Marco Minniti
Intelligence e democrazia
L’evoluzione dei rischi per la sicurezza nazionale ripropone l’esigenza di cogliere il giusto equilibrio tra diritto alla sicurezza e libertà individuali. L’assunta polarità tra i due elementi è infondata. E ciò perché non è configurabile un diritto pieno alla sicurezza che non sia al contempo sintesi e garanzia dei valori fondanti della Comunità. Si delinea, così, la nuova vera scommessa per l’intelligence che, dispiegando in maniera efficace ed equilibrata le potenzialità della propria delicata missione nell’interesse dei cittadini e del Sistema Paese, metta in pratica il principio forte ‘sicurezza è libertà’, ponendosi a baluardo dei confini della democrazia.
In un mondo globalizzato, che offre uno scenario profondamente mutato e magmatico, verrebbe da dire ‘destrutturato’, l’intelligence – nella nuova configurazione delineata dalla riforma del 2007, successivamente novellata nel 2012 – è chiamata a fronteggiare le nuove minacce, asimmetriche e senza confine, con rinnovata forza e capacità.
La fine della guerra fredda, insieme all’irruzione del terrorismo internazionale di tipo catastrofico hanno rappresentato due snodi epocali a cavallo del passaggio di secolo. L’emergere di fattori di rischio per il Sistema Paese particolarmente insidiosi per l’elevato livello degli attori coinvolti e l’ampiezza delle ricadute (come la minaccia cibernetica e quella alla sicurezza economica), il rilievo aggressivo che continua a caratterizzare le minacce ‘tradizionali’ (la proliferazione, il terrorismo interno e internazionale ecc.), in uno con il profilarsi di pericoli su terreni del tutto inediti legati alle risorse, naturali ed energetiche, ai fenomeni migratori, all’ambiente, rappresentano indicatori di scenario di un nuovo mondo in cui si percepisce come il diritto alla sicurezza giochi sul terreno della centralità dell’informazione una partita per molti versi decisiva.
Le nuove sfide hanno connotato il lavoro d’intelligence di una nuova strategicità, riproponendo in termini nuovi un’antica esigenza, quella dell’individuazione del giusto equilibrio tra diritto alla sicurezza e altri diritti di libertà (tra cui la privacy, ma non solo), tema sul quale nei tempi più recenti, sullo sfondo dei noti fatti del Datagate americano, è cresciuta in modo esponenziale la sensibilità.
È un rapporto difficile o, addirittura, inconciliabile? Per avere più sicurezza bisogna per forza rinunciare alla libertà? L’aumento dell’una determina la diminuzione dell’altra? C’è chi dà risposta affermativa a tali quesiti e chi si è coerentemente orientato nella prassi governativa.
Il mio pensiero è di segno opposto.
L’assunta polarità tra sicurezza nazionale e diritti dell’uomo è infondata. E ciò non solo perché non pare ipotizzabile, in un sistema a costituzionalismo democratico, un diritto pieno alla sicurezza che non sia al contempo sintesi e garanzia dei valori fondanti della Comunità costituzionalmente tutelati; ma anche perché in un sistema di rule of law la garanzia concreta del diritto alla sicurezza, vero e proprio patrimonio comune dei cittadini, deve necessariamente misurarsi con l’accountability e con la soglia di accettabilità delle misure di contrasto necessarie.
Di fronte a rischi crescenti e minacce globalizzate, la Comunità nazionale è sempre più chiamata a investire fiducia in direzione della costruzione di una nuova cultura della sicurezza e dell’intelligence, che veda al centro l’etica delle politiche ritenute indispensabili, perché la sicurezza necessaria si configuri quale esercizio di libertà e corollario del way of life delle democrazie, la cui sfida di difendere i valori universali mantenendo alto il profilo delle garanzie rafforza, anziché deprimere, la risposta ai pericoli vecchi e nuovi.Se la sicurezza è un diritto, non può esserci contraddizione con altri diritti, in quanto questo trova piena cittadinanza nel novero più ampio dei diritti di libertà.
Sicurezza e libertà non sono istanze contrapposte, ma vanno di pari passo. La garanzia della prima costituisce un pre-requisito dell’esercizio della seconda. È per questo che ritengo che i due segmenti non debbano rappresentare un passaggio conflittuale: essi vanno contemperati e integrati.
Il tema allora si sposta dalla contrapposizione al contemperamento tra diritti diversi, confluenti in un’unica direzione, in cui l’ampiezza del proprio riconoscimento reciproco e il corrispettivo bilanciamento possono vedere un diverso atteggiarsi degli equilibri nel succedersi di differenti condizioni storiche. La gestione delle possibili tensioni tra i due elementi postula la necessità di calibrare consentite restrizioni alle libertà individuali in funzione della tutela della sicurezza, sulla base dei criteri guida di proporzionalità, di necessità, di imparzialità, di irrinunciabile rispetto di taluni diritti universali, nonché di controllo, non solo giudiziario ma anche di etica della buona amministrazione.
Ed è nell’osservanza di questi ‘paletti’ che opera l’intelligence italiana, all’interno di una cornice normativa di riferimento tracciata dal passaggio riformatore del 2007, ma anche da altre fonti legislative ovvero di rango secondario, che circoscrivono l’operatività degli Organismi informativi in modo rigoroso, entro un perimetro di legalità delimitato da plurime prescrizioni spesso piuttosto stringenti che, nel loro complesso, concorrono a definire una sorta di statuto giuridico dell’intelligence, senza per questo comprometterne la capacità funzionale. Si pensi, in particolare, alle disposizioni recate dal Codice della privacy che fissano precise condizioni alle operazioni di trattamento dei dati personali gestite dai medesimi Organismi, in un’ottica di contemperamento delle imprescindibili esigenze di sicurezza con la tutela della riservatezza dei rispettivi titolari.
Vorrei anche ricordare, a tal proposito, come la definizione – nell’ultimo scorcio del 2013 – di un Protocollo d’Intenti con il Garante per la privacy, rappresenti un ulteriore passo in avanti lungo quel percorso di rafforzamento delle garanzie a presidio della riservatezza dei dati personali da parte del Comparto d’intelligence, che si affiancano ai controlli demandati al Copasir e all’Autorità Giudiziaria (questi ultimi relativamente ai dati sulle comunicazioni), dando vita a un sistema atto a scongiurare il rischio di una sorveglianza massiccia e indiscriminata.
Ecco, allora, delinearsi nel nuovo scacchiere della sicurezza globale, multipolare – o, come preferirei definirlo, apolare, privo, cioè, di chiari punti di riferimento e schieramenti predefiniti – la nuova vera scommessa per l’intelligence: un’intelligence che, attraverso un lavoro strutturato e sinergico, dispiegando in maniera efficace ed equilibrata le potenzialità della propria delicata missione nell’interesse dei cittadini e del Sistema Paese, metta in pratica il principio forte sicurezza è libertà, ponendosi a baluardo dei confini della democrazia, nella convinzione che sia possibile fornire la necessaria sicurezza entro i limiti di una legislazione democratica.
L’intelligence, dunque, come un’opportunità, uno strumento che può rendere più forte e più credibile una democrazia.
A tale nuova idea di sicurezza, all’approccio culturale di apertura che la sottende, e all’intento di divulgarla presso i cittadini si lega, tra l’altro, una serie di iniziative messe in campo nei tempi recenti dal Sistema di intelligence (la nuova versione del sito www.sicurezzanazionale.gov.it, la rivisitazione nei contenuti e nella grafica di GNOSIS, che si traduce nell’apertura di un vero e proprio dialogo ad ampio raggio con tutta la società civile) in un’operazione di discovery volta non solo a segnare un adeguamento delle strutture dei Servizi alle dinamiche di comunicazione istituzionale, ma soprattutto a promuovere la cultura di riferimento nell’opinione pubblica, anche per ‘archiviare’ un passato in cui quel mondo esprimeva separazione e distanza – dando adito troppo spesso a stereotipi, pregiudizi e immagini distorte – e collocandosi invece, com’è giusto e naturale che sia, a pieno titolo quale questione importante della Community nazionale.
E invero, il concetto di ‘intelligence partecipata’ – come strumento di democrazia e funzione per rinsaldarne i principi e i confini – per essere compreso fino in fondo necessita di un legame saldo con le istituzioni della cultura che sono la sede naturale di uno scambio troppo a lungo trascurato. E in tale solco si colloca anche il road-show, una serie di incontri live nei più importanti Atenei italiani, inteso sì a spiegare il mondo dell’intelligence e il suo nuovo corso agli occhi dei giovani universitari, ma anche a creare – in modo del tutto inedito e informale – un rapporto di affidabilità con la società civile, partendo da una più diretta connessione con le eccellenze accademiche e lanciando un chiaro messaggio al mondo universitario, un interlocutore privilegiato con il quale sviluppare collaborazioni in grado di mobilitare le conoscenze e i saperi del Paese a favore della sua sicurezza e del suo benessere e dal quale attingere professionalità per supportare l’intelligence nazionale nelle nuove sfide.
Nella stessa direzione sono in cantiere anche progetti comuni tra intelligence e mondo della ricerca e partnership soprattutto nei settori strategici, per costituire un moltiplicatore di esperienze positive.
Oggi più che mai il Sistema deve fare sistema!
Vorrei chiudere ricordando, sempre all’insegna della trasparenza e della costruzione di un nuovo rapporto di fiducia con i cittadini, il percorso, avviato nei tempi più recenti su determinazione del Presidente del Consiglio, di declassifica degli atti afferenti alle stragi, aprendo all’accesso di studiosi e cittadini una mole di testimonianze documentali finora coperte dal vincolo della riservatezza, nella convinzione che una democrazia forte sia in grado di guardare con serenità alle sue pagine più drammatiche.