Il sequestro Moro una strategia allo specchio |
Pio MARCONI |
Negli anni '70, quando si affacciarono sul panorama politico italiano, le Brigate Rosse tentarono di spiegare il loro progetto rivoluzionario con documenti che la quasi totalità dei mass-media definiva “deliranti”. Questo approccio di giornalisti e politologi è stato non soltanto sbagliato ma anche foriero di una pericolosa sottovalutazione del fenomeno B.R. e delle sue capacità di far presa su alcune fasce della nostra società, pronte ad assecondare le scorciatoie ribellistiche proposte dal terrorismo. L’analisi che il Prof. Marconi ci propone dei testi B.R. di quegli anni, dimostra che il pensiero politico brigatista non era affatto distaccato dalla realtà. La decisione di attaccare, con strumenti criminali come il rapimento e l'omicidio, il cuore dello Stato aveva una sua coerenza progettuale tutt'altro che folle. La stessa analisi dei caratteri dello “Stato Imperialista delle Multinazionali" può ritenersi per nulla superficiale se è vero che anticipa alcune visioni successive dei problemi derivanti dalla globalizzazione. foto ansa Colpendo Aldo Moro le B.R. non compiono soltanto un delitto, ma arrivano a mettere pericolosamente in crisi (ed è proprio questo che volevano) gli equilibri fondamentali dei complessi rapporti politici, sociali ed economici che tentavano di pilotare il nostro paese al di fuori delle tensioni interne ed internazionali di quegli anni. Se le B.R. sono state sconfitte lo si deve anche a chi evitò letture superficiali del loro messaggio e predispose serie e coerenti risposte politiche, sociali ed operative. Le basi strategiche Il documento delle Brigate Rosse che traccia le linee lungo le quali sarà condotto il sequestro di Aldo Moro è la Risoluzione della Direzione strategica del febbraio 1978 (1) . Nel testo sono analizzati mutamenti del contesto sociale che suggeriscono di ridefinire precedenti scelte dell’organizzazione e sono sintetizzati (2) temi che da almeno un triennio circolano nelle BR, con l’aggiunta però di robuste novità. La più significativa elaborazione che la precede è la Risoluzione della Direzione strategica dell’aprile 1975 (redatta dopo l’evasione di Renato Curcio dal Carcere di Casale Monferrato) con la quale cambiano le analisi e il comunicare dell’organizzazione armata. Dall’autointervista (3) , prevalentemente divulgativa, ricavata dall’esperienza dei tupamaros, si passa nel 1975 a un’indagine a tutto campo, capace di configurarsi come vero e proprio programma. Il ricorso al solenne strumento della Risoluzione vuole evidenziare un superiore livello di stabilità strategica e organizzativa: le BR mature per un ruolo di direzione complessiva, cioè di partito. La Risoluzione del 1975 e poi quella successiva del 1978, non si limitano ad una descrizione sommaria del contesto, ma cercano di esaminare la congiuntura economica ed i riflessi che essa ha sulla stratificazione sociale, sulla motivazione al conflitto della classe operaia, sulla definizione di nuovi metodi e settori di intervento. Il documento del 1978 ha molti contenuti in comune con quello del 1975 ma contiene alcune differenze. Analoga nei due documenti è la descrizione di un proletariato stratificato e di soggetti sociali emergenti i quali, pur non catalogabili (con un’ottica marxista) nella classe operaia, possono partecipare a una trasformazione rivoluzionaria della società. Analoga è l’analisi della natura del potere politico nella società capitalistica avanzata. L’ipotesi della formazione di uno Stato imperialista delle multinazionali è già tracciata nella risoluzione del 1975. “Lo stato assume in campo economico le funzioni di una grossa banca al servizio dei grandi gruppi imperialistici multinazionali (…) diventa cioè funzione specifica dello sviluppo capitalistico (…) diventa stato imperialista delle multinazionali” (4) . La questione viene ampiamente sviluppata nella risoluzione del 1978. Analogo è ancora il principio secondo il quale l’obiettivo delle BR non è più la fabbrica o il potere economico ma il cuore dello Stato. La questione emerge, nella strategia delle BR, prima del documento del 1975. Un opuscolo dell’aprile del 1974 (5) , sottolinea che l’attacco al centro della decisione politica si rende necessario nel momento in cui il conflitto ha subito perdite di efficacia. Nelle fabbriche, “l’autonomia operaia è abbastanza forte e organizzata per mantenere uno stato di permanente insubordinazione (…) fuori dalla fabbrica essa è ancora debole al punto di non essere in grado di opporre una resistenza agli attacchi della controrivoluzione” (6) . La vulnerabilità della classe operaia impone di colpire il capitalismo nei centri di coordinamento e non solo nel luogo della produzione delle merci. Anche nel primo comunicato sul sequestro del magistrato Mario Sossi emerge la questione dell’attacco al cuore dello Stato: occorre estendere “la resistenza e l’iniziativa armata ai centri vitali dello stato” (7) . Nella Risoluzione del 1975 e poi in quella del 1978 l’attacco al cuore dello Stato è tema centrale. Diversa è la prefigurazione del rapporto con i movimenti. Nel documento del 1975 vi è una accesa polemica con l’Autonomia e i progetti di costruzione di organizzazioni legali che dovrebbero affiancare (o gestire dall’esterno) la lotta armata. Le BR nel 1975 rifiutano di configurarsi come braccio militare della spontaneità di classe e di concepire la crescita della guerriglia “come conseguenza dello sviluppo dell’area legale o semilegale della cosiddetta autonomia” (8) . L’area dell’autonomia è vista nel 1975 come un ambiente politico che indebolisce il progetto brigatista ponendosi in alternativa alla lotta armata (9) . Nel testo del 1978 vi è una contrapposizione con il legalismo che alberga nell’autonomia (10) ma si legge anche il tentativo di ristabilire un contatto con i movimenti (anche con quelli che non agiscono nella logica armata) e di prefigurare un processo di costruzione del partito comunista combattente che veda l’apporto di molteplici ipotesi ideologiche, esperienze organizzative, concezioni dell’agire. Diversa è infine la definizione delle modalità dello scontro. Nel 1975 la situazione non viene ancora considerata matura per un inasprimento della guerriglia. “Il passaggio a una fase più avanzata di disarticolazione militare dello stato e del Regime è prematuro e dunque sbagliato per due ordini di motivi: 1) (…) non siamo vicini al ‘punto di tracollo’; 2) l’accumulazione di forze rivoluzionarie sul terreno della lotta armata (…) ancora non è tale (…) da consentire il passaggio ad una nuova fase della guerra” (11) . Nel documento del 1975 la guerriglia non si configura ancora come guerra civile guerreggiata: “la propaganda armata realizzata attraverso l’azione di guerriglia indica una fase della guerra di classe e non come qualcuno ritiene una forma di lotta. A questa fase segue quella della guerra civile guerreggiata, in cui compito principale dell’avanguardia armata sarà quello di disarticolare, anche militarmente, la macchina burocratica e militare dello stato e spezzarla” (12) . Nel 1978 si prefigura qualcosa di molto vicino alla guerra guerreggiata (13) . Le nuove tecniche di combattimento dovranno infatti assumere “l’aspetto fondamentale della guerra civile dispiegata: l’annientamento delle forze imperialiste”. Il lontano obiettivo della guerra guerreggiata tracciato nel 1975 diventa nel 1978 un obiettivo immediato di guerra dispiegata. Compito dell’organizzazione sarà quindi quello “di passare dalle azioni cosiddette ‘dimostrative’ a quelle che danno al combattimento un inequivocabile significato ‘distruttivo’ della forza nemica” (14) . Deperimento e ripresa di conflitti La continuità tra le due risoluzioni delle BR è il portato di una specifica situazione sociale. La crisi petrolifera, iniziata con il 1974, consente di prefigurare il crollo del sistema capitalistico e un rafforzamento del Terzo Mondo (e del socialismo reale) in virtù della disponibilità di materie prime e del controllo del prezzo della principale fonte di energia. La crisi che indebolisce l’economia di mercato incide tuttavia anche sulla classe operaia e ne rende sempre più difficile la mobilitazione. L’impresa reagisce con una riconversione che riduce l’occupazione e quindi anche il potere contrattuale, il peso politico e la combattività del lavoro dipendente. Più in generale un ciclo di proteste dotate di forte radicamento sociale (nella fabbrica, nell’università, nella scuola) iniziato nel 1966 subisce un rapido declino nel 1973-74 (15) . Con la risoluzione del 1975 si prende atto della fine della conflittualità spontanea, di una disobbedienza diffusa nella fabbrica, per favorire/stimolare le quali avevano operato le prime iniziative brigatiste di propaganda e di attacco ai simboli del comando capitalista. Il deperimento della spontaneità sposta lo scontro dalla fabbrica allo Stato, dal potere economico a quello politico. Vi sono tuttavia dei fattori soggettivi che rendono incomparabile il 1975 rispetto al 1978 e che spiegano le differenze nelle risoluzioni strategiche redatte in quegli anni. Nel 1978 la crisi dell’antagonismo spontaneo nella fabbrica è ancora più accentuata (16) . Nel mondo del lavoro non vi è solo timore per le prospettive dell’occupazione e per le nuove strategie delle imprese (17) , si assiste anche ad una riscoperta di tradizionali strumenti di rappresentanza, testimoniata dal nuovo consenso del quale godono le organizzazioni sindacali, dai successi elettorali del PCI, dalla svolta istituzionale della nuova sinistra (18) . Il consenso che si rivolge al PCI e la nuova strategia della sinistra extraparlamentare, mostrano un ritorno della classe operaia (perlomeno quella impegnata nella fabbrica fordiana) alla fiducia nella politica e nelle forme tradizionali di organizzazione degli interessi/valori. Nella crisi dell’antagonismo spontaneo e in un quadro di rafforzamento della sinistra tradizionale e di stabilizzazione di quella nuova, si manifesta tuttavia una esplosione di lotte politiche che punteggia l’intero anno 1977, investendo le città piuttosto che le fabbriche e lasciando affiorare nuovi protagonisti, una nuova dirigenza diffusa e nuove figure sociali (19) . Si parlerà, nelle analisi di quegli anni, di operaio sociale e anche di un nuovo proletariato giovane, emarginato, soprattutto non garantito né dalle tradizionali politiche di Welfare né da un modo di produzione (fondato sulla fabbrica e sulla produzione crescente di merci) che appare ormai in crisi. La nuova conflittualità alimenta la sovversione urbana, produce contestazioni feroci dei sindacati e del PCI, suscita nuove forme di organizzazione che occupano spazi sociali abbandonati dalla nuova sinistra, agisce sull’organizzazione della lotta armata. Prima Linea che era stata costituita nell’autunno del 1976 (20) raccoglie nel ‘77, prevalentemente nel nord d’Italia, consensi in ambienti del proletariato giovane; il seguito del quale gode è imputabile a un doppio livello organizzativo: presenza nei movimenti di massa, struttura militare centralizzata (21) . Il proliferare (22) accanto a Prima Linea di organizzazioni armate e la presenza nel movimento del 1977 di un instabile tracciato di confine tra creatività e violenza (23) , impongono alle BR di ripensare precedenti atteggiamenti di chiusura verso esperienze nuove. Nel 1975 era stata formulata una critica dura dell’antagonismo disarmato e dell’eterodossia armata, nel 1978 viceversa le BR sentono il bisogno di prospettare una strategia capace di coinvolgere una costellazione di gruppi armati e di riconoscere il ruolo che la disobbedienza metropolitana può avere in una strategia di rivoluzione. Anche il passaggio alla “guerra dispiegata” trova una spiegazione nell’esplosione del 1977. Con la prefigurazione di obiettivi più ambiziosi e di attacchi diretti al centro del potere politico, le BR vogliono mostrarsi capaci di realizzare iniziative di qualità indiscutibilmente superiore rispetto allo spontaneismo che si manifesta con la violenza di piazza o con la costituzione di uno sciame di piccole formazioni armate. Le azioni di disarticolazione/distruzione dei simboli del potere pubblico, l’attacco al cuore dello Stato, devono rianimare una conflittualità operaia in declino raccogliendo in un progetto efficace numerose avanguardie disomogenee e scollegate. Un movimento di “resistenza offensiva” Nella risoluzione del 1978, l’inasprimento/allargamento della lotta armata (24) non discende da uno spontaneo antagonismo di classe piuttosto da una crisi che minaccia la classe operaia, che modifica i connotati dei moderni sistemi liberaldemocratici, che mette a rischio la pace e la coesistenza, che produce diffusione di lotte urbane, che crea nuovi strati sociali antagonisti. Agli effetti recessivi della sovrapproduzione, la borghesia può porre rimedio soltanto con un allargamento coercitivo del mercato, cioè con il ricorso alla guerra che produce distruzione di “capitali, merci, e forza lavoro” (25) favorendo una ripresa del ciclo economico. Una guerra può venire frenata solo da un antagonismo proletario capace di produrre instabilità nelle società capitalistiche e di ostacolare la formazione di un retroterra della borghesia “pacificato e solidale”. Le BR, consapevoli del silenzio della fabbrica, osservano la nascita e il consolidarsi di una sovversione diffusa (26) . “Non ci appare affatto improprio parlare di guerra civile strisciante. Stando ai dati ufficiali, solo nel ‘77 sono state compiute oltre duemila azioni offensive e nel solo mese di gennaio ‘78 oltre trecentocinquanta. Il tutto distribuito su cinquanta province e un centinaio di città” (27) . Le lotte e la violenza che agitano le città e il proliferare di organizzazioni armate mostrano la formazione/affermazione di uno schieramento conflittuale, il Movimento di Resistenza Proletario Offensivo (MRPO): “area dei comportamenti di classe antagonistici suscitati dall’inasprimento della crisi economica e politica”, “area delle forze, dei gruppi e dei nuclei rivoluzionari che danno un contenuto politico militare alle loro iniziative” (28) . Le BR nel definire il nuovo movimento non usano toni trionfalistici, riconoscendo innanzi tutto che esso è privo di unità: “Il concetto di MRPO non riflette un movimento piatto, omogeneo, ma piuttosto un’area di lotta” (29) . Il nuovo movimento di offensiva e di resistenza contiene però delle forti potenzialità: non si lascia imbrigliare da posizioni legalistiche e “nonostante ci appaia alla sua superficie come una congerie di ‘movimenti parziali’ senza connessione o come disordinata esplosione di ‘nuclei combattenti’ (oltre cento negli ultimi mesi) esso in realtà è un movimento unitario solidale e duraturo” (30) . Una nuova stratificazione sociale Per analizzare la situazione della classe operaia le BR si trovano a dover spiegare una molteplicità di dati che sembrano contraddire una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria. Si tratta di comportamenti della classe operaia che non possono essere interpretati soltanto come frutto di intimidazioni. Nella classe si assiste ad un ritorno alla adesione a prassi e valori propri del sindacalismo e della sinistra tradizionale. L’ultimo episodio nel quale si è potuta manifestare una autonomia conflittuale è l’occupazione di Mirafiori del 1973. Nei mesi e negli anni successivi si assiste viceversa ad un riallineamento del lavoro dipendente alle organizzazioni tradizionali anche in virtù della nascita di nuove forme di rappresentanza diretta della base. Le BR non interpretano il nuovo consenso del quale godono le rappresentanze tradizionali del lavoro, come conseguenza delle nuove strategie dell’impresa (tagli dell’occupazione, introduzione dell’automazione, inizi di un decentramento produttivo, spostamento degli investimenti dalla manifattura all’attività finanziaria) ma come il portato di una forte modificazione della struttura sociale e della classe operaia. I cambiamenti economici, politici, dell’impresa, consentono la collocazione su posizioni antagonistiche solo di una porzione del proletariato industriale. Alcuni settori della classe sono portati, oggettivamente e soggettivamente, per la Risoluzione del 1978, a favorire lo schieramento borghese. Il proletariato professionale, che ha perso ruolo e vocazione alla lotta, in conseguenza della automazione dei procedimenti produttivi, tutela soltanto i propri privilegi: una relativa stabilità del posto, un lavoro meno ripetitivo, una minore incidenza dello stress, una moderata autodeterminazione dei ritmi, una parziale autonomia di decisione. Del proletariato solo una parte può essere recuperata all’iniziativa rivoluzionaria, il resto viceversa è portato “all’ideologia del lavoro” (31) . foto ansa L’unica componente della classe oggettivamente schierata contro gli interessi del capitalismo è quella formata dagli operai massa. Il documento sposa su questo punto le analisi dell’operaismo italiano e attribuisce a un proletariato dequalificato, proveniente da ambienti/culture preindustriali, una vocazione all’eversione del sistema. L’operaio massa è “lo strato più rivoluzionario che ha contribuito e contribuisce in maggior misura allo sviluppo della lotta di classe in tutte le forme in cui si manifesta: legali ed illegali, dal gatto selvaggio al sabotaggio, dalla occupazione delle fabbriche alla dura punizione dei capi, dirigenti, fascisti, sino a diventare il nucleo centrale della lotta armata per il comunismo” (32) . In una strategia rivoluzionaria accanto all’operaio massa possono essere collocati alcuni settori del lavoro manuale nel terziario, un nuovo precariato, gli studenti, il lavoro femminile o più in generale l’area della liberazione femminile, settori della marginalità sociale (33) . Si tratta, come si è detto, di gruppi sociali che animano i movimenti del 1977, che sono capaci di guidare le lotte nelle città, ma che si collocano a volte in posizione conflittuale nei confronti del proletariato. Il nuovo possibile schieramento sociale non è quindi unitario e richiede un lavoro di organizzazione e di unificazione. Nei servizi i lavoratori manuali si distinguono per combattività e possono diventar i migliori alleati della classe operaia “dato che di questa vivono praticamente le stesse condizioni pur non producendo valori (v. ospedalieri)” (34) . Il riferimento al terziario è un riconoscimento a quelle aree dell’antagonismo capaci di animare lotte nelle strutture pubbliche. La risoluzione segnala però rigorosamente che il lavoro manuale destinato ai servizi, non formando plusvalore, è privo di quel tipo di antagonismo che, nell’analisi di Marx, deriva dalla specificità della produzione capitalistica delle merci (35) . La divisione della classe è alimentata anche dall’emersione di un conflitto di genere che rafforza il fronte proletario aprendovi però delle contraddizioni. L’attenzione per la specificità di genere è un omaggio alla centralità che i movimenti delle donne assumono nel 1977 e forse anche il portato di conflitti percepibili all’interno della lotta armata (36) . “La soggettività dell’MRPO, come del resto la sua composizione non è omogenea e tra le diverse componenti si svolge una lotta politica e ideologica” (37) . Un ambiente nel quale può radicarsi una scelta rivoluzionaria è quello del non-lavoro, del lavoro precario, della marginalità. L’eccedenza di lavoro favorisce il capitale (configurandosi come esercito salariale di riserva che spinge all’abbassamento delle retribuzioni) ma rappresenta anche un fattore di instabilità in quanto sfugge alla disciplina delle rappresentanze tradizionali. La Risoluzione appare attenta alle trasformazioni dell’occupazione e a fenomeni latenti negli anni ‘70 che diverranno evidenti negli anni ‘80 e ‘90. Il documento analizza il ruolo degli studenti ma soprattutto segnala la crescita di un lavoro instabile che altera la stratificazione tipica della società industriale e crea fasce sociali difficilmente catalogabili (38) . Speciale attenzione è rivolta a quella parte dell’esercito industriale di riserva che si trova nella prospettiva “dell’esclusione totale” (39) . Un mondo che gravita all’esterno o al margine del mercato del lavoro e persino il sottoproletariato extralegale “costituito da residui di classi disgregate”, possono svolgere un ruolo nel progetto rivoluzionario. Non si indulge nel documento a quelle speculazioni sul ruolo dirompente della devianza (tratte da Foucault e dal mix statunitense di sociologia e ideologia della nuova sinistra, formatosi negli anni ‘60) che erano state elaborate dai NAP e che ricompariranno nelle tesi delle BR-Partito Guerriglia, ma ci si richiama più semplicemente a scelte compiute, in alcune contingenze, dai padri della teoria/prassi rivoluzionaria. “Lenin nel 1905 notava come in periodo di crisi economico-politica, il banditismo sociale diventa un modo specifico di lotta di certi strati proletari urbani (…) ed è assolutamente indispensabile trasformare queste forme di lotta in azioni partigiane” (40) . Lo Stato imperialista delle multinazionali Le BR giungono alla formula dello Stato imperialista delle multinazionali e alla prefigurazione dell’avvento di un nuovo tipo di autoritarismo capace di demolire il disegno partecipativo delle costituzioni postweimariane, partendo da un’analisi della crisi economica e delle risposte che ad essa vengono date nella cultura politica dei paesi maggiormente sviluppati. L’organizzazione armata percepisce che, con la crisi economica e la conseguente usura dei meccanismi di distribuzione sociale delle risorse, viene meno quello scambio politico che ha favorito l’affermarsi del consensualismo democratico. Le BR escludono che la crisi economica e la crisi dello Stato sociale che comincia a manifestarsi negli anni ‘70 possano trovare rimedi nel rispetto del sistema democratico. Per le BR, la recessione e l’impossibilità conseguente di governare attraverso il mercato politico, impongono alle classi dirigenti di identificare un nuovo metodo autoritario di gestione dello Stato. I dati sui quali le BR lavorano sono reali. La crisi fiscale dello Stato, il venir meno di un surplus di risorse da destinare allo scambio politico, la necessità di selezionare i diritti di cittadinanza, problemi di governabilità tipici di un modello industriale che ha raggiunto il massimo della propria espansione e che non è più in grado di crescere senza modificare la propria forma, consentono ad alcuni settori della cultura politica di formulare diagnosi allarmate (le elaborazioni della Trilaterale) sui limiti della gestione democratica delle società complesse. In alcuni casi il mondo della grande impresa, nell’insicurezza, accetta l’imperativo di misurarsi direttamente con la gestione della cosa pubblica. In realtà la difficoltà delle democrazie nell’amministrazione delle nuove domande politiche riguarda soprattutto i sistemi definiti consensualistici (41) che impediscono o rallentano le decisioni in materia di allocazione delle risorse pubbliche e di selezione dei bisogni. Le società sviluppate dell’Occidente risolvono, nel corso degli anni ‘80 e in quelli successivi, il problema della governabilità rafforzando l’alternanza democratica dei governi e vivificando la dialettica tra mercato e Stato. La tendenza dell’impresa a globalizzarsi (tendenza che comincia a manifestarsi negli anni ‘70 come risposta alla crisi petrolifera e al sovraccarico di oneri legati alla produzione nei paesi a Welfare avanzato) viene inoltre caricata dalle BR di forti connotati monopolistici e imperialistici. Non si tratterebbe di un fisiologico allargamento dei mercati ma dell’espressione di uno strapotere di alcune grandi multinazionali interessate a scavalcare i confini nazionali e le prerogative degli Stati. Le peculiarità del nuovo sistema politico stanno, per le BR, nel superamento e nell’intreccio reciproco sia delle politiche di New Deal sia di quelle autoritarie nonché nella definizione di una nuova forma di potere dotato di forti connotazioni tecnocratiche. La tecnocrazia deve essere in grado di resistere ad un sovraccarico di domanda politica proveniente dal basso e al prevalere di interessi nazionali che potrebbero confliggere con quello del capitale internazionale. Nella tradizione del ‘900 fascismo e socialdemocrazia erano state due forme, ciclicamente ricorrenti “nello stato imperialista invece la sostanza di queste forme politiche coesiste, dando luogo ad un ‘regime’ originale che perciò non è fascista né socialdemocratico, ma rappresenta un superamento dialettico di entrambe” (42) . Secondo la Risoluzione del 1978, la commistione di fascismo e socialdemocrazia, ritaglia per le aristocrazie operaie un ruolo istituzionale di controllo repressivo del proletariato marginale. Ai settori più favoriti della classe operaia è offerta la possibilità di difendere alcune posizioni di privilegio non alle spese del capitale ma degli strati sociali deprivati. “Oggi il rapporto preferenziale della borghesia imperialista con i revisionisti si fonda sull’individuazione del proletariato emarginato come variabile di cui è indispensabile detenere il controllo” (43) . Lo strumento con il quale viene attuata una politica dotata di aspetti riformistici e coercitivi è una nuova forma di Stato privo di legami con un territorio e di connotazioni nazionali. “Lo Stato Imperialista delle Multinazionali è la sovrastruttura (…) corrispondente alla fase dell’imperialismo delle multinazionali. Suoi caratteri essenziali sono: formazione di un personale politico imperialista; rigida centralizzazione delle strutture statali sotto il controllo dell’Esecutivo; riformismo ed annientamento come forme integrate della medesima funzione: la controrivoluzione preventiva” (44) . Un personale politico omogeneo, di formazione sopranazionale, orienta le politiche dei paesi capitalistici e ne modifica in radice gli assetti istituzionali. Da una democrazia liberale e partecipativa si passa quindi ad una forma tecnocratica di potere e ad una modificazione dei connotati dello stato rappresentativo. Il primato del legislativo sancito dall’avvento della moderna liberaldemocrazia degrada a primato dell’esecutivo nella decisione pubblica. Il partito politico, quale si è formato nella tradizione democratica europea, viene ad essere modificato nello Stato imperialista delle multinazionali: non più collettore della volontà dei cittadini ma strumento di mobilitazione collettiva. L’acronimo e il concetto di Stato imperialista delle multinazionali sono stati sottoposti a critiche serrate e a potenti sbeffeggiamenti. In tale definizione si è vista spesso la prova della natura delirante della analisi e della progettazione brigatista. Per la verità le BR, forse proprio per aver osservato assolutamente dall’esterno la vita politica ufficiale e l’economia, danno prova di aver compreso precocemente alcuni fenomeni di trasformazione delle società industriali. L’errore della definizione brigatista sta nell’aver mostrificato gli attori del nuovo sistema sopranazionale, nell’averli collocati in una concezione cospirativa della storia, nella svalutazione/sottovalutazione della democrazia. L’orrore sta nell’aver praticato azioni sanguinose, prive di qualsiasi legittimazione in una società e in un ordinamento capace di garantire il pluralismo politico cioè la competizione di idee, programmi, classi. Alcuni fenomeni sommariamente condensati nell’acronimo dello SIM (e potentemente ideologizzati) nel decennio successivo diventeranno però di patrimonio comune e susciteranno riflessioni anche in quegli ambienti che definivano delirio il ragionare brigatista: la preminenza dell’esecutivo, la decisione come criterio di semplificazione della complessità sociale, la funzione dei tecnici nella gestione della cosa pubblica, l’impoverimento dei diritti di cittadinanza, l’impegno della grande imprenditoria nella politica, l’erosione della sovranità provocata dalla mondializzazione e dalla liberalizzazione dei mercati internazionali. La DC che si rinnova Nella Risoluzione del 1978 viene pronunciata una dura condanna di tutto lo schieramento partitico. Severissimo il giudizio sul PCI al quale si imputa di cooperare alle strategie del capitalismo di Stato, di spaccare l’unità della classe operaia, di pungolare la repressione. Anche nei comunicati che accompagnano il sequestro di Moro non mancano gli attacchi al revisionismo del partito comunista e alla sua subalternità alle politiche borghesi. Nel comunicato n. 5, il PCI è “polizia antiproletaria” e si imputa ai “berlingueriani” la corresponsabilità della repressione delle avanguardie rivoluzionarie. In quello n. 9, si denunciano spie o delatori “dell’apparato di Lama e Berlinguer” e la “lurida collaborazione dei berlingueriani” con le attività di annientamento dell’antagonismo proletario. La condanna del revisionismo si accompagna ancora però nella risoluzione del 1978 a un sostanziale riconoscimento del ruolo esercitato dal PCI agli occhi della classe operaia. Le BR cercano di mantenere ancora in vita una forma di dialogo con una base sociale e politica che tradizionalmente si è identificata con il partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (45) . Un passo della risoluzione del 1978 è significativo in tale senso. “La crisi di identità che la DC sta attraversando, in modo particolare dal giugno ‘75, è determinata da due processi concomitanti: la crisi-ristrutturazione della strategia mondiale degli Stati imperialistici da un lato, e dall’altro la richiesta di potere del proletariato italiano in vario modo espressa dalle sue componenti politiche sia revisioniste che rivoluzionarie.” (46) . Come si può notare, nel passo citato si riconosce che il revisionismo (cioè il PCI) va ancora collocato tra le espressioni politiche del proletariato italiano del quale è in grado di manifestare una “richiesta di potere”! Il nemico principale, nella Risoluzione del 1978, è la DC definita come responsabile delle strategie imperialiste in Italia. L’attacco disarticolante alla DC rappresenta lo strumento principale di contrasto delle politiche dell’imperialismo. La Risoluzione del 1978 e poi i comunicati che ne riprendono i temi, contiene alcune modifiche della tradizionale analisi della Democrazia cristiana compiuta dalle BR. Nei testi precedenti la DC era presentata come forza conservatrice votata all’alleanza con il MSI e come promotrice di una forma classica di repressione. Nella risoluzione del 1978, il partito cattolico appare come forza repressiva/conservatrice ma anche come attore di un rinnovamento della politica italiana e di un adeguamento del sistema sociale alla modernizzazione imposta dal capitalismo internazionale. La specificità della politica dello SIM, come si è precedentemente segnalato, viene collocata dalle BR non nel ritorno a vecchie forme di autoritarismo ma in un superamento del fascismo e della socialdemocrazia, in una politica capace di coniugare la repressione con il consenso di settori della classe operaia. Per la Risoluzione del 1975, il gruppo dirigente della DC sostiene la strategia dell’imperialismo attraverso una netta svolta a destra. “Il progetto politico democristiano, apertamente sostenuto anche da Tanassi, da Sogno e da Almirante, si propone di costruire intorno al blocco integralista della DC un più vasto e articolato ‘blocco storico’ apertamente reazionario e controrivoluzionario, funzionale allo Stato Imperialista”. Nel 1978 si afferma sempre che la DC deve essere colpita in quanto espressione dello SIM e degli interessi imperialistici, l’analisi sui rapporti tra partito cattolico e interessi imperialistici è tuttavia condotta in termini nuovi. La DC non è presentata più solo come forza di conservazione bensì come teatro di una battaglia per l’innovazione. La DC deve essere colpita perché elabora riforme che devono rendere coerenti società, politica ed economia con gli interessi globali dell’imperialismo. “Forza centrale e strategica della gestione imperialista dello stato, in Italia, è la Democrazia Cristiana. In questa chiave va letto il durissimo scontro in corso al suo interno e il cosiddetto processo di rinnovamento” (47) . La struttura tradizionale della DC non le consentiva di trainare la trasformazione sociale, di qui la spinta verso il cambiamento che la attraversa. “Nel quadro dell’unità strategica degli stati imperialisti le maggiori potenze alla testa della catena gerarchica richiedono alla DC di funzionare da polo politico nazionale della controrivoluzione, ma essa, così com’è attualmente strutturata risulta in larga misura inadatta allo scopo. Dunque si deve rinnovare” (48) . Propaganda e guerra dispiegata Secondo le BR lo Stato Imperialista delle Multinazionali non è più in grado di operare con il consenso e con la mediazione degli interessi in conflitto, l’unico strumento al quale lo SIM è in grado di fare ricorso è la repressione/annientamento delle organizzazioni del proletariato. La violenza istituzionale impone un cambiamento di strategia nelle organizzazioni rivoluzionarie. Tramonta la funzione di una propaganda armata, differenziata per sostenere specifiche articolazioni dell’antagonismo di classe e si prospettano viceversa solo azioni armate distruttive dell’antagonista. “Non avendosi più una fase politica separata da quella militare (…) l’unica possibilità di praticare il terreno politico dello scontro si dà con il fucile in mano” (49) . La propaganda armata, per la Risoluzione del 1978, è legata ad una fase di espansione del ciclo economico nella quale lo Stato e l’impresa possono adottare strumenti riformistici per contenere i conflitti, viceversa “nella fase della ‘guerra’ (…) prevale la pratica della guerra civile rivoluzionaria” (50) . La Risoluzione ripercorre le tappe della lotta armata in Italia. “All’inizio e per forza di cose, operavamo per piccoli nuclei, e abbiamo praticato piccole azioni. (…) Poi, crescendo la forza e il radicamento della guerriglia, siamo passati ad azioni più complesse che impegnano contemporaneamente ma sempre in piccole azioni, più nuclei”. Infine la guerriglia “si è mossa per campagne e cioè contemporaneamente in più poli sulla stessa linea di combattimento” (51) . Si è inoltre passati da “azioni rapide (mordi e fuggi) ad azioni prolungate (Amerio, Sossi, Costa) ciò ci ha consentito di svolgere una propaganda armata più incisiva”. Infine si è operato con il “rapido concentramento di forze numerose per attaccare il nemico in piccole battaglie” (52) . La fase prefigurata dalla risoluzione prevede l’adozione di nuove tecniche di azione orientate all’annientamento delle forze imperialiste. “Compito dell’organizzazione guerrigliera è di passare dalle azioni cosiddette ‘dimostrative’ a quelle che danno al combattimento un inequivocabile significato ‘distruttivo’ della forza nemica” (53) . foto ansa La guerriglia non deve perdere i contatti con il proletariato e deve muoversi all’interno dell’antagonismo proletario. Le BR nella risoluzione del 1978 cercano di coniugare due esigenze contrapposte: quella del coordinamento di una lotta armata di livello e di aggressività superiore, quella della ripresa di rapporti con le masse e con i movimenti sociali. Le due esigenze possono essere soddisfatte con la costituzione di un partito affiancato e non contrapposto ai conflitti sociali. “Tra essi opera una relazione dialettica, ma non un rapporto di identità: ciò vuol dire che è dalla classe che provengono le spinte, gli impulsi, le indicazioni, gli stimoli, i bisogni che l’avanguardia comunista deve raccogliere, centralizzare, sintetizzare, rendere teoria e organizzazione stabile e infine, riportare nella classe sotto forma di linea strategica di combattimento, programma, strutture di massa del potere proletario” (54) . Il partito inoltre non si identifica né si dovrà identificare con le BR. “Le Brigate Rosse non sono il Partito Comunista Combattente, ma una avanguardia armata che lavora all’interno del proletariato metropolitano per la sua costruzione” (55) . L'inseguimento dei movimenti Da quanto scritto sino a qui si ricava che i comunicati (56) diffusi dalle BR durante il sequestro di Aldo Moro si rivolgono ad una pluralità di destinatari: più che alle istituzioni, ad un mondo sociale e politico di fronte al quale le Brigate Rosse sentono la necessità di giustificare il proprio agire. Nel corso dei 55 giorni l’organizzazione cerca di ottenere una doppia legittimazione: istituzionale (57) e sociale. I comunicati non si limitano a riproporre contenuti della più recente Risoluzione strategica (anche se questa viene spesso utilizzata per le formulazioni politiche più complesse) ma entrano nel merito degli avvenimenti che accompagnano i giorni del sequestro e soprattutto cercano di rispondere alle contestazioni provenienti sia dagli antagonisti che dai potenziali compagni di strada. I Comunicati numero 2 e 3 cercano di accreditare le BR come organizzazione pluralista (capace di apprezzare l’antagonismo diffuso) e di fugare l’immagine di un brigatismo teleguidato e mosso da centrali misteriose. Sottolineando la propria disponibilità al pluralismo le BR rispondono più che alle critiche di quella parte di movimento che considera il sequestro di Aldo Moro un orrore, a quell’altra parte che lo valuta come un errore capace di alimentare la reazione e di pregiudicare l’opposizione sociale. Con una serie di affermazioni relative all’autenticità/autonomia del proprio operato le BR replicano inoltre alle accuse di subalternità a poteri esterni, formulate nei primi giorni del sequestro. Ipotesi e accuse che non provenivano solo dalle forze politiche istituzionali ma che serpeggiavano anche in settori dell’antagonismo (58) . La chiusura del Comunicato numero 2 rende omaggio a due figure dell’antagonismo di base uccise nei giorni successivi alla strage di via Fani. “Onore ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli assassinati dai sicari del regime” (59) . I due ragazzi (60) , impegnati nei nascenti centri sociali, non vengono ricordati con il nome proprio e il vezzeggiativo (Fausto e Iaio) come nei manifesti affissi dai compagni o nelle pagine di Lotta Continua, ma con nome e cognome. Il tipo di citazione vuol comunicare al movimento, il quale tuttavia non apprezza (61) , che anche l’antagonismo disarmato può collocarsi nella strategia rivoluzionaria e che i due militanti di base meritano gli stessi onori dei guerriglieri caduti con le armi in pugno. Nel Comunicato n. 3 si cerca, in modo rituale, di rispondere alle accuse di avventurismo politico. A tale fine viene riprodotta una parte della Risoluzione strategica del 1978. “Siamo anche consapevoli del fatto che la pratica della violenza rivoluzionaria spinge il nemico ad affrontarla (…) anzi ci proponiamo di fare emergere, di stanare la controrivoluzione imperialista dalle pieghe della società “democratica” (…). Non siamo noi a ‘creare’ la controrivoluzione. Essa è la forma stessa che assume l’imperialismo” (62) . Un ulteriore messaggio lanciato nella prima fase del sequestro, riguarda l’autenticità dell’agire brigatista. Il Comunicato n. 2, che risponde ai primi giudizi sul sequestro venuti dalla stampa, dai partiti, dai movimenti, rivendica al proletariato italiano, del quale le BR si fanno interpreti, un patrimonio tattico e strategico sufficiente a realizzare l’azione compiuta. “Sin dalla sua nascita la nostra Organizzazione ha fatto proprio il principio maoista ‘contare sulle proprie forze e lottare con tenacia’. Applicare questo principio, nonostante le enormi difficoltà, è stato per la nostra Organizzazione più che una scelta giusta una scelta naturale; il proletariato italiano possiede in sé un immenso potenziale di intelligenza rivoluzionaria, un patrimonio infinito di conoscenze tecniche e di capacità materiali”. Il sequestro di Aldo Moro non è quindi un’azione teleguidata ma il frutto di una esperienza maturata in una specifica tradizione storico sociale. Sempre nel Comunicato n. 2 si riconoscono i rapporti con una rete di comunisti combattenti attiva in Europa ma si sottolinea una autonomia strategica e tattica dell’organizzazione italiana che inibisce manipolazioni o regie occulte. “Mentre riaffermiamo con forza le nostre posizioni sull’Internazionalismo Proletario, diciamo che la nostra Organiz-zazione ha imparato a combattere, ha saputo costruire ed organizzare autonomamente i livelli politico-militari adeguati ai compiti che la guerra di classe impone (…) ed è questo che ha reso possibile alla nostra Organizzazione di condurre nella più completa autonomia la battaglia per la cattura ed il processo ad Aldo Moro”. Una lotta armata plurale Il Comunicato n. 1 si chiude con un appello all’allargamento dell’azione e alla unificazione del movimento di resistenza offensiva. Non si tratta di un appello lanciato nel vuoto. Nel corso dei 55 giorni del sequestro (tra l’11 aprile e l’8 maggio) si assiste, nonostante un controllo capillare del territorio, a dodici attentati contro persone, dei quali due mortali, rivendicati dalle BR (8 episodi) o attribuibili ad organizzazioni diffuse (4 episodi) (63) . Le BR nel comunicato n. 5 sottolineano le iniziative fiorite dopo il sequestro e le interpretano come manifestazione di una opposizione sociale alle politiche dell’imperialismo e come risposta venuta dal basso alle misure di controllo che accompagnano le indagini sul sequestro. “L’attacco che lo Stato ha sferrato nelle ultime settimane con perquisizioni, fermi e arresti indiscriminati, tende infatti a colpire non solo le avanguardie che praticano la lotta armata, ma l’intero movimento di classe. Nonostante questo attacco repressivo, al quale dobbiamo aggiungere l’opera sempre più scoperta di polizia antiproletaria (…) del PCI, è cresciuta nelle fabbriche l’opposizione operaia allo SIM e alla politica collaborazionista dei berlingueriani e, nel contempo, è continuata l’iniziativa del MPRO e delle organizzazioni rivoluzionarie contro i covi e gli uomini della DC, della Confindustria, dell’apparato militare” (64) . Benché l’azione di via Fani abbia ricevuto apprezzamenti in settori del movimento armato e fra alcune avanguardie di fabbrica, gli autori del sequestro sanno di dover spiegare e giustificare la propria strategia e la propria concezione dell’organizzazione di fronte ad una vasta galassia armata diffidente (65) ed ispirata a una diversa concezione del militante, del rapporto partito-masse, degli obiettivi. Una concezione diversa della lotta armata era stata espressa da Prima Linea che, in un documento del 1977, aveva criticato il monolitismo delle BR. “Sbaglia chi oggi spara a zero contro lo spontaneismo del combattimento proletario e vuole ridurre il combattimento ai soli percorsi verso l’organizzazione e la sua pratica diretta. (…) Lo sviluppo del combattimento proletario è un processo contraddittorio e collettivo: è imperativo il confronto serrato tra le formazioni che lo praticano” (66) . Dopo il sequestro del 16 marzo e dopo la pronuncia da parte delle BR della condanna di Moro, i Comitati Comunisti Rivoluzionari diffondono un documento nel quale dichiarano che la lotta armata nasce “dalla nostra storia dalla storia di questo movimento” e riconoscono la “tremenda efficacia” del sequestro di Aldo Moro. Il documento rifiuta però la trasformazione della guerriglia in tribunale del popolo: “Si tratta di distinguere fra la necessità comunista del ricorso a forme di violenza e di coazione e la loro trasformazione in norma”. I Comitati Comunisti Rivoluzionari che esprimono sentimenti presenti in settori di un antagonismo armato plurale, propongono alle BR di uscire dalla logica dell’ultimatum e l’apertura “di un terreno di lotta praticabile e ragionevole per tutte le forme organizzate che oggi intervengono nel quadro dello scontro” (67) . Le BR cercano di mantenere aperto un dialogo (formale, perché indipendente dalla decisione sul destino del prigioniero) con i dissensi, già presenti nello schieramento armato e che punteggiano i 55 giorni, sottolineando il possibile coordinamento di iniziative diversificate e affermando che nella strategia armata non solo trova posto una vasta gamma di posizioni ma possono anche essere collocate iniziative di diversa intensità. La valutazione degli apporti all’azione comune non può limitarsi a misurare il volume di fuoco, né l’osservanza di regole stabilite dall’organizzazione più forte, né l’adesione ad una delle possibili interpretazioni del messaggio marxista e leninista. La lotta deve intaccare ogni aspetto dell’azione istituzionale dello Stato borghese. “Questo ruolo di disarticolazione, di propaganda e di organizzazione, va svolto a tutti i livelli dell’oppressione statale capitalista e a tutti i livelli della composizione di classe. Non esistono quindi livelli di scontro ‘più alti’ o ‘più bassi’. Esistono, invece, livelli di scontro che incidono e intaccano il progetto imperialista, ed organizzano strategicamente il proletariato oppure no” (68) . Disarticolazione o mediazione Nei comunicati che avevano accompagnato il sequestro del magistrato Mario Sossi il problema della trattativa per uno scambio di prigionieri era emerso immediatamente. Il primo comunicato diffuso dalle BR dopo una sommaria biografia del magistrato, sintetizzava i motivi dell’azione: “Mario Sossi verrà processato da un tribunale rivoluzionario” (69) . da www.casomoro.it Il secondo comunicato era una semplice precisazione: invitava a diffidare dagli apocrifi e a segnalare le modalità con le quali sarebbero stati redatti i documenti delle BR (70) . Il terzo comunicato, cioè il primo dotato di contenuti politici, già prospettava lo scambio. “Sossi è prigioniero politico del proletariato. Come tale è assolutamente ingiustificato qualunque ottimismo su una sua gratuita liberazione. Molti sono ormai i compagni che (…) hanno ripreso le armi (…). Alcuni di essi sono caduti o sono attualmente rinchiusi nelle galere (…). Punto irrinunciabile del programma politico delle BR è la liberazione di tutti i compagni prigionieri politici” (71) . I primi comunicati sul sequestro di Aldo Moro, a differenza di quelli sul sequestro di Mario Sossi, sono interamente dedicati alla analisi strategica, alla costituzione di una possibile rete di alleanze nel movimento di resistenza offensiva, al processo alla Democrazia Cristiana. Il comunicato n. 1 contiene una scheda biografica sul parlamentare sequestrato, ripropone alcune questioni politiche trattate dalla Risoluzione del febbraio 1978, afferma di volere, con il processo al leader della DC, iniziare un processo al regime. “Bisogna estendere e approfondire il processo al regime che in ogni parte le avanguardie combattenti hanno già saputo indicare con la loro pratica di combattimento. È questa una delle direttrici su cui è possibile far marciare il Movimento di Resistenza Proletario Offensivo, su cui sferrare l’attacco e disarticolare il progetto imperialista. Sia chiaro quindi che con la cattura di Aldo Moro, ed il processo al quale verrà sottoposto dal Tribunale del Popolo, non intendiamo ‘chiudere la partita’ né tantomeno sbandierare un ‘simbolo’, ma sviluppare una parola d’ordine su cui tutto il Movimento di Resistenza Proletario Offensivo si sta già misurando, renderlo più forte, più maturo, più incisivo e organizzato” (72) . Il secondo comunicato oltre a riproporre temi contenuti nella Risoluzione del 1978, aggiorna il profilo di Aldo Moro, e introduce una analisi sulle prospettive europee dell’attività rivoluzionaria (73) . Il comunicato n. 3 analizza lo svolgimento del “processo” ad Aldo Moro e contiene una lunga analisi delle prospettive che si aprono per i movimenti rivoluzionari. Solo nel comunicato n. 4 appare, ma in modo indiretto, il problema di una trattativa e dello scambio di prigionieri. Il testo riporta il pensiero di Moro in merito ad un possibile scambio di detenuti ma afferma che quella ipotesi non coincide con la posizione delle BR. Moro, è scritto nel comunicato, invita i propri compagni di partito “a considerare la sua posizione di prigioniero politico in relazione a quella dei combattenti comunisti prigionieri delle carceri del regime. Questa è la sua posizione che, se non manca di realismo politico nel vedere le contraddizioni di classe oggi in Italia, è utile chiarire che non è la nostra” (74) . Le BR confermano che la liberazione dei detenuti è un punto fondamentale del loro programma e di voler perseguire ogni tentativo che ne porti alla liberazione ma di rifiutare “come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti. Per quel che ci riguarda il processo ad Aldo Moro andrà regolarmente avanti e non saranno le mistificazioni degli specialisti della controguerriglia psicologica che potranno modificare il giudizio che verrà emesso” (75) . I tempi con i quali viene affrontato nel corso del sequestro il problema dello scambio di prigionieri meritano la formulazione di alcune ipotesi. A. La questione dello scambio di prigionieri non è stata collocata nei primi comunicati, per sottolineare che il centro dell’azione è il sequestro dell’uomo politico ed il “processo” al quale l’organizzazione intende sottoporre la DC. Porre sino dai primi comunicati il problema dello scambio di prigionieri avrebbe indebolito l’effetto “disarticolante” dell’iniziativa delle BR. La tattica definita con la Risoluzione del 1978 prevede inoltre che la disarticolazione non sia il risultato di un singolo atto ma l’esito di un procedimento protratto nel tempo. Il nemico deve essere impegnato “in azioni prolungate che esaltino ed esasperino tutte le sue contraddizioni interne” dopo essere stato attaccato “di sorpresa in battaglie via via più consistenti che forniscano alle masse proletarie il margine reale della crescita della forza guerrigliera” (76) . B. Con grande probabilità le BR hanno voluto sottolineare di avere scelto una nuova tattica per la liberazione dei prigionieri. La liberazione nella logica del gruppo dirigente attivo (cioè operante e non detenuto) delle BR non deve essere un fatto tecnico (trattativa, scambio) ma il risultato di un’azione politica e il frutto di una modificazione dei rapporti di potere con le istituzioni. Le mura del carcere possono crollare solo e quando le BR si mostrano capaci di piegare le istituzioni, di palesarne la debolezza, di dimostrarne l’inefficacia. Il problema della detenzione politica non è sottovalutato dalla Risoluzione del 1978 che dedica una lunga analisi agli strumenti europei di coordinamento della repressione, alle politiche di prevenzione introdotte in Italia, alla situazione del carcere speciale. La fuoriuscita dal carcere è collegata a due tipi di azioni. Il primo è l’evasione che, liberando il militante, mette in crisi le politiche repressive dello Stato e ne mina la legittimazione. Il secondo è la disarticolazione che deve costringere il potere antagonista a rinunciare a ogni pretesa repressiva. Il sequestro Sossi, nel corso del quale le BR chiedono di scambiare la libertà del magistrato con quella di 13 detenuti politici, è collocato tra le azioni tipiche di una fase precedente a quella della guerriglia dispiegata. Il sequestro del magistrato genovese aveva al centro lo scambio, nella nuova strategia viceversa il problema di una contrattazione con l’antagonista esiste ma è dipendente dall’efficacia dell’azione disarticolante. La nuova linea non significa “che non esistono più mediazioni adottabili, ma che esse vanno viste in rapporto dialettico con la necessità di incidere militarmente per poter incidere politicamente” (77) . Le ragioni dello Stato e quelle della persona Agostino Giovagnoli, al termine della sua completa ricostruzione del caso Moro, conclude con alcune osservazioni che meritano riflessione. A. Moro fu assassinato per gli stessi motivi per i quali era stato rapito, “vale a dire non per ciò che aveva fatto davvero o per una reale convenienza dei brigatisti a rapirlo o ad ucciderlo, ma per il valore che questi attribuivano alla sua morte nella lotta contro lo Stato imperialista delle multinazionali” (78) . B. Durante i 55 giorni i brigatisti “si comportarono in modo fortemente autoreferenziale, senza interrogarsi a fondo (…) sull’opportunità di ignorare totalmente gli appelli umanitari e le aperture delle forze politiche, sulla contrarietà dei loro stessi simpatizzanti all’assassinio di Moro e sulla crescita delle attese per un esito diverso diffuse anche al loro interno” (79) . C. Alla fine di quei giorni le Brigate rosse si sentirono sconfitte, “non sul terreno militare ma su quello morale e politico”. La causa della sconfitta deriva per l’Autore non dalla linea della fermezza ma da un tipo particolare di fermezza, che saldava “difesa delle istituzioni e rifiuto della violenza”, che non voleva essere monolitica, che accettava diversi approcci alla gestione del drammatico evento (80) . Si tratta di conclusioni rigorose, derivate da un lavoro che, rifiutando la ricerca di “protagonisti invisibili” dell’evento, ha analizzato l’operato e la produzione dei “protagonisti principali” (81) . L’analisi della Risoluzione e dei comunicati diffusi nel corso dei 55 giorni, segnala il significato profondo che la distruzione del simbolo dello Stato delle multinazionali e della DC assumeva nella strategia delle BR. La sconfitta sul terreno morale e politico delle BR è attestata in modo unanime dalle memorie degli attori del sequestro. Le osservazioni fatte da Giovagnoli sulla fermezza hanno il pregio di non presentarsi come dichiarazioni di principio ma di essere ricavate da un’analisi di atteggiamenti, elaborazioni, linee delle BR. L’impostazione del sequestro e la strategia che lo aveva ispirato erano tali da rendere difficile un compromesso, cioè una soluzione che non partisse dall’accettazione completa delle richieste formulate con il comunicato n. 5. Si può solo osservare che la ragionevole fermezza con la quale i partiti rispondevano alle BR spesso era il prodotto di incertezze più che di una strategia. Tra le cause della sconfitta etica e politica delle BR ne va forse aggiunta un’altra: il comportamento e il comunicare del prigioniero. Nel sequestro di Aldo Moro, “le immagini spettacolari vere e proprie sono state molto poche” (82) . Il sequestro di Aldo Moro è stato dominato, come ha osservato Carlo Marletti replicando alle tesi di McLuhan (83) sulla spettacolarità della violenza, non dalle immagini ma dalla scrittura e da un particolare strumento di comunicazione: la vittima (84) . Da ciò non è lecito ricavare che le lettere di Aldo Moro, come affermato nei giorni del sequestro e come sempre meno ripetuto nelle riflessioni critiche successive, siano state pilotate o teleguidate. Né le memorie dei protagonisti, né gli atti processuali, né un numero ragguardevole di pentiti, né un’analisi testuale delle lettere ha mai consentito di verificare la tesi di una regia brigatista o addirittura esterna dei messaggi. È da escludere che Moro “costituisse una mera pedina in mano alle Brigate rosse” (85) . Moro domina la comunicazione per due motivi: a) per aspetti della sua personalità che sono emersi proprio nel corso del sequestro: una combattività non comune unita a una non comune freddezza. Moro mostra una straordinaria capacità comunicativa, un coraggio imprevisto, una chiarezza nell’esposizione prima ostacolata forse da una cultura della mediazione propria dell’ambiente nel quale militava. Si tratta di doti che gli consentono non solo di produrre documenti pregevoli ma anche di calibrare le proprie posizioni in relazione con il modificarsi degli eventi. Doti tipiche e normali in un leader politico. L’eccezionalità sta nel fatto che Moro riesce a conservare la freddezza e l’autorità del leader anche se costretto in una situazione estrema; b) perché non ragiona d’istinto e per semplice autodifesa ma in base a principi da lungo tempo elaborati e interiorizzati. Si tratta di una filosofia dello Stato e della politica con la quale Moro cerca di dare una soluzione alla tragedia concreta che sta vivendo ma che cerca anche di contrapporre all’organizzazione che lo ha sequestrato. La politica per Moro non va considerata come lo strumento per realizzare un modello di società ma come una ricerca di soluzione per i bisogni specifici dell’uomo. Lo Stato per Moro “ha lo stesso valore della vita umana nella ricchezza stupenda delle sue determinazioni, perché esso è nient’altro che totale vita umana” (86) . Lo Stato non è un mito né può essere considerato portatore di interessi diversi da quelli dei singoli uomini. Lo Stato può avere un’etica “a patto che esso in sé accolga tutta l'eticità della vita, senza soprapporsi ad essa con un superiore assurdo criterio "una sovrastruttura incomprensibile della vita (87) . Lo Stato deve far valere in ogni istante "la legge della persona particolare nell'istante puntuale, nella quale essa ha da risolvere il suo problema di adeguazione all'universale" (88) . Moro legittima e reclama la trattativa perché crede in una politica che parta dai bisogni del singolo uomo ed in nome di tale concezione della politica pungola i partiti a liberarsi da un'etica dello Stato che ne offusca le funzioni specifiche. In nome di quella stessa concezione della coesistenza umana, Moro affronta le Brigate Rosse e contrasta il progetto di costruire l'uomo nuovo distruggendo la persona particolare. Nei 55 giorni Moro agisce da leader, cerca di fornire orientamento, si muove secondo l'imperativo che impone al dirigente di guidare coloro che lo attorniano e coloro che lo riconoscono. Il suo sforzo non è destinato ad avere un risultato immediato anche perché le possibilità sono minime. Moro riesce tuttavia a realizzare quanto è richiesto ad un leader democratico. Produce la sconfitta, accelera la sconfitta, sull'esclusivo piano dell'etica e della politica, di un antagonista che nega principi fondamentali: l'ascolto dell'altro, la competizione delle idee, il primato della "persona particolare". |
(1) Viene allegata, il 4 aprile 1978, al Comunicato numero 4 delle Brigate Rosse sul sequestro di Aldo Moro.
(2) M. Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, (intervista di C. Mosca e R. Rossanda), Baldini & Castoldi, Milano, 1998, p. 82. (3) Prima della risoluzione del 1975, le BR diffondono tre autointerviste: settembre '71, gennaio '73, maggio '74. Sul passaggio al nuovo strumento di comunicazione, Soccorso Rosso, Brigate Rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto. Feltrinelli, Milano, 1976. (4) Brigate Rosse, Risoluzione aprile 1975. (5) Brigate Rosse, aprile 1974, “Contro il neogollismo portare l'attacco al cuore dello stato” (in Soccorso Rosso, Brigate Rosse, cit.). (6) Ivi. (7) Brigate Rosse. Comunicato n. 1, sequestro di Mario Sossi (aprile 1974). In maniera incongrua (perché nel caso specifico si tratta di un errore riconosciuto dai dirigenti delle BR e soprattutto di un attacco alla sede di un partito e non a una struttura riconducibile alle istituzioni statali) lo slogan dell’attacco al cuore dello stato appare anche nella rivendicazione dell’uccisione, avvenuta il 17 giugno 1974, di due militanti del MSI all’interno della sede provinciale di Padova. (8) Brigate Rosse, Risoluzione 1975. (9) “Sono sbagliate tutte quelle posizioni che vedono la crescita della guerriglia come conseguenza dello sviluppo dell’area legale o semilegale della cosiddetta "autonomia." È bene far chiarezza su questo punto. Entro quella che viene definita "area dell’autonomia" si ammucchiano e stratificano posizioni diversissime. Alcuni, che definiscono la loro collocazione all’interno dello scontro di classe per via "soggettiva," si riconoscono parte di questa area piú per imporre al suo interno bisogni e problemi ad essa estranei e cioè per "recuperarla sul terreno della politica" che per favorirne la progressiva definizione rivoluzionaria, strategica, tattica ed organizzativa.” (Brigate Rosse, Risoluzione 1975). (10) “Sarebbe un vero e proprio suicidio politico - oltre che fisico - ostinarsi su posizioni legalistiche che se non sono opportunistiche marce indietro, si riducono a puro avventurismo velleitario. Bisogna prendere coscienza che nella nuova fase l’unica possibilità di sviluppare l’antagonismo e l’iniziativa proletaria si dà con il fucile in mano” (Brigate Rosse, Risoluzione 1978, § 24). Per una ricostruzione dell’atteggiamento della parte attiva delle BR (cioè quella operante fuori dalle carceri) verso l’Autonomia e i movimenti del 1977 cfr. AA.VV. Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del 1977, Odradek, Roma, 1997 (con una intervista a Francesco Cossiga raccolta da F. Piccioni), p. 37 e sg.. (11) Brigate Rosse, Risoluzione 1975. (12) Ivi. (13) Sull’inasprimento dello scontro prefigurato dalla Risoluzione del 1978 e sul ricorso al concetto della guerra dispiegata, cfr. A. Chiocci, Catastrofi del politico, Quaderni di società e conflitto, 8/2005, cap. 10. (14) Brigate Rosse, Risoluzione della direzione strategica, febbraio 1978, § 17. La strategia dominante nel biennio 1977-78 è stata definita “dell’annientamento”. Cfr. G.C. Caselli e D. della Porta, La storia delle Brigate Rosse: strutture organizzative e strategia d’azione, in D. della Porta (a cura), Terrorismi in Italia, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 184 e sg. (15) Cfr. S. Tarrow, Democrazia e disordine, Laterza, Bari, 1990. (16) Uno sciopero nel ‘77 “voleva dire difendere con i denti e forse con la disperazione qualcosa che Agnelli aveva già sottratto spostando la sua produzione altrove (…) minando le basi strutturali di tutto quello che noi avevamo progettato, forse sognato. Non si era all’offensiva si era alla frutta” (Intervista a Mario Moretti, in AA.VV. Una sparatoria tranquilla, cit., p. 45). (17) Una analisi degli effetti prodotti in quegli anni dalla ristrutturazione sulle organizzazioni di base e sui conflitti del lavoro, in L. Bobbio, Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma, 1979, p. 123 e sg.. (18) L’itinerario della nuova sinistra verso una rigorosa opposizione istituzionale, in L. Bobbio, op. cit. Riflessione sui diversi percorsi delle sinistre extraparlamentari nel quadro di una storia di Potere Operaio, in A. Grandi, La generazione degli anni perduti, Einaudi, Torino, 2003. (19) Per una ricostruzione dei movimenti del 1977 cfr. N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, Feltrinelli, Milano, 2003; S. Bianchi e L. Caminiti, Settantasette. La rivoluzione che viene, Derive-Approdi, Roma, 2004. Un’analisi e una ricostruzione dei conflitti nella città in AA.VV., Una sparatoria tranquilla, cit.. (20) Progetto memoria 1. La mappa perduta, Sensibili alle foglie, Roma, 1994, p. 97. (21) Ivi, p. 97. (22) La Risoluzione del 1978 parla di oltre cento nuclei combattenti. La mappa perduta, cit., elenca 24 sigle corrispondenti ad organizzazioni “maggiori” e 78 sigle di “formazioni minori” (occorre però considerare che questa opera ha censito i nuclei combattenti in un arco di tempo che va dal 1969 al 1989). (23) Cfr. Intervista a Mario Moretti, in AA.VV., Una sparatoria tranquilla, cit. p. 38. Sul carattere del movimento del 1977 e sulla impossibilità di analizzarlo in modo bipolare (violenza/non violenza, organizzazione/ spontaneità) cfr. P. Persichetti e O. Scalzone, La révolution et l’État, Dagorno, Paris, 2000, p. 99 e sg., p. 233 e sg.. Per un’analisi delle motivazioni dei movimenti: A. Melucci, L’invenzione del presente: movimenti, identità, bisogni collettivi, Il Mulino, Bologna, 1982; G. Statera (a cura), Violenza sociale e violenza politica nell’Italia degli anni ’70, Franco Angeli, Milano, 1983. (24) “La forza reale della guerriglia si dimostra non solo ‘alzando il tiro’ ma soprattutto impostando campagne sempre più articolate (che investono un numero crescente di poli); impegnando il nemico in azioni prolungate che esaltino ed esasperino tutte le sue contraddizioni interne, attaccando le forze nemiche di sorpresa in battaglie via via più consistenti che forniscano alle masse proletarie il margine reale della crescita della forza guerrigliera.” (Brigate Rosse, Risoluzione 1978, § 17). (25) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, § 2. (26) Cfr. G. C. Caselli e D. della Porta, op. cit., p. 184. (27) Brigate Rosse, Risoluzione, 1978, § 18. (28) Ivi. (29) Ivi. (30) Ivi. (31) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, cit., § 19. (32) Ivi. (33) Sulla ricerca di collegamenti con nuovi gruppi sociali e sull’analisi della nuova stratificazione sociale fatta dalle BR cfr. G. C. Caselli e D. della Porta, op. cit., p. 192 e sg.. (34) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, § 20. (35) Ivi, § 18. (36) Sulla presenza femminile nella lotta armata cfr. Progetto Memoria 1, La mappa perduta, cit.. Nel ventennio 1969-89 fra gli inquisiti per banda armata, associazione sovversiva o insurrezione, il 23,1% sono donne. Per una analisi degli effetti prodotti dalla cultura della differenza di genere nell’antagonismo e nelle organizzazioni armate, cfr. G. Collotti, interventi nel dibattito Dissonanze, in S. Bianchi e L. Caminiti, Settantasette, cit. pp. 219-237. Nel medesimo volume cfr. anche i contributi al citato dibattito di M. Campanale, E. Deiana, M. Fraire, P. Masi, M. Pivetta. Analisi, dall’interno, sulla donna nella lotta armata in B. Balzerani, Compagna luna, Feltrinelli, Milano, 1999; Id, La sirena delle cinque, Jaca Book, Milano, 2003; S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre, Baldini&Castoldi, Milano, 1994 (la vita di A. Faranda); T. Zoni Zanetti, Clandestina, Derive Approdi, Bologna, 2000; A. L. Braghetti e P. Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, Milano, 2003. (37) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, cit., § 23. (38) I componenti del nuovo esercito del lavoro fisiologicamente precario “si trovano in posizione intermedia e oscillante tra la classe operaia occupata stabilmente e l’esercito industriale di riserva, come occupati in modo diverso” (Risoluzione 1978, cit., § 20). (39) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, cit., § 20. (40) Ivi. (41) Sul modello di democrazia consensuale, A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, tr. it. Il Mulino, Bologna 1993. Sul ruolo dei meccanismi consensuali nelle congiunture fortemente conflittuali, cfr. J.J. Linz e A. Valenzuela, Il fallimento del presidenzialismo, tr. it., Il Mulino, Bologna, 1995. (42) Ivi.§ 7. (43) Ivi. (44) Ivi, § 3. (45) Cfr. M. Moretti, Le Brigate Rosse, cit., e Intervista, cit. (46) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, § 4. (47) Ivi. (48) Ivi. (49) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, cit., § 6. (50) Ivi. (51) Ivi, §16. (52) Ivi, § 17. (53) Ivi. (54) Ivi, § 25. (55) Ivi. (56) Una lettura filologica dei comunicati delle BR in M. Clementi, La “pazzia” di Aldo Moro, Odradek, Roma, 2001. Si tratta forse dell’unica opera che cerca di scandagliare i significati e le strategie dei documenti prodotti nei 55 giorni dall’organizzazione armata. Letture attente della produzione delle BR in A. Silj, Mai più senza fucile, Firenze, Vallecchi, 1977; G. Bocca, Il terrorismo italiano 1970/1978, Milano, Rizzoli, 1978; L. Manconi e V. Dini, Il discorso delle armi, Savelli, Roma, 1981. Una ricostruzione dei mutamenti nelle strategie delle BR basata sull’analisi di rivendicazioni, documenti e risoluzioni, in G.C. Caselli e D. della Porta, op. cit. (57) Il dibattito sui rischi che avrebbe comportato una legittimazione delle BR e sulla liceità di concessioni legittimanti, accompagna i cinquantacinque giorni. Si registrano sulla stampa gli interventi di autorevoli personalità della politica e della cultura. Una completa ricostruzione della questione della trattativa (con analisi della stampa, delle istruttorie, dei lavori della Commissione parlamentare sulle Stragi) in V. Satta, Odissea nel caso Moro, Edup, Roma, 2003. (58) Le prime azioni delle BR vengono giudicate dalla sinistra storica e da una parte della nuova sinistra come avventurismo e provocazione (Cfr. G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 ad oggi, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2004). Nel corso del sequestro di Aldo Moro la stampa della sinistra storica ritorna sul tema della provocazione. La disponibilità dei verbali della direzione del PCI consente oggi di affermare che nel gruppo dirigente di quel partito vi è, nel corso dei 55 giorni, la consapevolezza del collegamento delle BR con settori di classe operaia e con ambienti della sinistra sia nuova sia storica. (Cfr. A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna, 2005). Per una analisi dell’ideologia del complotto cfr. C. Marletti, Immagini pubbliche e ideologia del terrorismo, in L. Bonanate (a cura), Dimensioni del terrorismo politico, F. Angeli, Milano, 1979, p. 213 e sg.. (59) Brigate Rosse, Comunicato n. 2 - sequestro di Aldo Moro (25 marzo 1978). (60) Sulla uccisione dei due giovani cfr. D. Biacchessi, Fausto e Iaio, Baldini & Castoldi, Milano, 1996. (61) Nell’area della nuova sinistra e dell’autonomia, l’omaggio reso dal comunicato brigatista alla memoria di Fausto e Iaio suscita reazioni di rigetto. Scrive Lotta Continua nei giorni successivi alla diffusione del testo delle BR: "il messaggio termina con la frase onore ai compagni Lorenzo Jannucci e Fausto Tinelli, assassinati dai sicari del regime. E’ un riconoscimento allucinante e sordido, come amici di Iaio e Fausto glielo restituiamo: non gradito". Sulla reazione negativa dei centri sociali, cfr. S. Jesurum, “Polemici con i brigatisti i giovani del Leoncavallo”, la Repubblica 28 marzo 1978. (62) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, cit. § 9. (63) G. Galli, Storia del partito armato. 1968-1982, Rizzoli, Milano, 1986, p. 166. (64) Brigate Rosse, Comunicato n. 5 - sequestro di Aldo Moro (10 aprile 1978). (65) “Una delle preoccupazioni maggiori dei clandestini era quella di non essere strumentalizzati da decisioni prese da altri (…). Probabilmente una delle cause – sul terreno psicologico – del proliferare di piccole bande armate sul finire degli anni settanta è proprio il tentativo (o la possibilità) di risolvere questa contraddizione nell’ambito del piccolo gruppo dove tutti sono omogenei e corresponsabili” (C. Alunni, Prefazione, a T. Zoni Zanetti, Clandestina, cit., p. 7). (66) Prima Linea, L’antagonismo totale tra il sistema dei bisogni, 1977. In Progetto Memoria 3, Le parole scritte, Sensibili alle Foglie, Roma, 1996, p. 265. (67) Comitati Comunisti Rivoluzionari, Che fare? (Milano 25 aprile 1978). In Progetto Memoria 3, cit., pp. 254-262. (68) Brigate Rosse, Comunicato n.4 - Sequestro do Aldo Moro. (69) Brigate Rosse, Comunicato n. 1 - Sequestro di Mario Sossi (aprile 1974). (70) Brigate Rosse, Comunicato n. 2 - Sequestro di Mario Sossi. “In seguito agli innumerevoli falsi che i giornali del mattino e del pomeriggio hanno raccattato senza scrupolo, non certo con l’intento di fornire ai loro lettori un’informazione corretta e completa, facciamo presente che solo i comunicati battuti con la macchina che ha firmato il primo sono autentici. Non si tratta di un gioco e le false informazioni possono soltanto aggravare la posizione del prigioniero”. (71) Brigate Rosse, Comunicato n. 3 – Sequestro di Mario Sossi. (72) Brigate Rosse, Comunicato n. 1 - Sequestro di Aldo Moro (16 marzo 1978). (73) Brigate Rosse, Comunicato n. 2 - Sequestro di Aldo Moro (25 marzo 1978). (74) Brigate Rosse, Comunicato n. 4 - Sequestro di Aldo Moro (4 aprile 1978). (75) Ivi. (76) Brigate Rosse, Risoluzione 1978, § 17. (77) Ivi. (78) A. Giovagnoli, op. cit., p. 260. (79) Ivi. (80) Ivi, p. 261. (81) Ivi, p. 10. (82) C. Marletti, Il terrorismo moderno come strategia di comunicazione. Alcune considerazioni a partire dal caso italiano, in R. Villa (a cura), La violenza interpretata, Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 204-205. (83) In un’intervista rilasciata un mese prima del sequestro di Aldo Moro Marshal McLuhan istituiva un collegamento tra il riemergere della violenza politica e i nuovi strumenti di comunicazione. “Senza Comunicazione non vi sarebbe terrorismo. Potrebbero esservi le bombe, potrebbe esserci l’hardware, ma il nuovo terrorismo è software, è elettronica. Perciò senza elettronica niente terrorismo. In altre parole i terroristi adoperano questa gigantesca arma che è l’elettronica, la quale poi è un’arma pubblica del software” (M. McLuhan, intervista rilasciata a G. Fantauzzi, “Il Tempo”, 19 febbraio 1978). (84) C. Marletti, Il terrorismo moderno, cit., p. 209. (85) A. Giovagnoli, op. cit., p. 228. (86) A. Moro, Il diritto, lo Stato (lezioni 1944-1945, 1946-1947), Cacucci editore, Bari, 1978, p. 214. Si tratta di due corsi, di Filosofia del diritto e di Dottrina dello Stato, svolti nell’università di Bari. (87) Ivi, p. 218. (88) Ivi, p. 227. |