La donna musulmana tra Europa e paesi musulmani |
Farian SABAHI |
In Europa vivono circa quindici milioni di immigrati musulmani. Tenerne la contabilità non è facile, soprattutto a causa delle naturalizzazioni e della presenza, in misura diversa nei vari Stati del vecchio continente, di seconde e terze generazioni che non sempre condividono la fede dei genitori e dei nonni. Una scelta, quella religiosa, che può variare nel tempo: dal laicismo si può infatti passare, con il passare degli anni, all'osservanza e viceversa. Nel corso della mia inchiesta sui musulmani in Occidente, pubblicata a puntate sul supplemento culturale Domenica del Sole 24 Ore dal mese di gennaio 2005 e inserita a ottobre nel volume Con il cuore a Oriente: viaggio tra i musulmani d'Europa, ho incontrato molti giovani ibridi, vale a dire figli di immigrati nati e cresciuti in Europa. da www.stpauls.it A volte è la loro identità europea a prevalere, a volte quella musulmana ereditata dai loro genitori. La scelta si impone più volte al giorno. Io stessa, quando sono a casa e mi metto ai fornelli per preparare il pranzo per la mia famiglia devo decidere tra spaghetti al pomodoro e riso pilaf con carne e verdura; al ristorante l'opzione si pone tra birra analcolica e vino rosso; davanti allo specchio tra minigonna e pantalone largo; accendendo lo stereo tra musica persiana e Vasco Rossi. Se io fossi musulmana praticante, alcune scelte non mi si porrebbero nemmeno perché eviterei subito, per motivi religiosi, l'alcol e la minigonna. Per molti ibridi, queste decisioni possono essere difficili e imporre un inutile dispendio di energie. In questo contesto l'Islam può essere di grande aiuto perché - al pari di altre religioni - dice al fedele osservante che cosa mangiare, bere, indossare e ascoltare. La religione assolve dalla scelta e rende quindi, in un certo senso, la vita più facile. L'atteggiamento degli immigrati nei confronti della religione e, in particolare, la loro eventuale intransigenza interessano direttamente i governi europei. Chi di noi può infatti dimenticare Muhammad Atta, il capo dei dirottatori dell'11 settembre 2001, figlio di un noto avvocato egiziano, laureato in ingegneria, residente ad Amburgo e apparentemente integrato nella società tedesca? Nel suo caso, a scatenare la follia omicida non sembra sia stata l'emarginazione ma, piuttosto, una graduale presa di coscienza. Lo stesso si può dire degli attentatori dell'11 marzo 2004: a far saltare in aria il treno dei pendolari nella stazione madrilena di Atocha sono stati dei marocchini di seconda generazione. Innanzi tutto, dobbiamo tenere presente come alcune decisioni dei governi europei possano apparire inconciliabili con il modo di vivere dei musulmani. Pensiamo, per esempio, all'apertura di paesi come la Spagna ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, unioni impensabili negli Stati islamici. L'Egitto, per esempio, condanna al carcere gli omosessuali. D'altra parte, nei paesi europei possono però risiedere cittadini di fede musulmana favorevoli alla promulgazione di leggi per riconoscere la poligamia. Fatta questa premessa sulla presenza musulmana in Europa, soffermiamoci ora sulla condizione femminile nei paesi islamici. Le differenze sono numerose e dipendono principalmente dal ceto sociale e dal milieu, urbano o rurale, e dal livello di cultura. Le signore dell'alta borghesia di Casablanca e Teheran, per questo motivo, hanno condiviso molto di più tra loro che non con le loro coetanee residenti, rispettivamente, nelle campagne marocchine e iraniane. Un altro fattore importante è il livello d'istruzione: in una famiglia in cui entrambi i genitori sono laureati si manifesterà, ovviamente, una maggiore attenzione per il proseguimento degli studi da parte di tutti i figli, sia maschi sia femmine. I musulmani sono all'incirca un miliardo e duecento milioni. Se le donne sono la metà di questa popolazione, e dunque seicento milioni, non possiamo considerarle un insieme omogeneo. Inoltre, il mondo arabo rappresenta soltanto il quindici per cento dell'universo musulmano, anche se l'arabo è la lingua in cui il Corano fu rivelato. Alcuni potrebbero avanzare l'ipotesi secondo cui la religione e la cultura musulmana sono un denominatore comune, ma questa affermazione non trova conferma nella realtà: non esiste un solo Islam, su alcuni temi le interpretazioni del Corano trovano applicazioni diverse da paese a paese. Il velo è un chiaro esempio delle differenze esistenti nel mondo musulmano. Paese che vai, usanza che trovi: in Tunisia e in Turchia il velo è vietato negli spazi pubblici; in Iran gli ayatollah hanno imposto un'uniforme composta da pantaloni lunghi, soprabito e foulard che lascia scoperto soltanto il volto e le mani; nei paesi del Golfo le donne lasciano intravedere solo gli occhi; nell'Afghanistan dei Talebani, così come nella città pakistana di Peshawar, il burka è un lasciapassare per quelle che decidono di uscire di casa in una società dove a dominare sono le antiche leggi tribali. Altre differenze sostanziali si riscontrano nel diritto di famiglia. A cominciare dal diritto al divorzio, un argomento in continua evoluzione come dimostra la Mudawana, vale a dire la riforma messa in atto in Marocco nel febbraio 2004 per garantire maggiori diritti alle donne e ostacolare la poligamia, ora permessa solo con l'autorizzazione della prima moglie. Non sono più consentiti matrimoni di fanciulle sotto i diciotto anni, i mariti devono rivolgersi al tribunale se vogliono ripudiare le consorti, anche le donne possono chiedere il divorzio e non sono più obbligate legalmente a obbedire ai coniugi. La riforma del diritto di famiglia in Marocco ha conseguenze dirette per il benessere dei minori, poiché concede l'abitazione al genitore che ottiene dal giudice la custodia dei figli. Criticato dal clero conservatore per la nuova legislazione, il sovrano Mohammed VI si è difeso spiegando che è in linea con i principi coranici. Per una vera riforma sarà però necessario emendare il codice penale, secondo cui le donne sono ancora considerate dei minori. Le diversità nelle legislazioni dei paesi islamici sono in parte conseguenza del colonialismo: raggiunta l'indipendenza nel 1956, in Tunisia il presidente Habib Bourguiba, sposato con una francese e in carica per un trentennio fino al 1987, mutuò la costituzione e il codice civile da quelli dei colonizzatori. La modernità era una priorità e l'avanzamento della condizione femminile un passo importante. Per questo motivo, oggi le donne di questo paese del Maghreb possono abortire a propria discrezione, anche contro il parere del marito (1) . Le donne musulmane sono purtroppo vittime di stereotipi. Agli occhi degli occidentali non hanno diritti politici, non possono studiare né lavorare. La realtà non è così fosca: a proposito di diritti politici in Iran, un paese tanto criticato e inserito dal presidente statunitense George W. Bush nell'asse del male, le donne hanno il diritto di voto dal 1963. Ben prima delle svizzere che, in alcuni cantoni, poterono andare alle urne soltanto undici anni dopo, nel 1974. In merito allo studio, le statistiche dimostrano un tasso crescente di alfabetizzazione nella maggior parte dei paesi islamici, mentre il lavoro non è, per molte musulmane come per donne aderenti ad altre fedi religiose e per le laiche, una libera scelta ma un dovere per mantenere se stesse e la propria famiglia. Nell'opinione pubblica italiana gli stereotipi si sono recentemente rafforzati in seguito alla pubblicazione del volume "Non sottomessa" (Einaudi, 2005) di Ayaan Hirsi Ali cui si deve anche la sceneggiatura di "Submission", la pellicola del regista olandese Theo Van Gogh assassinato lo scorso novembre da un marocchino naturalizzato nei paesi Bassi. Oltre all'omicida, il corpo nudo di donna martoriato dalle frustate e con versetti coranici sulla pelle ha offeso molti credenti anche in Italia. Tra questi, l'ex modella tunisina Afef Tronchetti Provera e la presentatrice televisiva palestinese Rula Jebreal hanno espresso la loro contrarietà rispettivamente sul Corriere della Sera e nella trasmissione Porta a porta condotta sulla RAI da Bruno Vespa, pur precisando di non essere praticanti. Nata in Somalia, Hirsi Ali è poi emigrata con la famiglia in Arabia Saudita. Un padre assente, una madre fredda e distaccata, subisce anche la mutilazione genitale femminile, è data sposa contro il suo volere, si ribella e trova scampo in Olanda. Una storia drammatica, che in Italia è stata strumentalizzata da una parte della destra che ha così capovolto il messaggio che la deputata olandese cercava di trasmettere: nei suoi articoli Hirsi Ali ha denunciato i maltrattamenti subiti dalle donne musulmane in patria e in terra d'immigrazione, ma la Lega ha usato la pellicola "Submission" per gettare fango sull'Islam e sugli immigrati di fede musulmana. foto ansa Hirsi Ali ha una storia personale terribile ma non deve diventare un simbolo. E non devono diventarlo nemmeno i tredici milioni di afgane (la popolazione totale dell'Afghanistan è di ventisei milioni) costrette dai Talebani a coprirsi con il burka. Non tutte le musulmane sono maltrattate e, come dimostra il rapporto di Amnesty International, la violenza contro le donne non è prerogativa esclusiva dell'Islam. In Spagna, per esempio, questa organizzazione per la difesa dei diritti umani stima che circa due milioni di donne siano vittime di violenza domestica, ma meno del due percento abbia il coraggio di denunciare l'aggressore (2) . La violenza contro le donne è un fenomeno condiviso anche dal mondo musulmano, dove il problema è spesso aggravato dalla mancanza di sanzioni adeguate che possano funzionare da deterrente. Nel mondo musulmano esistono però anche esempi positivi, donne che hanno ricoperto e ricoprono ruoli di primo piano in politica: la pakistana Benazir Ali Bhutto, cinquantadue anni, è stata la prima donna ad avere ricoperto la carica di premier in un paese musulmano, dal 1988 al 1990 e poi ancora dal 1993 al 1996; nel luglio 2001 il parlamento indonesiano ha licenziato il presidente Wahid, accusato di corruzione e incompetenza, per sostituirlo con il suo vice Megawati Sukarnoputri, una donna, in carica fino al settembre 2004, quando l'ex generale Susilo Bambang Yudhoyono ha vinto il secondo turno delle presidenziali in quella che, con 225,3 milioni di abitanti, è la terza democrazia più numerosa al mondo. Le musulmane hanno ruoli di rilievo anche nelle società civili dei loro paesi. L'avvocata iraniana Shirin Ebadi si è aggiudicata il Nobel per la pace il 10 ottobre 2003. Il suo non è un caso isolato e infatti la sua collega Mehrangiz Kar era stata nominata, un paio di anni prima, finalista per il premio donna dell'anno assegnato dalla Regione Val d'Aosta in collaborazione con l'Associazione stampa estera. Altre figure femminili militano poi nel settore dell'editoria e Shahla Laheji è un'esponente di rilievo sulla scena letteraria di Teheran e a lei si deve, tra l'altro, la pubblicazione delle traduzioni in persiano delle opere di Pirandello. Detto questo, le musulmane hanno tutta una serie di problemi dovuti sia alle difficoltà economiche sia all'imposizione della sharia (legge islamica) in alcuni paesi, soprattutto per quanto riguarda il diritto di famiglia, su cui vorrei soffermarmi. Nell'Islam la famiglia è il solo gruppo basato sulla consanguineità riconosciuto dal diritto islamico, nel tentativo di prendere le distanze dalla solidarietà tribale diffusa al tempo di Maometto nella penisola araba. Il matrimonio è un contratto riconosciuto dal diritto civile e rivela tracce dell'antica consuetudine di acquistare la moglie: lo sposo conclude il contratto con il tutore legale della donna e s'impegna a pagare il mahr (dono nuziale, dote o prezzo della sposa) direttamente alla futura moglie anziché al tutore come in epoca preislamica. Per sposarsi sono necessari due testimoni. Il tutore (wali) è il parente maschio più prossimo. Può dare la donna in sposa contro la sua volontà se è minorenne ma, raggiunta la maggiore età, questa ha diritto di recesso. Alcuni studiosi affermano però che tale diritto di recesso è negato se a darla sposa è stato il padre oppure il nonno. Il mahr può essere un deterrente al divorzio, se non versato al momento della stipulazione del contratto. Il Corano elenca le persone mahran, con cui si hanno vincoli di sangue (o di allattamento, quando si è condivisa la stessa nutrice) e che non si possono quindi sposare. Il Corano sancisce inoltre la poligamia: l'uomo può sposare fino a quattro donne, più concubine. In Iran, sotto determinate condizioni, è inoltre lecito stipulare dei matrimoni temporanei. In merito ai rapporti famigliari il potere del marito è ampio e comprende un limitato diritto di correzione. Può vietare alla sposa di uscire di casa e limitare persino i contatti con i suoi parenti. La moglie disobbediente può perdere il diritto al mantenimento. La donna ha comunque il diritto di rifiutare di accompagnare il marito in viaggio e di negare il permesso ai figli. Il Corano obbliga la donna a adempiere i doveri coniugali, e il marito a mantenere la moglie secondo il ceto sociale. Nell'Islam non esiste comunione dei beni nel senso occidentale. Se la donna ha un suo benessere, come l'eredità paterna oppure un reddito da lavoro, non è obbligata a condividere questo benessere con il marito. Ma il Corano recita: "Se la moglie vuole farvi partecipe delle sue sostanze, gioitene con piacere". Come si accennava poco fa, tenuto conto che la maggioranza degli Stati musulmani sono paesi del Terzo mondo, per le donne lavorare non è una possibilità ma un dovere. Nell'Islam il divorzio è una prerogativa maschile, che l'uomo esercita con il ripudio. Il Corano prevede un deterrente nel caso di abuso di questa pratica: se il marito ripudia tre volte la sposa potrà ricongiungersi a lei solo dopo che la donna abbia sposato un altro marito e il matrimonio sia stato consumato. La donna può chiedere il divorzio se il marito è malato, impotente o incapace di mantenerla. Dopo il divorzio, la donna deve rispettare la 'idda, vale a dire il periodo di ritiro legale da trascorrere prima di risposarsi: quattro mesi e dieci giorni per una donna libera, metà del tempo se è una schiava, fino alla nascita del bambino se in gravidanza. La figlia femmina eredita la metà del maschio ma se si è sposata ha già ricevuto la dote e, se non ha contratto matrimonio, i parenti di sesso maschile hanno l'obbligo di mantenerla. La legge islamica discrimina la donna anche a proposito della testimonianza: quella femminile vale la metà perché si ritiene che non sia competente, soprattutto nelle questioni di commercio di cui tanto si occupa il Corano anche se Khadija, la prima moglie del Profeta, era una ricca commerciante. Oggi, in alcuni paesi, la testimonianza della donna vale tanto quella di un uomo, per esempio in campo medico, ovviamente se è competente. In Pakistan, invece, non vale nulla la testimonianza di donne e bambini, per esempio in caso di stupro. Un'ulteriore discriminazione si verifica con il prezzo del sangue, vale a dire con il risarcimento dovuto alla famiglia della vittima nel caso di assassinio: i famigliari possono accettare il prezzo del sangue anziché applicare la legge del taglione. Nel caso di donne uccise, il prezzo del sangue è la metà rispetto alla somma valutata per un membro maschile di quella famiglia. In Iran è in corso un dibattito parlamentare per equiparare il prezzo del sangue e Shirin Ebadi sostiene - insieme ad altre iraniane - che le donne della Repubblica Islamica svolgono un ruolo fondamentale nella società e nell'economia del paese e per questo motivo la loro vita deve valere tanto quanto quella di un uomo. Passiamo alla custodia dei figli, una questione gestita in modo diverso da paese a paese. Nell'Iran sciita i maschietti stanno con la madre fino ai due anni, le femmine fino ai sette. La giurisprudenza recente permette alla mamma di tenere i figli con sé più a lungo, nell'interesse dei minori, ma se si risposa i figli le sono tolti. La materia è in continua evoluzione: un tempo nel caso di morte del padre i figli dovevano andare a vivere con i suoi parenti ma durante la guerra Iran-Iraq alle vedove furono concessi sia il diritto di crescere i figli sia la reversibilità dello stipendio del marito, senza interferenze da parte della famiglia del defunto. Questo diritto, acquisito negli anni Ottanta dalle vedove di guerra, è oggi garantito a tutte le donne che perdono il marito. Nel mondo sunnita il diritto della madre sui figli prevale - in teoria - su quello del padre: in caso di figlio maschio, la madre può occuparsene fino ai sette, nove anni, mentre se femmina fino alla maggiore età. Di seguito alcuni esempi. Una donna saudita divorziata porta in genere i figli a casa del proprio padre. Una siriana divorziata che ha una sua casa e non si risposa ha il diritto di tenere il figlio maschio fino al compimento dei nove anni e le femmine fino agli undici anni. In genere sono però gli uomini ad avere la proprietà dell'abitazione e a convincere il giudice a farsi dare l'affidamento dei minori. Un'egiziana ottiene in genere l'affidamento, salvo che il marito dimostri che non è adatta, oppure se si risposa. La costituzione del 1956 garantisce inoltre alle donne in gravidanza e che allattano un'ora di riposo, un assegno di maternità (un mese) e la possibilità di mettersi in aspettativa - senza retribuzione - fino a un massimo di tre anni. I tribunali tunisini valutano caso per caso. In Algeria la custodia dei figli spetta in genere alle madri e i padri hanno il diritto di visita; al compimento dei dieci anni, i maschi vanno a vivere con il padre, mentre le ragazze restano con la madre fino al matrimonio; in caso di morte del coniuge, le vedove algerine hanno automaticamente la custodia dei figli. Nel mondo musulmano, anche se le madri ottengono la custodia dei figli difficilmente riescono a farsi pagare dall'ex-marito l'assegno di mantenimento. Se non si può parlare di eguaglianza tra uomo e donna, e quindi di uguali diritti tra marito e moglie nel diritto di famiglia, la causa principale è da imputare agli enormi ostacoli nell'emendare la legge. La fonte del diritto è, infatti, Dio: il Corano è parola di Dio e, di conseguenza, non si può emendare. Nella nostra analisi sulla condizione femminile veniamo ora all'Iran, un caso di particolare interesse a causa dell'involuzione storica nel corso della seconda metà del Novecento. Con il Family Protection Act, nel 1967 lo scià diede maggiori diritti alle donne, per esempio a proposito del matrimonio. Il Family Protection Act fu poi migliorato nel 1975, e l'opposizione clericale si oppose con veemenza, accusando il regime di decadenza. Nel 1979 l'Iran fu stravolto dalla Rivoluzione islamica. All'indomani della presa di potere, Khomeini introdusse misure severe contro le donne: il 26 febbraio 1979 annunciò l'abrogazione del Family Protection Act, il 3 marzo vietò alle donne di ricoprire la carica di giudici, tre giorni dopo le donne dovettero indossare l'hejab sul posto di lavoro. In occasione della festa della donna l'8 marzo 1979 le iraniane protestarono per l'imposizione del velo e chiesero al premier Bazargan di intervenire, ma le milizie degli hezbollah attaccarono i dimostranti. Il giorno 29 dello stesso mese, Khomeini annunciò la segregazione delle donne nelle spiagge e negli eventi sportivi. L'ayatollah Khomeini non poté però togliere il diritto di voto alle donne, ormai radicato nella storia, né impedire loro l'ingresso in università. Fondato nel 1934 da Reza Shah, l'ateneo di Teheran è infatti, sin dall'inizio, aperto a entrambi i sessi. Può sembrare strano, ma sarà poi la Repubblica Islamica a dare alle donne iraniane quei diritti che - a leggere una certa stampa italiana - sembrano negati. Per esempio le iraniane possono avviare le pratiche per il divorzio dal 1982, dieci anni dopo è stata introdotta un'ulteriore liberalizzazione, nel 1988 è stato lanciato un programma nazionale di pianificazione delle nascite e alla fine degli anni Ottanta le donne hanno avuto maggiori opportunità nell'istruzione superiore e nel mondo del lavoro. Oggi, in Iran il 63% delle matricole universitarie sono donne. Se l'Iran è espressione dello sciismo duodecimano ed è considerato un paese potenzialmente pericoloso, l'Arabia Saudita è invece un alleato americano e professa l'Islam sunnita wahhabita. Fino al febbraio 2005, quando sono state organizzate le elezioni municipali, in Arabia Saudita non potevano votare nemmeno gli uomini. In queste elezioni sono andati alle urne soltanto gli uomini sopra i ventun anni. Nel regno è, inoltre, alta la percentuale di donne che hanno conseguito il dottorato di ricerca ma per loro mettere in pratica le conoscenze è quasi impossibile. Sono di febbraio 2005 le notizie secondo cui il ministero degli esteri saudita invita le donne a presentare la propria candidatura, e di una giovane assunta da un ricco principe per guidare uno dei suoi jet privati. Ottenuto in Giordania il brevetto per guidare gli aerei, nel paese natale la ragazza non è però autorizzata a stare al volante della propria automobile per arrivare sul posto di lavoro. Le donne musulmane cercano, da anni, di migliorare la propria situazione e il femminismo islamico, inteso come un "discorso femminista espressamente articolato all'interno del paradigma islamico", è conseguenza della loro lotta. Il termine è emerso negli anni Novanta negli scritti delle iraniane Afsaneh Najamabadeh e Ziba Mir-Hosseini, che ne spiegano la nascita e l'utilizzo nella Repubblica Islamica dell'Iran da parte delle giornaliste della rivista mensile "Zanan" (Donne) fondata da Shahla Sherkat nel 1992 (3) . La studiosa saudita Mai Yamani ha usato il termine nel suo libro "Feminism and Islam" e le turche Yesim Arat e Feride Acar nei loro articoli. Che cosa è il femminismo islamico? Secondo la studiosa Margot Badran il punto di partenza è che il Corano afferma il principio di uguaglianza di tutti gli esseri umani ma, nella pratica, tale uguaglianza è stata ed è anche oggi ostacolata dal sistema patriarcale. Priorità del femminismo islamico è quindi andare direttamente al Corano, il testo sacro fondamentale dell'Islam, per recuperare il suo messaggio ugualitario. La metodologia del femminismo islamico è l'interpretazione delle fonti religiose (ijtihad) e del Corano (tafsir), cui si possono aggiungere la storia, la critica letteraria, la sociologia, l'antropologia e le altre discipline che possono in qualche modo venire in aiuto. Il femminismo islamico, aggiunge giustamente Badran, può essere di particolare aiuto alle seconde generazioni di musulmane che vivono nelle comunità occidentali della diaspora e nelle comunità musulmane minoritarie. Sono queste donne, infatti, a trovarsi spesso strette "tra le pratiche e le regole delle culture d'origine dei genitori emigrati dal Medio Oriente o dai paesi dell'Asia meridionale e i modi di vita delle loro nuove patrie. Il femminismo islamico aiuta queste donne a districarsi tra religione e sistema patriarcale; fornisce loro modi islamici di comprendere l'uguaglianza di genere, le opportunità sociali e il proprio potenziale" (4) . foto ansa |
(1) Per un approfondimento del diritto di famiglia nel mondo musulmano e le diversità nell'applicazione della sharia (legge islamica) nei vari Stati si consiglia Islamic Family Law in a Changing World. A Global Resource Book a cura di Abdullahi A. An-Na'im (Zeb Books, Londra, 2002).
(2) Il rapporto di Amnesty International sulla violenza contro le donne è al sito http://web.amnesty.org/actforwomen/index-eng. (3) L'antropologa iraniana, oggi residente a Londra, Ziba Mir-Hossein è autrice dell'interessante saggio Islam and Gender. The Religious Debate in Contemporary Iran, I.B. Tauris, Londra, 2000, in cui spiega le dinamiche nell'interpretazione della legge islamica e il dibattito tra gli studiosi in Iran, soffermandosi sul ruolo esercitato da queste discussioni sul femminismo islamico. Dagli anni Settanta i teologi iraniani hanno discusso la posizione e le responsabilità delle donne nella società e, dopo la rivoluzione del 1979, le donne hanno partecipato attivamente in questi dibattiti. (4) L'articolo "Femminismo islamico: che cosa significa" di Margot Badran è disponibile in italiano nel volume Senza velo. Donne nell'Islam contro l'integralismo a cura di Monica Lanfranco e Maria G. Di Rienzo (Edizioni Intra Moenia, Napoli, 2005, pp. 29-39). Specializzata negli studi sul femminismo e sulla condizione femminile nelle società musulmane, Margot Badran è senior fellow al Center for Muslim-Christian Understanding presso la Georgetown University negli Stati Uniti. |