di Sergio Romano
La Russia e i suoi confini
Fra i rimproveri meno convincenti mossi a Vladimir Putin negli ultimi mesi vi è quello di aver detto che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fu una catastrofe geopolitica. In realtà, questa era già l’implicita convinzione del presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush quando suggerì agli ucraini, nel discorso di Kiev del luglio 1991, di rinunciare a qualsiasi tentazione secessionista. Ne erano convinti Leonid Kravčuk, presidente dell’Ucraina, e Stanislas Suškevič, presidente della Bielorussia, quando firmarono con il presidente russo Boris El’cin a Belaveža, nei pressi di Brest, l’accordo per la creazione di una Comunità degli Stati indipendenti a cui avrebbero aderito tutti gli Stati dell’Urss con l’eccezione delle tre repubbliche del Baltico (Estonia, Lettonia e Lituania).
Nelle intenzioni dei tre presidenti sovietici, la Comunità avrebbe evitato di rimettere in discussione non soltanto le frontiere create dalla Seconda guerra mondiale e riconosciute nell’Atto Unico di Helsinki dell’agosto 1975, ma anche le frontiere interne dell’Urss, più volte corrette e modificate da Stalin e dai suoi successori. I pericoli maggiori erano rappresentati dall’esistenza nel territorio russo di numerose comunità allogene e dalla presenza nelle repubbliche ‘minori’ di forti comunità russe. Ancora oggi si calcola che in Russia, secondo il censimento del 2002, gli ucraini siano 3.942.961, gli armeni 1.130.941 e i tatari addirittura 5.554.601; mentre i russi sarebbero il 5,5% dell’Uzbekistan (su una popolazione di circa 29 milioni), il 4% del Turkmenistan (5 milioni), l’1,1 del Tagikistan (8 milioni), l’1,4% dell’Azerbaigian (quasi 10 milioni), e un numero pressoché insignificante in Armenia. Ma sono il 23% del Kazakistan (18 milioni), il 17% dell’Ucraina (44 milioni), l’8,3% della Bielorussia (più di 8 milioni), il 5,8% della Moldova (3 milioni e 600.000).
La Comunità nata a Belaveža non poté impedire un certo numero di conflitti. Il primo era già scoppiato, prima della dissoluzione dell’Urss, fra l’Armenia e l’Azerbaigian per il possesso del Nagorno-Karabach: un’enclave armena in territorio azero che Stalin aveva regalato a Bakù nel 1920 quando pensava che quel gesto di generosità avrebbe migliorato i rapporti dell’Urss con la Turchia. Altri conflitti scoppiarono nei mesi seguenti. L’Abkhazia cercò di separarsi dalla Georgia e le popolazioni russo-ucraine a nord del fiume Nistro proclamarono la loro indipendenza dalla Moldavia nell’agosto del 1991.
Il caso più grave fu quello della Cecenia che proclamò la sua indipendenza nello stesso anno. La Russia intervenne militarmente per dare un limitato aiuto agli insorti nel caso della Transnistria, ma più pesantemente in Cecenia, prima durante la presidenza El’cin, dal 1994 al 1996, poi dopo l’avvento di Vladimir Putin al potere alla fine degli anni Novanta. In Transnistria la Russia non riconobbe la scissione e si limitò ad avere con gli insorti rapporti di fatto, mentre in Cecenia, dove la guerra fu molto più lunga e sanguinosa, confermò alla regione il suo vecchio status di Repubblica autonoma. In ambedue i casi lo scopo era lo stesso: conservare i vecchi confini, consolidare l’integrità territoriale degli Stati emersi dalla disintegrazione dell’Urss. Allo stesso criterio si era ispirato El’cin nell’ottobre 1996 quando aveva negoziato con il presidente ucraino Kučma un contratto per l’affitto pluriennale della base navale di Sebastopoli. L’accordo riconosceva implicitamente la sovranità ucraina sulla Crimea, ma garantiva la presenza della flotta russa nel Mar Nero.
La politica russa è cambiata nel 2008 quando Mosca, dopo la guerra georgiana, ha riconosciuto l’indipendenza di due regioni della Georgia, l’Abkhazia e l’Ossezia del sud: una mossa che contraddisse la linea a cui Putin, allora presidente del Consiglio durante la presidenza Medvedev, si era attenuto sino a quel momento. Ma uno sguardo a qualche avvenimento precedente può forse servire a comprendere, se non a giustificare, le reazioni russe. Alla fine del 1990 la Germania si era unificata con il tacito consenso di Michail Gorbačëv. Bush sr ne aveva parlato con il leader sovietico e lo aveva tranquillizzato promettendo che la Nato non avrebbe esteso la sua presenza al di là del confine da cui le due Germanie erano state separate durante la Guerra fredda. Ma la nascita di una nuova Germania, dal Reno all’oder, metteva in discussione, implicitamente, tutti gli impegni dell’Atto Unico di Helsinki. Non è tutto. Un anno dopo la sua unificazione, la Germania aveva dato il via alla disintegrazione della Jugoslavia con il riconoscimento di due repubbliche federate, Slovenia e Croazia, che avevano proclamato la loro indipendenza.
Otto anni dopo, nel 1999, la Nato aveva bombardato la Serbia senza attendere il mandato del Consiglio di sicurezza che Russia e Cina, verosimilmente, le avrebbero negato. E nel 2004, infine, aveva riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Forse che il caso dell’Abkhazia era radicalmente diverso da quello del Kosovo?
La promessa di Bush sr a Gorbačëv nel frattempo era stata dimenticata. Nel 1994, Bill Clinton, presidente degli Stati Uniti dagli inizi del 1993, decise che l’Alleanza Atlantica si sarebbe estesa sino a includere tutti i vecchi satelliti dell’Urss e le tre Repubbliche del Baltico. Più tardi, durante la presidenza Bush, la stessa prospettiva fu offerta a due membri della Comunità degli Stati indipendenti: la Georgia e l’Ucraina. Nel momento in cui il presidente Michail Saakašvili decise l’occupazione dell’Ossezia, fra il 7 e l’8 agosto 2008, vi erano in Georgia 800 istruttori militari americani che non ignoravano probabilmente i preparativi del comando militare georgiano. L’offensiva fu evidentemente lanciata nella convinzione che gli Stati Uniti, se necessario, non avrebbero esitato a gettare il loro peso sul piatto della bilancia.
La rapida sconfitta delle forze georgiane, le esitazioni americane e un intervento del presidente francese Nicolas Sarkozy, nelle vesti di presidente dell’Unione europea, ebbero l’effetto di evitare il peggio. L’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud fu un errore, ma dimostrò che la Russia non avrebbe assistito senza reagire al passaggio nel campo occidentale di un Paese che era stato russo e sovietico. Agli occhi dei russi, le ragioni che li avevano indotti a tollerare l’adesione alla Nato delle repubbliche del Baltico non potevano valere per la Georgia.
Questi precedenti servono a meglio comprendere le reazioni russe nella vicenda ucraina. Il trattato di associazione, che il governo di Kiev stava per firmare con l’Unione europea agli inizi del 2014, fu considerato a Mosca il primo passo di un percorso che sarebbe proseguito con l’ingresso nell’Ue e l’adesione all’Alleanza Atlantica. Se fossero stati interpellati sulle loro intenzioni, molti membri dell’Unione europea, in un momento di franchezza, avrebbero ammesso che l’Ucraina sarebbe stata il peggiore dei candidati possibili. Era governata economicamente da un gruppo di oligarchi simili a quelli della Russia post-sovietica. Era drammaticamente indebitata e aveva una classe dirigente corrotta. Dipendeva quasi interamente dalla Russia per il suo fabbisogno di energia e le industrie delle sue province orientali lavoravano principalmente per il mercato russo. Se fosse entrata nell’Ue avrebbe creato problemi simili a quelli della Grecia. Ma il trattato di associazione faceva parte di un disegno, il Partenariato orientale, che era stato proposto da Polonia e Svezia nel 2008 con implicite intenzioni anti-russe.
Negli anni precedenti, d’altro canto, l’adesione alla Nato e l’ingresso nella Unione erano diventati, per molti paesi ex-comunisti, le tappe complementari di uno stesso percorso. Era davvero impossibile immaginare che la Russia avrebbe cercato di evitarlo? L’Ucraina appartiene alla storia della Russia, è il cuore della sua fede religiosa, è la terra dove Pietro il Grande sconfisse Carlo XII di Svezia, è la patria di Gogol e di innumerevoli intellettuali che si consideravano, tutt’al più, diversamente russi e fieri di appartenere alla grande cultura russa. Putin avrebbe forse accettato l’accordo che i leader dell’opposizione, grazie alla mediazione di tre ministri degli Esteri europei (Francia, Germania e Polonia), avevano concluso con il presidente ucraino Michail Janukovič nella notte fra il 22 e il 23 febbraio: un governo di unità nazionale, una nuova costituzione entro il mese di settembre, minori poteri al presidente, elezioni presidenziali prima della fine dell’anno. Ma l’accordo fu stracciato dal Parlamento di Kiev, Janukovič fuggì e l’Unione europea, anziché dolersi pubblicamente del fatto che gli ucraini non avessero accettato i suoi consigli, si schierò con la ‘nuova Ucraina’ e ne sostenne le ragioni quando la Russia, nei giorni seguenti, mise le mani sulla Crimea. Dimenticò che il fronte dei ribelli era inquinato dal più bieco nazionalismo ucraino, erede di quella parte del Paese che aveva collaborato con la Germania durante la Seconda guerra mondiale.
L’Ue dimenticò soprattutto che il paese di cui era diventata tutore e avvocato era una creazione dell’Urss, ingrandita da Lenin, Stalin e Chruščëv in un contesto strettamente sovietico. Novorossia, la regione conquistata dalla Grande Caterina, che comprende ora la città di Donetsk, fu assegnata all’Ucraina durante le complicate trattative fra le repubbliche che precedettero l’approvazione della costituzione sovietica del luglio 1923. La Galizia era stata austro-ungarica, era diventata polacca nel 1919 e fu assegnata da Stalin all’Ucraina dopo la spartizione della Polonia fra l’Urss e la Germania nel 1939. La Crimea divenne ucraina nel 1954 grazie a un gesto generoso di Chruščëv, dettato dal desiderio di legare maggiormente la repubblica all’Urss dopo la repressione dei gruppi nazionalisti sorti durante l’occupazione tedesca. Ma la donazione fu fatta in una fase in cui il trasferimento di un territorio da una repubblica all’altra non aveva per i suoi abitanti alcuna pratica conseguenza. Questo collage di territori e di etnie avrebbe reso l’Ucraina ingovernabile se la repubblica non avesse fatto parte di uno Stato apparentemente federale in cui il potere era saldamente nelle mani di un partito unico e fortemente centralizzato.
Diverrebbe difficilmente governabile, invece, se i nazionalisti ucraini pretendessero di dirigerlo da Kiev senza tenere conto del desiderio di autonomia delle sue diverse regioni.
Vi sarà una ragionevole soluzione della crisi soltanto se l’Ucraina diverrà federale e neutrale. Una diversa Ucraina, unita all’occidente e membro della Nato, perderebbe inevitabilmente le sue province sud-orientali e diverrebbe un continuo motivo di tensione fra la Russia e le democrazie occidentali.
Anche Mosca, tuttavia, dovrebbe essere preoccupata dalla prospettiva di una Ucraina mutilata. L’annessione della Novorossia piacerebbe ai nazionalisti russi e garantirebbe a Putin, probabilmente, il plauso della maggioranza dei suoi connazionali. Ma priverebbe Mosca di una quinta colonna all’interno dello Stato ucraino e darebbe qualche argomento a coloro che temono la rinascita dell’imperialismo russo. Sarebbe molto più difficile evitare che l’Ucraina divenga membro della Nato e che l’organizzazione venga percepita come il necessario baluardo dell’occidente contro lo Stato russo.