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personaggi 4/2013

Nicolò De CarliNicolò De Carli Giuseppe De CarliGiuseppe De Carli
MOTIVAZIONE
Medaglia Oro Valor Militare
MOTIVAZIONE
Medaglia Oro Valor Militare
Offertosi spontaneamente, insieme col proprio fratello, per farsi trasportare in aeroplano nel diletto suo Friuli invaso, a compiervi la delicatissima missione di informatore, riusciva a compierla felicemente attraverso le più grandi difficoltà e le più terribili insidie, dando prova di sapiente spirito di organizzazione, di sublime abnegazione e di fulgido coraggio, sostenuto dalla fede incrollabile nella santità della nostra causa.


Offertosi spontaneamente, insieme col proprio fratello, per farsi trasportare in aeroplano nel diletto Friuli invaso, a compiervi la delicatissima e pericolosa missione di informatore, con alacre intelligenza e invitto coraggio, affrontando le più drammatiche situazioni, riusciva a vincere ogni difficoltà ed ogni insidia, per raggiungere l’intento. Caduto nelle mani del nemico e sorvegliato da una guardia speciale, riusciva ad evadere, riprendendo con rinnovato fervore la sua missione.
Fronte del Piave – Territorio invaso
29 luglio-2 novembre 1918
Fronte del Piave – Territorio invaso
29 luglio-2 novembre 1918

Azzano Decimo è oggi un fiorente paese, quasi una cittadina, un po’ più a sud di Pordenone, capoluogo della provincia. Agricoltura e allevamento del bestiame ne rappresentano le principali risorse economiche. Non lontano scorre il Livenza. Più di un secolo fa, nella frazione Tiezzo, attraversata dal fiume Fiume (proprio così: genere e specie hanno lo stesso nome), nacquero i fratelli De Carli, prima Nicolò, nel 1894, e poi Giuseppe, nel 1897.
Provenivano da una famiglia della piccola borghesia e, nella vita civile, la loro professione fu quella di assicuratori. Nella vita militare, durante gli anni della Prima guerra mondiale, offrirono la propria opera al Comando Supremo. Messi a disposizione dell’Ufficio Informazioni della 3^ Armata, travestiti da pescatori e trasportati da un idrovolante, si portarono alle spalle delle linee nemiche, nel natio Friuli, dove svolsero attività informativa sulle forze e i movimenti avversari; affidarono i loro messaggi o a piccioni viaggiatori o a bottiglie, mandate a navigare sulla corrente dei fiumi.
Fu una bella prova di coraggio e di tenacia. Giuseppe, catturato dalla gendarmeria austriaca, fu tradotto per il riconoscimento davanti alla madre che, audace compagna di fatiche e di rischi, col cuore stretto dalla più indicibile forza ebbe il coraggio di negare che l’arrestato fosse suo figlio. Riuscito a evadere, continuò la propria missione. A guerra finita, la normalità, la normalità del tempo in cui vissero, li assorbì. Furono decorati entrambi. Non consta sollecitassero riconoscimenti, ricompense, salvo una candida chiosa di Giuseppe che, richiesto di precisare le sue aspirazioni, annotò: «Confidenzialmente, oso chiedere perché tutti i decorati di Medaglia d’Oro ebbero la nomina a Cavaliere e io no». Lo fecero addirittura Commendatore. Morì il 27 novembre 1960, per cause naturali.
Il fratello Nicolò, meno longevo, se n’era già andato a poco più di quarant’anni, il primo dicembre 1937, dopo aver ricoperto importanti incarichi nel campo della Previdenza e del Credito. Non è arbitrario immaginare che, da ragazzi, i due fratelli fossero infiammati dalle vicende che si compivano nella lontana Libia e nel Mediterraneo: dopo aver raccolto un messaggio in bottiglia, affidato alla corrente del Fiume, Nicolò e Giuseppe si interrogarono.

IL MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA di Giampaolo Rugarli
A quel tempo, l’estate del 1912, io e mio fratello Nicolò facevamo lunghi discorsi e lunghe passeggiate. Nicolò era innamorato della professoressa Anna Fischer che insegnava a Pordenone: Anna era bellissima e aveva più di trent’anni, mentre lui aveva appena compiuto i diciotto. Un amore impossibile che non sarebbe mai stato confessato. Un sogno a occhi aperti. Si andava a piedi, naturalmente. Delle automobili non si aveva idea o, meglio, di tanto in tanto capitava di vederne una, ed era come si fosse materializzata una tra le meraviglie dei romanzi di Verne, ma, che una macchina potessero averla tutti o quasi tutti, allora era impensabile, mentre adesso, poco meno di mezzo secolo dopo, una Seicento non si nega a nessuno. Abitavamo a Tiezzo, una frazione di Azzano Decimo, e in un certo senso eravamo assediati dall’acqua: voglio dire che, da quelle parti, i fiumi, grandi e piccoli, si sprecano, e non sempre la parte preminente spetta al greto. Quella mattina di luglio c’incamminammo per un viottolo lungo il Fiume, il corso d’acqua che attraversa Tiezzo e che non è riuscito a darsi un nome o che forse ha assunto su di sé la rappresentanza dell’intero genere fluviale. Il fiume è largo una decina di metri e profondo un paio, ha poco greto e, quand’è la stagione delle piogge, procede tumultuoso, capace persino di vortici e di spume. D’estate è in secca, e scivola via brontolando. Uno scenario più bucolico che eroico, e tuttavia il rivo che fluiva accanto a noi ci aiutava a evocare niente meno che lo stretto dei Dardanelli. Già. Era appena giunta la notizia della grande impresa del comandante Enrico Millo, e avevamo la testa e il cuore in fiamme. I fatti sono abbastanza noti. Già dall’anno prima eravamo in guerra contro la Turchia, e avevamo occupato la Tripolitania e la Cirenaica: finalmente la nostra povera Italia di Custoza, di Lissa e di Adua stava trovando il suo riscatto. Le vicende militari si intrecciavano strettamente a quelle politiche e diplomatiche, così l’esito della contesa appariva lontano, difficile. Ed ecco che il capitano di vascello Enrico Millo, alla testa di una squadra di siluranti, passava avanti e indietro per lo stretto dei Dardanelli, senza essere neppur scalfito dalle difese costiere dei turchi. Difese da operetta, avevano osservato i soliti disfattisti, e probabilmente era così, però restava il fatto che la bandiera italiana era giunta sino al Mar di Marmara. Nicolò si bloccò accanto a una piccola lanca e, muovendo uno stecco, disegnò sulla mota e tra le pietre lo stretto dei Dardanelli. «Non so quanto sia ampio il passaggio» commentò, «credo che il vecchio Ellesponto in qualche punto sia largo poco più di un chilometro. Per i moderni cannoni dev’essere un gioco centrare il bersaglio, e quindi il comandante Millo ha giocato d’azzardo… suppongo». «Nella vita si finisce sempre per giocare d’azzardo» sentenziai, con tutta la saggezza dei miei sedici anni. «C’è un’altra eventualità» borbottò Nicolò, pensieroso, quasi stesse parlando a se stesso. «Probabilmente Millo conosceva l’inefficienza delle difese costiere… qualcuno lo aveva informato che, ai lati dello stretto, vi erano cannoni che sparavano senza fare danno». «Intendi lo spionaggio?» domandai con intensità. «Vuoi dire che vi erano… che vi sono turchi disposti a tradire?». «Non necessariamente» sorrise mio fratello. «Vi sono anche gli infiltrati: combattenti italiani che riescono a insinuarsi e a nascondersi tra i nemici. È il modo più difficile e pericoloso di fare la guerra …».
A un tratto tacque, e la sua attenzione si fermò su un oggetto che i movimenti dello stecco avevano lasciato emergere dal fango. L’oggetto aveva una sagoma familiare: era una bottiglia. Nicolò la raccolse e, avvicinandosi alla corrente, la ripulì tuffandola nell’acqua. Era proprio una bottiglia, una comunissima bottiglia di vetro verde, miracolosamente intatta. Sembrava vuota… anzi, no. Conteneva un pezzo di carta ripiegato più volte, uscito indenne dal bagno protratto, perché un fitto strato di ceralacca suggellava il tappo, formando una sorta di chiusura ermetica.
«Un messaggio nella bottiglia!» esclamai scherzosamente. «Chi sa chi scrive… E chi sa a chi e perché scrive. È una burla, un gioco… non credi?». «Non lo so» rispose cautamente Nicolò, «prima di giudicare bisognerebbe leggere».
«Vorresti rompere la bottiglia?» domandai un po’ stupito. «Forse è meglio lasciarla navigare ancora a fior d’acqua… Non siamo noi due i destinatari del messaggio». «E tu che ne sai?» mi rimbeccò mio fratello. «Chi affida la propria posta all’acqua, del mare o dei fiumi, quasi sempre è disperato, non sa o non può comunicare altrimenti, e normalmente comunica per invocare aiuto. Chiunque raccolga una bottiglia che contiene un messaggio, ha il diritto… forse ha il dovere di leggere». Non mi consentì di sollevare altre obiezioni. Spaccò il vetro contro un sasso grande e appuntito e, dai frammenti, con la punta delle dita, usando la delicatezza di un chirurgo, raccolse il foglio ripiegato. Lo spianò con eguale dolcezza, e lesse ma non ad alta voce. Intravidi uno scritto molto breve, non più di due o tre righe, e vidi che la fronte di Nicolò si aggrottava. «Che cosa dice quel foglio?» domandai. «Non lo so» rispose mio fratello, «è un messaggio in cifra». «Una lettera d'amore della professoressa Fischer?» celiai, e subito mi pentii della battuta di spirito: Nicolò era davvero innamorato di Anna, ed era stupida crudeltà schernire il suo sentimento. Gli amori solo immaginati fanno soffrire molto di più di quelli vissuti. «Non è una lettera d’amore» tagliò corto Nicolò, «ma Anna Fischer potrebbe entrarci in qualche modo… Leggi tu stesso». E mi porse il foglio, un comunissimo foglio strappato da un quaderno a quadretti. Era scritto con grafia elegante, ordinata, forse da una donna, a giudicare da alcuni svolazzi. Il testo del messaggio era questo: DA AFISCH A COVON FUCHS 77 ACHTUNG EXPL ENON EDRO PIDO NAIS AP92 9343 18CO FNAI GARN EOVA LERT ASCE REFO IX08. «Mi sembrano tante sciocchezze» osservai perplesso. «Non lo so» disse mio fratello, «vi sono alcuni riferimenti abbastanza precisi. Mittente parrebbe essere Anna Fischer, un’eventualità incredibile: qualcuno abusa del suo nome e si nasconde dietro di lei». «Tu pensi alla professoressa con i sentimenti di un innamorato» lo rimproverai. «No, non è così» replicò, «nessuna spia è così sciocca da firmarsi con nome e cognome. O quasi. E poi COVON FUCHS 77 potrebbe essere Conrad von Hotzendorf, il Capo di Stato Maggiore Austriaco… ». «Non siamo in guerra contro l’Austria ma contro la Turchia» protestai. «Se tu leggessi il giornale» rispose mio fratello con una vaga aria di superiorità, «sapresti che Conrad von Hotzendorf in più occasioni ha minacciato di mettersi alla testa di una spedizione punitiva contro l’Italia… Odia l’Italia e gli italiani, una fissazione che temo sia destinata a durare… forse perché, a dispetto di inadeguatezze e di insufficienze, l’unità del nostro Paese è simbolo di fratellanza dei popoli». «Bellissimo discorso» conclusi, «ma il messaggio rimane incomprensibile ». «È in cifra, ti ripeto» si spazientì Nicolò. «Ci vorrebbe un esperto, per comprenderne il significato. Perciò lo porteremo ai carabinieri; loro sanno quello che si deve fare».
Provai ad oppormi: ero persuaso che ci fosse capitato tra le mani un volgare falso, una patacca (a dirla volgarmente), messa o mandata lì magari solo per il gusto perfido di inguaiare qualcuno. Anna Fischer faceva strage di cuori, si sapeva, e, nella schiera degli innamorati illusi o delusi, era possibile che un cialtrone avesse cercato di comprometterla, creando a suo danno la prova di un delitto infamante. E poi… l’Italia non era in guerra contro l’Austria: la tecnica offriva mille strumenti per comunicare, la posta, il telefono, il telegrafo, o, se la materia esigeva un’assoluta discrezione, l’opera di un emissario di fiducia… buon Dio, perché affidare una missiva segreta a una bottiglia buttata a navigare nella corrente di un fiume? Nicolò non volle ascoltare le mie ragioni. «Se non vieni con me, vado da solo» mi annunciò, e si diresse verso la stazione dei Carabinieri di Azzano. Naturalmente lo seguii.
Era una discreta scarpinata, e il sole, oramai alto, picchiava sulle nostre teste. La strada abbandonò quasi subito il Fiume, così perdemmo anche l’illusoria freschezza che suggeriva il gorgogliare della corrente. La vegetazione ingialliva, e mi domandai che cosa pascolasse una solitaria mucca smarrita tra i magredi. Solo le viti mostravano di non soffrire il caldo e, con i grappoli già turgidi, promettevano una ricca vendemmia. Non so perché, ma lo spettacolo mi rincuorò: mi ricordai di avere letto, non so più dove, che l’avventura umana sarebbe finita quando fossero finiti il pane e il vino. C’era ancora speranza.
Il maresciallo dei carabinieri Simeone ci accolse con burbera gentilezza, ci fece persino sedere di fronte alla sua scrivania e al ritratto di Vittorio Emanuele III che, un po’ più in alto, appeso al muro, ci contemplava con regale diffidenza. Il maresciallo lesse e rilesse il messaggio, permise a mio fratello di esprimere i suoi timori. Esclamò: «C’è qualche cosa di strano, lo giuro sulla memoria dei caduti di Adua». Imparammo che, quando Simeone si appellava alla memoria dei caduti di Adua, il discorso diventava serio, maledettamente serio. Soggiunse: «La professoressa Fischer la conosco di persona… donna affascinante. Mi ricorda Gea della Garisenda, la cantante… sapete… quella di ‘Tripoli bel suol d’amore’. Anna Fischer è anche più bella di Gea, e non riesco a immaginarla nel ruolo della spia». Si spaventò della parola ‘spia’, volle attenuare, si corresse: «Della informatrice, voglio dire». «Sono d’accordo» approvò mio fratello, «anche a me ripugna pensare che la Fischer… Insomma… lei mi capisce, maresciallo».
Cadde un silenzio colmo di sbigottimento, ed ebbi tutto il tempo di fissare nella mia memoria ogni particolare dell’ufficio di Simeone: era un ufficio modesto, l’arredamento ridotto al minimo e persino un vasetto di vetro in cui intristiva una manciata di garofani bianchi. Mi parve che Sua Maestà il Re, di tanto in tanto, strizzasse un occhio dall’alto del suo ritratto, ma era una idea nevrotica, propiziata dalla singolarità della situazione. Mi sentivo molto a disagio. Mio fratello, nella sua ansia di comportarsi da bravo cittadino, forse aveva esagerato: un sospetto odioso si stava addensando sul capo di una donna colpevole soltanto di essere troppo bella.
Il maresciallo Simeone alla fine sbottò: «Giuro sulla memoria dei caduti di Adua, questa responsabilità non me la voglio prendere. E poi non tocca a me. Girerò il problema al Servizio Informazioni dell’esercito. Il Servizio sa o almeno è in grado di sapere. Dispone di notizie che io non ho, e può svelare i misteri di qualsiasi cifrario. Lasciate fare a me, ragazzi. Non datevi più pensiero». «Mi sembra giusto» acconsentì Nicolò, «tuttavia sarei curioso di conoscere la conclusione… Non per altro, ma vorrei sapere come dovrò guardare la professoressa Fischer». «Piace anche a te» sorrise Simeone. «Ne sei un pochino invaghito anche tu?» Mio fratello arrossì: «Non sono invaghito di nessuna. È solo una questione di rapporti umani: potrebbe essere necessario stabilire una certa distanza con la Fischer… Mi capisce, maresciallo?» «Sì, ti capisco» disse Simeone. «Rivediamoci tra qualche giorno, e, se possibile, ti metterò a parte di quanto il Servizio Informazioni avrà o non avrà scoperto… Ma ti avverto da adesso: in base alla mia esperienza, la verità è quasi sempre imprendibile. C’è inganno tanto nella luce del giorno quanto nel buio della notte». Si accarezzò i baffi, ed esitò prima di confidare il suo verbo, la sua filosofia di vita. Si decise e sparò: «Poveri uomini… In realtà tutti noi siamo condannati all’ombra».
Sarò sincero: passarono alcuni giorni, anzi alcune settimane e io mi dimenticai del messaggio nella bottiglia.
A ottobre la guerra contro la Turchia finì: qualcuno parlò di una grande vittoria, altri di una vittoria striminzita, Gea della Garisenda poteva dichiararsi placata, finalmente eravamo giunti «dove s’annida più florido il suol / … dove sorride più magico il sol». A Tiezzo il sole smise di sorridere, e venne la stagione delle piogge: dalle nostre parti, se piove, piove bene, e ti scende in cuore non so che malinconia, non so che ansia di capire tutto ciò che è impossibile capire. Studiavo, leggevo.
Mi incuriosiva il contratto di assicurazione che è poi una scommessa: si verificherà sì o no un certo avvenimento? Chi perde la scommessa paga. Ci sarà o non ci sarà un’altra guerra, magari contro l’Austria? Mio fratello sperava ardentemente di sì, a suo dire l’unità nazionale non era ancora compiuta; io ero più dubbioso, non per scarsità di amor patrio, ma per ripugnanza agli orrori che accompagnano gli eventi bellici. Troppo difficile predire i grandi sommovimenti internazionali, molto meglio scommettere sul piccolo. Pioverà o non pioverà domani, mi chiedevo. Intanto pioveva, pioveva.
La convocazione del maresciallo arrivò quando anche Nicolò aveva smesso di aspettare. Mi parve che tra i baffi di Simeone fosse apparso qualche pelo bianco, e che Vittorio Emanuele III, nel ritratto, fosse un po’ più corrucciato: ma erano idee. Il rappresentante della legge la prese alla larga: accennò alla inclemenza del tempo, al danno subito dalla vendemmia e alla felicità di sapere che la bandiera italiana sventolava sulla sponda opposta del Mediterraneo. S’informò di noi, dei nostri studi, delle nostre occupazioni. Alla fine entrò nel merito.
«Naturalmente voi ricordate il messaggio che mi avete consegnato la scorsa estate… il messaggio nella bottiglia… Ebbene, è giunto il responso dell’esercito. La questione è stata trattata dal maggiore Sanrocco… un ufficiale specchiatissimo che ho avuto occasione di conoscere. Il maggiore è noto per i suoi grandi occhi azzurri e per il suo zelo regolamentare: il messaggio è stato esaminato al microscopio». Che cosa avesse rivelato il microscopio, diventò una questione di secondaria importanza. Simeone rammentò che mio fratello era infatuato della Fischer, e (suppongo) si domandò se lenire la ferita o se affondare il coltello sino in fondo. Decise che, a un ragazzo di diciotto anni, a un uomo oramai, non era il caso di indorare la pillola: meglio di tutto fargli intendere, senza tante storie, asperità e tristezze della vita. «Anna Fischer è molto bella» spiegò, «ma è una donna… come dire? Una donna molto libera. Su di lei girano tanti pettegolezzi, è inevitabile; ed è altrettanto inevitabile che le sue colpe, ammesso che siano colpe, vengano esagerate». «D’accordo» interloquì mio fratrello, «ma vorrei sapere del messaggio. Che cosa è, che cosa significa». Il sottufficiale crollò lentamente il capo e: «Uno scherzo» sospirò. Ci guardò negli occhi per meglio valutare l’effetto della sentenza. Soggiunse: «Un banalissimo, volgarissimo scherzo. Il maggiore Sanrocco, per scrupolo, ha disposto ogni necessaria indagine… Sulla carta, sull’inchiostro, sulla grafia, sul presunto cifrario: tutto induce a ritenere che si tratti di una grossolana mistificazione. Il maggiore Sanrocco non me ne ha parlato, però ho capito che lo pensava: è evidente che qualcuno ha cercato di mettere nei guai la professoressa Fischer. Mi sto chiedendo, come stazione dei Reali Carabinieri, se devo avviare ricerche per individuare il calunniatore… Preferisco aspettare. Sono sicuro che, prima o poi, il responsabile uscirà dall’ombra e si stringerà il cappio al collo, da solo… Sanrocco non ha mai creduto che il vostro foglio di quaderno fosse il comunicato di una spia: e quand’anche il comunicato fosse stato mendace, le spie mentono sempre, e a loro non si deve mai prestare fede. Si perdono così le grandi battaglie… pardon, volevo dire ‘si vincono’. Sanrocco mi ha anche deriso… l’idea di spedire messaggi in bottiglia gli è sembrata esilarante. Sì, ha usato proprio questa parola: esilarante. E mi ha ricordato che oggidì vi sono le poste, il telegrafo, il telefono. Se poi vi è uno scrupolo di riservatezza assoluta, si affida la missiva a mani sicure, fidate. Il maggiore Sanrocco si è fatto beffe di me, anche se, per non mortificarmi troppo, ha elogiato il mio zelo… Non c’è altro, ragazzi. Mettetevi il cuore in pace e dimenticate l’incidente del messaggio in bottiglia. Se posso darvi un consiglio: non parlatene ad alcuno». «Perché?» non potei fare a meno di domandare. «Perché dovremmo tacere? Uno scherzo non è un segreto».«Questo è vero» consentì il Simeone, «tuttavia c’è di mezzo la professoressa Fischer, e forse non è il caso di aggiungere altre chiacchiere a quelle che girano». «È molto giusto» approvò mio fratello e soggiunse: «Può star tranquillo, maresciallo. Per quanto ci riguarda, da me e da Giuseppe non uscirà una parola». «Informerò il maggiore Sanrocco» concluse il maresciallo, «sono sicuro che apprezzerà il vostro proposito di essere discreti».
E fummo discreti, anche perché c’era ben poco di cui parlare: più passava il tempo, e più l’episodio del messaggio nella bottiglia ci appariva una sciocchezza. Dimenticammo o, almeno, io dimenticai. E mai più me ne sarei occupato, se non avessi osservato uno strano andirivieni di mio fratello Nicolò, che, contrariamente alle nostre precedenti abitudini, non voleva che io gli fossi compagno. Era un comportamento inesplicabile, così, per capire quello che stava succedendo, una volta gli andai dietro, senza che lui se ne accorgesse. Feci una scoperta che mi colmò di tristezza. Stazionava – ore e ore – sotto la casa della professoressa Fischer, non so se per seguirne i movimenti o se per starle vicino quanto possibile. Era una follia, era troppo anche per un innamorato. Fui maldestro. Nicolò si accorse che lo stavo spiando. Mi chiamò. Mi intimò di uscire dall’andito nel quale mi ero nascosto. Mi raggiunse. Il suo volto prometteva tempesta, ma ero ben deciso a richiamarlo alla ragione. Mi dispiaceva che mio fratello consumasse il suo tempo nell’ombra di una che non gli badava. Sembrò leggermi nel pensiero. «Non è come tu credi» spiegò, «ad Anna Fischer non penso in un certo modo... non più. Sai… avevo immaginato tante cose… bellissimi sogni a occhi aperti… Poi arrivano le chiacchiere, i pettegolezzi, le malignità: impossibile far finta di niente, soprattutto quando, senza volerlo, ti succeda di essere spettatore, testimone. L’ho veduta in riva al fiume, mi capisci? Non sono più innamorato di Anna Fischer. È acqua passata». «Allora perché stai in agguato sotto casa sua?» chiesi con incredulità. «Perché… perché…» mio fratello balbettò con palese imbarazzo, «perché continuo a pensare al messaggio nella bottiglia, e non credo che fosse uno scherzo. Non l’ho mai creduto». «La sai più lunga del Servizio Informazioni?» ironizzai. «No, non è così»rispose, «ma c'è un sesto senso che mi suggerisce di diffidare. Può darsi che riesca a scoprire qualche cosa».
Non trovò nulla. All’incirca tre anni dopo scoppiò la guerra contro l’Austria: io e mio fratello vestimmo la divisa.
La guerra finì nell’autunno del 1918, poco più di quarant’anni fa. Mio fratello e io tornammo a casa, sani e salvi. Io sono ancora qui, a raccontarla; mio fratello purtroppo ebbe vita più breve, se ne andò nel 1937, nel fiore della sua maturità. Morì a Torino, lasciò la moglie e cinque figli. Del maggiore Sanrocco, del maresciallo Simeone e di Anna Fischer ho poche notizie: sono fantasmi del passato, ormai. Sanrocco morì due mesi dopo lo scoppio della guerra; gli partì un proiettile mentre puliva la rivoltella, ma qualcuno insinuò che si fosse suicidato. Suicidarsi perché? Un problema sentimentale, un terribile problema sentimentale, si sussurrò, e si fece il nome di Anna Fischer. Erano voli di fantasia, probabilmente. Era finito il tempo in cui si rinunciava alla vita per amore: adesso un suicidio era un lusso inutile, ci pensava la guerra ad assottigliare i ranghi. Il maresciallo Simeone ci rimise una gamba, a Caporetto. Imparò a sue spese che, qualche volta, le spie non mentono e che è meglio valutare attentamente quello che dicono. In verità questa fu una colpa degli Alti Comandi, e non del povero maresciallo che si comportò da coraggioso, fece il poco che era in suo potere e, benché mutilato dallo scoppio di una granata, non smise di resistere con i suoi uomini al nemico soverchiante. Finché giunsero i soccorsi, che lo portarono in salvo e gli risparmiarono l’onta della prigionia. A guerra finita, Simeone lasciò l’Arma: si trasferì a Padova, dove aprì un’agenzia investigativa. Mariti e fidanzati sospettosi gli garantirono una dignitosa sopravvivenza.
Di Anna Fischer non so dire nulla. Sparì. Alla vigilia della guerra se ne andò in Austria (questo è sicuro), e di lei restò non più che il ricordo. Il solito ben informato volle collegare il presunto suicidio del maggiore Sanrocco con la scomparsa della professoressa Fischer, precisando che, comunque, l’amore era del tutto fuori questione… Non so e non voglio indagare. Comincio a invecchiare, e sono persuaso anch’io che su un punto il maresciallo Simeone non si ingannava: tutti noi uomini siamo condannati all’ombra.
Quanto a me e a mio fratello, il tempo di guerra fu molto duro. Tante cose, che avevamo immaginato appartenessero soltanto ai romanzi, diventarono nostro pane quotidiano: fu così che imparammo a mandare messaggi in bottiglia.

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