi le mani e il volto. Nelle affezioni polmonari, il freddo dell’acqua è micidiale, si sa, lo sanno anche i bambini».
Lo svizzero Mainberg rincarò la dose: «Sulla diagnosi di congestione concordo pienamente. Forse, a complicare il quadro clinico, hanno giocato anche patologie pregresse: una malaria mai sopita, uno zinzino di febbre gialla e una leishmaniosi cutanea. Ma tutto quello che dico è congetturale, l’impressione di sguardi fugaci... Ho potuto vedere la regina con la necessaria attenzione soltanto quando l’irreparabile era accaduto e, in altro contesto, avrei suggerito il riscontro autoptico, non fosse altro per colmare eventuali lacune della scienza. Trattandosi di una imperatrice, la necroscopia non ho osato neppure nominarla e, se mi azzardo con lei, illustrissimo consulente De Martini, è solo perché il discorso si rivolge a un europeo, libero da pregiudizi. Ma c’è un particolare su cui vorrei richiamare la sua attenzione: il cadavere era completamente bagnato. Fradicio, inzuppato». «Vorrei vedere la salma» dichiarai e feci per avviarmi verso la stanza da letto imperiale.
«È inutile che lei si affretti» sorrise Germaine, il francese. «La salma... la cara salma le verrà mostrata senz’altro. Tuttavia non la troverà nelle condizioni in cui è stata presentata a noi. La regina Zauditù è stata asciugata, e rivestita con una veste regale, una veste all’altezza del suo rango, mentre a noi era apparsa coperta da un miserabile zendado. Ed era madido pure lo zendado. A tutta prima, pensammo che l’imperatrice fosse sudata e tornò alla nostra mente il sudor anglicus, una malattia che tormentò l’Europa tra il tredicesimo e il sedicesimo secolo: si moriva sudando, in un bagno di sudore. Il sudor anglicus probabilmente era una patologia influenzale, qualche cosa di simile alla spagnola di infausta memoria: ma non era certo il caso della imperatrice, che sarebbe stato l’unico soggetto a contrarre una forma fortemente epidemica. Impossibile. Dunque il liquido che spugnava il povero corpo di Zauditù non era sudore».
De Martini – arrivato a questo punto del suo racconto – si interrompeva e tirava il fiato. Aleggiava un sorriso misterioso sul suo volto. Poi mi spiegava che l’enigma del cadavere inzuppato gli aveva suggerito una domanda sbarazzina, irriverente. Non avrebbe voluto formularla, ma le parole gli erano fuggite dalla bocca e: «Quel liquido misterioso era forse vino?» aveva chiesto. Con la massima serietà, il dottor Mainberg rispose: «Impossibile. Ne avremmo percepito l’odore. In realtà si trattava di acqua, come se l’imperatrice si fosse lavata tutta la persona, non soltanto le mani e il volto. Un suicidio. Con una broncopolmonite in atto».
Non era verosimile che Zauditù avesse voluto suicidarsi, per giunta in un modo bislacco e malcerto; l’imperatrice era animata da una profonda fede religiosa, mai e poi mai sarebbe morta in peccato mortale. Evidentemente era caduta in una vasca piena d’acqua. De Martini interrogò la cameriera Turkane sulla ammissibilità di questa ipotesi, ma non trovò conferme. Anzi. «Non ci sono vasche in tutta la casa» spiegò la ragazza, «tranne quelle dei servizi igienici... Sono due, piccole, rotonde, e naturalmente sono vuote: cascarvi dentro è impossibile e, se pure fosse, sarebbe impossibile bagnarsi. A meno che lei, illustrissimo signor consulente, si riferisca alla cappelletta, dov’è il fonte battesimale...». De Martini si picchiò una mano sulla fronte, deplorando la sua smemoratezza. Aveva dimenticato che un locale della villetta, un locale abbastanza ampio, era stato trasformato in una chiesa, per consentire alla regina di pregare Iddio senza doversi allontanare. Al centro della cappelletta stava un invaso di forma grossolanamente circolare: aveva un diametro di un paio di metri, ed era profondo non più di trenta centimetri. Per lo più era vuoto. Veniva colmato di acqua benedetta in occasione di battesimi: erano rare le nascite, anche più rare le conversioni, e quindi, normalmente, nell’invaso non c’era una goccia d’acqua. Inoltre la cappelletta era chiusa a chiave, e le chiavi erano gelosamente custodite dal prete Basilio.
Forse era solo una messa in scena che Zauditù fosse tutta bagnata, un espediente per distogliere l’attenzione da altre compromettenti circostanze. Ben s’intende: sempre che la regina non fosse morta per cause naturali. D’altronde, quali potevano essere le cause naturali? Era assurdo che qualcuno avesse esercitato una qualsiasi violenza: le armi lasciano il segno, come ogni altra aggressione sia pure a mani nude. Non restava che pensare al veleno. Non vi è corte degna di rispetto dove non giri un po’ di veleno, per esempio l’elleboro bianco, e la monarchia di Abissinia era o diceva di essere antichissima, si vantava di provenire da Salomone e dalla regina di Saba. De Martini andò subito al sodo.
«Zauditù potrebbe essere stata avvelenata?» domandò bruscamente a Turkane. L’ancella impallidì per quanto le era consentito dalla pelle scura. «Volevamo bene alla regina» protestò, «tutti quanti. Nessuno avrebbe osato farle del male». «Ne sono convinto anch’io» la rassicurò De Martini, «tuttavia vorrei sapere chi poteva avere l’opportunità di somministrarle una sostanza nociva... Il prete Basilio? I medici? Tu stessa?». «Illustrissimo signor consulente» protestò indignata Turkane, «lei sta dicendo cose assurde... La compianta regina non assumeva farmaci, in alcun modo. Credeva più negli stregoni che nei medici, riteneva che la magia fosse più efficace della scienza. Neppure sarebbe stato possibile aggiungere qualche porcheria al suo cibo o alle sue bevande: lei stessa preparava le sue vivande, e aveva gusti semplici, era frugale. Mangiava quasi sempre farinata di teff, aborriva la carne. Signore, la prego... Si tolga dalla testa l’idea del veleno, che porterebbe a incolpare me... Ero la sola cui era consentito di entrare nella stanza da letto di Sua Maestà, a parte il prete Basilio, si capisce. Cioè. Credo di rammentare che il dottor Mainberg per pochi minuti si infilò nell’augusta camera: l’irruzione si esaurì immediatamente, il dottor Mainberg fu espulso, e poi perché uno scienziato famoso avrebbe dovuto avvelenare la regina?».
Il quesito era ragionevole, nondimeno De Martini si precipitò dal dottor Mainberg. «Lei mi ha mentito!» lo apostrofò a brutto muso. «Mi ha detto di aver visto Zauditù soltanto da morta, e invece apprendo che è stato accanto a lei quando era ancora viva!». «Io non le ho mentito» rispose Mainberg, e nella sua voce c’era più amarezza che rabbia. «Le ho detto di aver carpito sguardi fugaci prima che Sua Maestà spirasse... Non era un parlare chiaro? Mi era sembrata una vergogna che una povera vecchia fosse lasciata morire senza chiedere aiuto alla medicina, così mi introdussi di prepotenza nella stanza dove giaceva l’inferma, con l’intenzione di offrire i miei servizi... Nella stanza c’era la cameriera e c’era il confessore, che mi sbatté fuori come se fossi stato un bestemmiatore sacrilego. A dispetto della penombra, mi riuscì di dare un’occhiata alla regina e sul suo volto sofferente credetti di scorgere le tracce di altri morbi pregressi ... Da queste parti malaria, febbre gialla e leishmaniosi non si negano a nessuno. Non ebbi il tempo di approfondire... fui cacciato malamente, come le ho detto. Portai con me una sola certezza: la regina era così malandata che, per ucciderla, sarebbe bastato un nulla». «Veleno?» buttò là De Martini. «Lei vuole scherzare» sorrise Mainberg, «lei usa i cannoni per sopprimere una farfalletta. Sarebbe bastato un soffio... una corrente d’aria, uno schizzo di acqua fredda, un boccone di traverso. Secondo scienza e coscienza, l’infelice Zauditù era più morta che viva». «Era bagnata?» chiese De Martini. «Era asciutta» informò il medico, «assolutamente e perfettamente asciutta».
A quel punto De Martini seppe chi era il colpevole, se c’era un colpevole. De Martini a modo suo era un uomo religioso: non era un bigotto e forse non era neppure osservante. Pensava (come molti, tra noi militari) che alla fine del cammino risplende la luce di Dio, e che quella luce o la sua speranza deve governare tutta la nostra vita: senza che una Messa o un Rosario in più o in meno ci rendano maggiormente meritevoli della salvezza. Potete immaginare un uomo così quanto fosse disposto a perdere tempo con il concilio di Calcedonia e con le altre cineserie tra le quali si destreggiava il prete monofisita: perciò gli sembrò orribile, anzi mostruoso che la regina avesse dedicato i suoi ultimi barlumi a un personaggio che forse a lei poteva apparire un sant’uomo e che invece a De Martini sembrava un cialtrone.
Aveva ascoltato tutti, ma non il prete. Chi sa, magari Basilio aveva da proporre una sua verità, e, dopo averla sentita, sarebbe stato possibile esprimere un giudizio definitivo sulla dipartita di Zauditù: se era morta condannata da infermità e da vecchiaia o se condannata da un progetto omicida, verosimilmente di Ligg Yasu, il monarca spodestato che aveva ogni interesse a coprire di fango la nobile figura di Hailé Selassié. De Martini scovò Basilio nella cappelletta: era genuflesso e raccolto in preghiera, era nell’atteggiamento di uno che deve farsi perdonare tante cose. Annottava, e cominciavano a udirsi i richiami della foresta non lontana. Iene e sciacalli soprattutto... Aveva un significato che a gridare più forte fossero i predatori delle carogne? De Martini aspettò che il prete si accorgesse di lui, e aspettò per un poco, sebbene persuaso di essere stato avvistato dal primo momento, tant’è che il penitente con la coda dell’occhio, spostando il capo impercettibilmente, ne seguiva i movimenti, lo spiava. Alla fine il prete si eresse sulla sua esigua persona: era piccolo, insignificante, malgrado le scarpe avessero suole troppo alte. Nel suo aspetto non c’era niente che meritasse di essere ricordato, se non forse gli occhi insinceri e la calvizie che ciuffetti di peli più che di capelli interrompevano caoticamente. Parlava affettato, parlava come chi non ha studiato e tuttavia pretende di apparire uomo di cultura, di pensiero.
«Qual buon vento la mena in questa plaga di infelicità?» domandò, e, senza aspettare risposta, continuò: «Va da sé che ‘buon vento’ mai come in questo caso si rivela uno stereotipo... È una tragedia che l’imperatrice sia mancata ai vivi e, mi consenta, pavento che vi saranno mormorazioni a danno del nostro amato Hailé Selassié... Nel nostro pezzo di mondo, purtroppo si fa presto a stendere un velo di disonestà sugli eventi più semplici. La Parca ha reciso il filo della sventurata Zauditù, tutto qui. La maldicenza dovrebbe soltanto tacere».
De Martini sapeva essere rude: afferrò Basilio per il colletto, e quasi lo sollevò da terra. «Quale maldicenza?» esplose. «II Negus, per quanto lo riguarda, si sarebbe augurato che la Regina vivesse cento anni, e anche di più. Non c’è nulla su cui mormorare. Però, se nella morte di Zauditù vi è mistero, tocca a chi le è stato accanto sino all’ultimo di spiegare e di raccontare... In particolare non si è capito perché la poveretta sia morta bagnata. Io non vorrei morire bagnato, e nemmeno lei, reverendo: già morire è un fastidio... perché aggiungere il disagio della pelle e dei panni inzuppati?». De Martini aveva parlato in modo allusivo, e infatti guardava con intenzione l’invaso del fonte battesimale che era colmo sino all’orlo. Il prete comprese che non poteva più far finta di niente.
«La regina» confidò a bassa voce «non aveva alcuna fiducia nella scienza medica. Quando si ammalava, il che capitava raramente, si affidava alla preghiera per guarire... una scelta santa e benedetta che mi poneva orribili tormenti di coscienza. Invero Zauditù non si accontentava di pregare nel chiuso del cuore o tutt’al più a fior di labbra, secondo costumanza di chiunque sia devoto, ma elaborava lei stessa strani riti, strane celebrazioni, ond’io paventavo un periglioso bilico tra il trascendentismo monofisita e la superstizione idolatra... Mi consenta: tra cercare Dio lungo un percorso obliquo e non cercarLo affatto, la scelta a mio avviso non ammette esitazioni. Perciò sopportavo i piccoli feticismi regali, l’esasperato culto delle immagini, lo spreco delle lampade votive o delle candele, la ricerca forsennata delle reliquie... Appena l’infelice donna contrasse la pneumonia che l’ha condotta al cospetto dell’Altissimo, volle curarsi appendendosi al collo un abitino, dov’era custodita un’unghia di San Gerlando. Gerlando fu parroco di Girgenti, all’incirca nove secoli or sono, e che una sua unghia fosse arrivata in Etiopia non era verosimile. Ma le vie del Signore sono infinite, e una illusione che guida sino a Lui è una illusione benefica. Purtroppo l’unghia, autentica o apocrifa che fosse, non conduceva alla guarigione: al contrario lo stato di salute della Regina si aggravava, giorno dopo giorno. L’inferma quasi sempre era in preda al delirio, e non capivo se parlasse o straparlasse: nondimeno presto mi fu chiaro che reclamava una magia più potente di quella sprigionata dallo scapolare. Non si scandalizzi: so che la parola ‘magia’ è impropria, addirittura scandalosa. Tutt’al più si può impetrare un miracolo, un segno della misericordia celeste, e all’uopo basta e avanza la fede, non c’è bisogno di cerimoniali o di liturgie. Ma (mi consenta) sarebbe stato vano discettare di simili argomenti con Zauditù, e, a fin di bene, divisai di compiacerla, e le proposi una aspersione con acqua benedetta. La regina obiettò che una semplice aspersione non sarebbe bastata, e allora le suggerii di immergersi nell’invaso che lei vede, come per ricevere un’altra volta la consacrazione battesimale. «Che dice, padre?» si informò la Regina. «Sarà fredda l’acqua?». «Un pochino» risposi prudentemente. «Nondimeno, Maestà, lei sa benissimo com’è quando si fa il bagno: da principio si rabbrividisce, poi l’organismo si assesta e tutto diventa piacevole». «Mi ha convinto, prete» esclamò, «aspettami nella cappellina». Aspettai, giunse coperta di un semplice zendado, si immerse nel fonte, gridò qualche cosa di incomprensibile, si irrigidì, galleggiò come un gavitello. Fulminata. Una sincope. Possibile che l’acqua fosse tanto fredda? La saggiai con una mano. Era gelata. Probabilmente, con i rigori della notte, si sarebbe trasformata in un blocco di ghiaccio. Il miracolo non c’era stato, e la povera Zauditù era morta stecchita».
De Martini, in quel momento, sentì il tuono brontolare in lontananza: si stava avvicinando il temporale.
Squadrò il prete, dalla testa ai piedi, colse nel suo sguardo una traccia di ambiguità, di doppiezza, e si ricordò di quello che aveva detto il dottore Mainberg, che sarebbe bastato uno schizzo di acqua fredda per uccidere la Regina. Il prete Basilio era un imbecille o un assassino? Inutile approfondire: De Martini avrebbe portato al Negus i risultati della sua indagine, e ogni illazione sarebbe finita. Zauditù era morta di congestione polmonare, e lo spodestato Ligg Yasu avrebbe continuato a esercitare la difficile professione di monarca deposto (fu un fallimento anche come re in esilio: morì cinque anni dopo, distrutto dall’alcol, dalla sifilide, dagli stravizi).
De Martini mi confidò che il ricordo di quella notte ad Addis Abeba non smise mai di tormentarlo, specie durante il tempo in cui fu nella Dancalia. La camionetta sobbalzava lungo le strade paludose e sconnesse, procedeva poco più che a passo d’uomo, per non ribaltarsi: intorno, dai tuguri miserabili, baluginavano i fuochi fatui delle candele. Il tuono rotolava avvicinandosi, presto si sarebbero spalancate le cateratte. Nell’aria tempestosa rimaneva sospeso un mistero, sebbene della morte di Zauditù oramai si conoscesse tutto. Quando, come, perché. Il mistero trascendeva una singola vicenda umana, pur se di teste coronate: involgeva il respiro caldo, umido che giungeva dalla foresta, l’ondeggiamento dei bambù in balia del vento, il grido di paura proveniente da una capanna. C’era un disegno segreto nella vita o tutto accadeva nella logica dei numeri estratti al gioco del lotto?
Undici anni dopo, nel marzo del 1941, in Dancalia, De Martini pensò al suo strano destino, che per due volte lo aveva costretto a combattere contro Hailé Selassié, meraviglioso amico di tempi meno ferrigni, quando il cadeau di un carro armato Fiat 3.000 valeva quello di una bomboniera. La Dancalia (mi spiegava De Martini) è il posto più triste del mondo: non è sopra il livello del mare o allo stesso livello, è molto al di sotto, come una immensa fossa nella faccia della terra. Si scende di cento metri e più, si raccoglie il rantolo dei dannati all’inferno. Nessun timore, è il vento, tira sempre vento nella depressione. La flora è rappresentata da sporadici cespi di erba ingiallita e da tozzi arbusti spinosi, la fauna da grossi sorci e da aspidi velenosi. La scena è grigia. Vi sono laghi e laghetti di acqua salata. La Dancalia è il luogo ideale per ricordare o per sognare un altrove, un qualsiasi altrove, e De Martini si faceva compagnia con la memoria della notte di Addis Abeba. Avrebbe dovuto denunciare il prete al Negus, accusandolo di assassinio, o aveva fatto meglio a incolpare l’incuria, l’ignoranza, il caso innocente?
Hailé Selassié era buono, era saggio, e forse proprio per questo ebbe vicende alterne: perdette il trono e, nel 1975, morì in circostanze che i libri di storia giudicano poco chiare. Anche lui. Non risulta che fosse malato di polmonite, e che facesse un bagno nell’acqua gelata, sia pure benedetta. Fu divinizzato. De Martini probabilmente non seppe di questo seguito metafisico: ma molti neri sparsi per il mondo, specie nell’America centrale, si convinsero che il Negus, noto come Tafari Makonen prima di salire al trono, non era stato abbattuto da una conventicola di rivoltosi, ma aveva continuato a salire, e aveva preso dimora in paradiso, la sua vera reggia. Non era più Tafari o Hailé Selassié ma Jah cioè il Dio biblico. I suoi fedeli si chiamavano Rastafariani o più semplicemente Rasta, e il cantante Bob Marley è stato il loro profeta. Pregano per il riscatto dei neri, per il loro ritorno nella patria africana, per il trionfo dell’amore: spero che, nell’alto dei cieli, Francesco De Martini voglia metterci una buona parola, e che Jah misericorde li ascolti.
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