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GNOSIS 2/2005
Dimenticare i Balcani
un rischio per l'Europa


Emmanuela C. DEL RE

Parlare di Balcani in tempo di pace, al di fuori delle emergenze e dei conflitti: questo è l’obiettivo indicato da Emmanuela Del Re, che illustra in questo articolo cosa è cambiato, cosa sta cambiando e cosa deve ancora cambiare nella penisola balcanica. Tutto ciò senza dimenticare che il nostro contributo – da italiani e da europei – è uno degli ingredienti fondamentali della ‘ricetta’ per la stabilità e l’equilibrio della regione.



Le cose cambiano

Radovan Karadzic, il criminale di guerra più ricercato nei Balcani, ha scritto un romanzo d’amore intitolato: Miracolose cronache della notte.
Serbo di Bosnia, è accusato di aver promosso e organizzato il massacro di migliaia di musulmani e croati nell’ex-repubblica jugoslava. La strage di Sebrenica, attribuita alle squadre della morte di Karadzic, nel luglio 1995, ha lasciato una macchia di sangue indelebile: seimila vittime tra i musulmani. Una strage perpetrata allo scopo, come recita l’accusa delle Nazioni Unite, di ‘uccidere, terrorizzare e demoralizzare la popolazione musulmana e croata della Bosnia’. Incriminato dall’ICTY (International Criminal Tribunal for Former Yugoslavia) - il tribunale dell’Aja per i crimini di guerra dell’ONU - rifiuta di riconoscerne la legittimità, considerandolo un istituto politico e non giuridico.
Ma Karadzic ora è uno scrittore, e dal suo nascondiglio è riuscito a far giungere clandestinamente all’editore il suo romanzo, promosso da Miroslav Toholj, serbo di Bosnia, ai tempi della guerra Ministro dell’Informazione.
La vena artistica non si esaurisce con Karadzic. Anche Mirjana Markovic, moglie di Slobodan MilosŠevic´, nascosta in Russia, pare, dal 2000, pubblica libri. Conserva questo libro, il titolo; interviste rilasciate dalla Markovic tra il 1999 e il 2003, il contenuto. Abuso di potere, il motivo per cui le autorità serbe la ricercano.
Anche Biljana Plavsic, nella sua prigione in Svezia, dove sconta una sentenza per crimini di guerra, scrive, e così Milorad Ulemek, il ben noto ‘Legija’, il paramilitare serbo riconosciuto come il più feroce.
Il problema non sta nel fatto che criminali di guerra scrivano libri, ma che i libri siano un successo, come è accaduto per quelli di cui si è parlato. Intellettuali serbi rispondono con imbarazzo alla domanda sul perché di una simile accoglienza da parte della popolazione e affermano che la Serbia è isolata, che molta gente fuori dai centri urbani non è al passo con la transizione dall’era MilosŠevic´, e che qualcuno, schiacciato dalla disoccupazione, dalle condizioni di vita difficoltose, continua a vedere in Karadzic l’eroe, il mito, il difensore della nazione serba. Il resto del mondo, però, pronuncia il nome dello ‘scrittore’ con sdegno.
E’ questo il grande paradosso dei Balcani: fanno passi avanti da giganti ma sembrano restare impigliati nella rete di un passato che ne limita i movimenti e l’iniziativa.


da www.aclu.org


Le cose non cambiano

Le cose sono cambiate ovunque nei Balcani, stando ai dati economici, alle riforme legislative, alla società civile che cresce, alla stabilità politica raggiunta o quasi. Tutto però dipende da come i dati si interpretano.
L’Albania, a quattordici anni dalla sua apertura al mondo è stata celebrata per lungo tempo come la migliore allieva delle politiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Passati la crisi del 1997 e lo pseudo-golpe del 1998, superata l’inondazione di profughi dal Kossovo nel 1999, ha ora altri problemi. Dimenticata, o quasi, vive in perenne crisi energetica, con risvolti rovinosi per la popolazione e per l’economia. Gli investimenti stranieri diretti non sono tali da risollevare il paese, in cui il fattore rischio – criminalità, percezione di inaffidabilità, lungaggini burocratiche, corruzione - agisce da fortissimo deterrente per i businessmen stranieri. La sicurezza è il problema fondamentale nelle zone urbane come in quelle rurali. La democrazia è in fase di consolidamento da troppo tempo ormai. La popolazione continua a vedere come unica soluzione l’emigrazione. Le condizioni di vita sono enormemente migliorate dai primi anni ’90, è vero, ma il fermento che si viveva in quegli anni, con migliaia di imprese e ONG straniere, organizzazioni internazionali, studiosi di tutto il mondo, non si avverte più. La presenza straniera era per la popolazione – dagli autisti, ai professionisti, ai politici, ai giovani - fonte importante di guadagno ma anche di opportunità, di esperienza. Oggi Tirana vede molte costruzioni moderne, tra cui un grattacielo con ristorante rotante sulla sommità, il centro città rimesso a nuovo da un sindaco-artista, Edi Rama, che ha fatto ridipingere le facciate tristi e cadenti dei palazzi con colori sgargianti. Le strutture portanti di quei palazzi, però, restano le stesse di prima, i problemi sono ancora molti e le speranze sono diminuite.
La Bosnia, è un caso eclatante. Ogni tanto i giornali europei parlano di Bosnia Erzegovina quando qualche think tank influente mette sull’avviso l’Unione dei pericoli latenti nella regione, come nel 2003, quando la European Stability Initiative, che di Bosnia si occupa da anni, pubblicava un rapporto sul fallimento dell’intervento internazionale nel paese e su come risollevare la questione. Un rapporto che ha avuto eco in tutta Europa –ad eccezione dell’Italia, in cui la stampa, ahimè, non s’è accorta di nulla. La Bosnia resta un progetto mai realizzato e, per dirla con Joseph, gli accordi di Dayton sono divenuti ormai ‘disfunzionali’ (E. P. Joseph, ‘Back to the Balkans’, Foreign Affairs, vol. 84, n. 1, 2005, pp. 111-122).
In Bosnia Erzegovina l’opinione che le varie etnie presenti sul territorio continuano ad avere le une delle altre non è mutata. Se aumenta il potere dei musulmani, sostengono i serbi, la Republika Srpska si indebolisce. Sarajevo viene vista come una roccaforte musulmana, e le minoranze serba e croata vi vivono a fatica, effettivamente poste ai margini. La guerra non è un ricordo, perché il ritorno degli sfollati alle proprie case è un processo ancora lento. L’insicurezza fa da sfondo alla vita quotidiana e la popolazione pensa che i politici di ogni etnia abbiano un ‘programma alternativo’, che metterebbero in atto il giorno stesso in cui se ne andasse la forza militare multinazionale. Il ‘programma’ è lo stesso, da lì vendetta e pulizia etnica per la riconquista del territorio.
Resta il problema dei poteri straordinari conferiti all’Office of High Representative- l’autorità internazionale con mandato sulla Bosnia - che, se venissero revocati, farebbero acquisire al paese quella sovranità cui tanto aspira e che le permetterebbe di candidarsi all’Unione Europea. Per alcuni, però, l’esito di una simile decisione è imponderabile.
Le ultime elezioni, tenutesi nell’ottobre 2004, hanno visto una vittoria schiacciante dei nazionalisti, e questo ce lo aspettavamo.
La Macedonia - nome ora ufficialmente accettato dagli USA, mentre l’Unione ancora usa prudentemente la formula F.Y.R.O.M. (Former Yugoslav Republic of Macedonia) visto che la Grecia continua ad opporsi fortemente all’uso del nome, che appartiene alla regione greca - sembrava poter diventare un’isola felice. Nel suo governo, infatti, politici macedoni e albanesi sembravano collaborare proficuamente. Il rischio invece c’è, e starebbe nei problemi irrisolti tra albanesi e macedoni. Nell’accordo firmato a Ohrid nel 2001, a seguito del conflitto scoppiato nel paese tra le due etnie, era stata sottolineata la fondamentale necessità che le parti dimostrassero la volontà di mantenere l’unità del paese. Nel novembre 2004, però, i macedoni hanno voluto un referendum sulla legge passata nell’agosto 2004, che di fatto aumenta il potere locale degli albanesi in alcune città. Per fortuna il referendum è fallito e la legge è restata in vigore, ma questo ha riportato l’attenzione sul fatto che la convivenza tra albanesi e macedoni nel paese è difficile, popolazioni entrambe stressate da una tensione sempre latente, esasperate dalla di-soccupazione, dalla criminalità dilagante, dalla corruzione.
Il Kossovo resta non solo il cuore della regione ma anche il cuore della questione. Il suo status è l’elemento che determinerà gli equilibri dell’area in futuro. Se si arrivasse all’indipendenza, gli albanesi di Macedonia potrebbero invocare la secessione.
I montenegrini si sentono forti abbastanza per separarsi dalla Serbia, avendo peraltro già ottenuto che il paese non si chiamasse più Jugoslavia ma Serbia-Montenegro. L’annessione della Republika Srpska al proprio territorio potrebbe venire richiesta dalla Serbia come possibile compensazione per la perdita della sua provincia. Un temibile effetto domino, che però non può inficiare il processo decisionale sullo status del Kossovo.


foto ansa

E’ dunque tutta una questione di minoranze. Che fine farebbero i serbi che ora si trovano in Kossovo? Dovremmo immaginarci una re-distribuzione di persone e cose in tutta la regione?
Di pacifica convivenza non si parla se non pro forma. Missioni internazionali costosissime e ormai decennali hanno sortito effetti positivi, ma forse solo esteriormente.
L’economia, quella ‘internazionale’, ne ha tratto però gran beneficio, con gli stipendi da favola di chi lavora nelle organizzazioni internazionali in zone a rischio, con i finanziamenti esagerati per iniziative di ONG internazionali che poi latitano, con tutti gli optional che spuntano in queste situazioni, destinati ai cosiddetti ‘internazionali’: ristoranti con mozzarella fresca ogni giorno, portata in aereo direttamente dall’Italia, pub irlandesi che più irlandesi non si può, discoteche e quant’altro, tutto ovviamente a prezzi inarrivabili per i ‘locali’. Per non parlare delle più di ottanta ‘case chiuse’ ad uso degli stranieri inaugurate in Kossovo negli ultimi anni.

Se le cose cambiassero

Nella giungla di simboli balcanici ci si districa difficilmente, anche se i simboli sono quelli che normalmente noi leghiamo al concetto di identità come territorio, lingua, religione. In questa regione il problema sta nel fatto che è molto difficile stabilire territorio, lingua, religione, tratti culturali salienti di ciascun popolo, e il ricorso alla storia non basta.
Nella Jugoslavia di Tito, le differenze regionali si stemperavano nella sovrastante struttura imposta dalla dittatura, pur restando punto di forza della politica titina il cercare comunque di blandire l’orgoglio locale delle singole culture con l’esaltazione di prodotti e aspetti peculiari della tradizione locale. La sovrastruttura sovietica poi sfumava ancora di più le differenze creando una cultura che si rivelava comune a serbi come a bulgari, a polacchi, a croati. Nei Balcani, poi, permangono persino elementi dell’Impero Ottomano, seppur modificati localmente.
Piatti tradizionali, canzoni, storie, si ripetono con lievissime modifiche in tutta la regione, eppure vengono presi a simbolo da tutti della propria assoluta unicità culturale.
Superare questa barriera corallina dei simboli, è il problema che tutte le politiche occidentali hanno dovuto affrontare nella regione, e con scarso successo, spesso sottovalutandone l’importanza.
Il fatto è che mentre si è giustamente tentato di risolvere il problema contingente, come la ricostruzione, ad esempio, la parallela opera di ‘riconciliazione’ come da molti è chiamata, non è stata sufficientemente considerata. E’ evidente che l’intervento ‘occidentale’ viene visto come un’imposizione, una posizione esacerbata dall’atteggiamento in genere paternalistico degli addetti ai lavori occidentali. Alle riforme si è arrivati insieme, certo, ma i tempi balcanici sono diversi, le cose vengono metabolizzate con ritmi peculiari.
In questo momento la speranza è ancora una volta fortemente simbolica: l’adesione all’Unione Europea, per i paesi della regione, e per qualcuno anche alla NATO.
Albania, Croazia e Macedonia sono state relegate dalla NATO in quella sala d’attesa chiamata Adriatic Charter che non fa che ingenerare pessimismo e dare spunto a nuove battute locali sarcastiche e auto-lesioniste tipiche della regione.
Le Nazioni Unite dichiarano di voler affrontare il problema dello status del Kossovo a metà del 2005, ma i timori ingenerati in molti decisori dal referendum preteso dai macedoni nel novembre scorso rendono la cosa più complessa.
L’Unione sembra avere altro cui pensare, per il momento - la questione Turchia, la costituzione, l’integrazione dei nuovi membri - ma deve comunque far uscire la regione dalla sensazione di abbandono che la attanaglia.
La carta geografica dell’Europa sarà tuttavia molto diversa tra dieci anni. Oltre alla recente entrata della Slovenia, il Consiglio d’Europa ha deciso che la Croazia cominci a negoziare nel 2005 la sua candidatura insieme alla Turchia, mentre si comincerà il processo di accettazione come membri a pieno titolo di Bulgaria e Romania nel 2007. Per gli altri, però, se ne riparla solo tra anni. La Macedonia ha firmato l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione che prepara i paesi all’integrazione. L’Albania deve aspettare i risultati delle elezioni di quest’anno per essere ammessa a firmare quello stesso accordo. Il Montenegro si prepara al referendum del 2006 sull’indipendenza dalla federazione Serbia-Montenegro, e dopo i risultati si vedrà.
Quello che va sottolineato è che la direzione presa dall’UE nel summit di Helsinki del 1999 ha dato i suoi frutti, dimostrando che, se viene individuato uno scopo politico comune, questo indebolisce le opposizioni anti-democratiche ed anti-europeiste, e conferisce ai paesi, come candidati, quella dignità che comporta ottimismo (ESI, Member State building and the Helsinki Momentum, esiweb.org). Restano però differenze sostanziali nel trattamento di candidati e potenziali candidati, soprattutto dal punto di vista economico. Il fiume di soldi e iniziative legati a operazioni come il Patto di Stabilità per l’Europa Sudorientale hanno smosso le sabbie mobili in cui affondava lentamente la regione. Tuttavia, il tanto agitarsi non ha bonificato il terreno, bensì, in alcuni casi ha trascinato le cose ancora più a fondo, con progetti cosiddetti ‘a rapida attuazione’ (Quick Start) ancora da iniziare – dal 1999 – tasche di alcuni sempre più piene, tasche della maggior parte della popolazione sempre più vuote.
In alcuni casi le riforme hanno avuto risvolti quasi paradossali. La privatizzazione delle industrie in Macedonia, per esempio, ha reso gli operai proprietari della stessa fabbrica in cui lavoravano. Attraverso un sistema di acquisto di azioni agevolato, essi sono diventati ‘capitalisti, ma senza capitale’, come ha affermato argutamente un’operaia di KicŠevo. Senza capitale perché le fabbriche che vendevano i loro prodotti per lo più all’interno della federazione jugoslava ora non sono più competitive, non producono, e così gli operai non percepiscono gli stipendi da mesi, ma sono azionisti maggioritari.
Il budget previsto dall’UE per il periodo 2007-2013, distingue nettamente tra l’assistenza offerta ai candidati Turchia e Croazia e quella offerta agli altri, che non verranno sostenuti nello sviluppo delle zone rurali, nelle politiche di coesione e nello sviluppo delle risorse umane. Se il budget venisse approvato così com’è, le conseguenze negative sarebbero ovvie. L’Unione deve giocare la carta dell’integrazione dei paesi della regione anche per evitare di trasformare la regione in un ghetto economico da cui difficilmente riuscirebbe ad uscire. Un budget così concepito va nella direzione opposta.


Le cose da cambiare

Negli USA si ricomincia a parlare di Balcani dopo anni di silenzio. Si confidava forse in una ‘forza di inerzia’ positiva delle riforme messe in atto, che però nei Balcani non può esistere perché trova troppi impedimenti.
La regione è tuttora affetta - sia al suo interno, sia da parte dell’occidente - da una stereotipizzazione con forti accenti pregiudiziali tale da impedire una lucida visione della realtà, a tutti i livelli sociali, etnici, e in tutte le circostanze. La ragione va cercata nell’impossibilità di sanare ferite come quelle ancora aperte nell’anima delle popolazioni dei Balcani. Ferite che peraltro fanno parte del patrimonio culturale trasmesso da una generazione all’altra, perché viste come questioni mai risolte e mai compensate. Per l’Occidente, si tratta di una sentenza culturale già emessa da tempo, la cui cura consisterebbe solo nell’assimilazione.
Keida Kostreci ha scritto il mese scorso che i Balcani sono ancora una minaccia per la Pace Europea (VOA News.com, Washington, 10 gennaio 2005). La riflessione scaturisce dai disordini della scorsa primavera in Kossovo, quando si sono verificati atti di violenza da parte delle vittime di un tempo, gli albanesi, nei confronti dei serbi che ancora vivono nella regione. Lo stupore di molti ci sembra un po’ tardivo, visto che la situazione era ben nota a molti analisti che la denunciavano da tempo. Ma, si sa, è con i fatti eclatanti che si cattura l’attenzione dei decisori, e così la stampa americana ha cominciato solo ora a interrogarsi su quella regione negletta. Ci si ricorda che lo status del Kossovo non è ancora definito, che la missione delle Nazioni Unite è là da ben sette anni con risultati estremamente controversi, e che la presenza militare da tempo è vista come una presenza scomoda da parte degli albanesi del Kossovo, che vorrebbero maggiore autonomia, anche di movimento sul territorio.
La sicurezza è certo un problema nei Balcani, con reti criminali stanziali che ‘governano’ ampie zone, traffici illeciti che cambiano rotte attraverso tutta la regione a seconda di circostanze politiche e sociali contingenti, un concetto del potere come assoluto per cui l’abuso sul cittadino è diffusissimo, una corruzione dilagante a tutti i livelli e in tutte le proporzioni, e casi di connivenza tra mafia e politica con effetti rovinosi.
Questo provoca generale sfiducia da parte dei cittadini nelle istituzioni, con conseguente effetto depressivo sulla popolazione che si sente incapacitata e demotivata.
Nel suo già citato articolo ad effetto su Foreign Affairs, Edward P. Joseph parla con terminologia tipicamente americana di Balcani dimenticati, not fixed. Suggerisce che la soluzione alla situazione di stallo nella regione starebbe in una forte leader-ship statunitense, nell’ambito di una cooperazione transatlantica, che applichi principi chiari, così che ‘Wa-shington possa passare ad occuparsi di altre irrefutabili preoccupazioni’.
Altre cose si muovono, come l’International Commission on the Balkans, iniziativa di Bosch Stiftung (Germania), King Badouin Foundation (Belgio), German Marshall Fund (US), Charles Stewart Mott Foundation (US) e presieduta dall’italiano Giuliano Amato, attorniato da numerosi decisori europei, statunitensi e balcanici. L’obiettivo della Commissione è quello di sviluppare una visione adeguata dei problemi dell’Europa Sudorientale nella prospettiva dell’integrazione europea, elaborando raccomandazioni per favorire azioni adeguate da parte dei governi locali e da parte della comunità internazionale.
L’Italia intanto, indiscusso gigante economico nei Balcani, sempre tra i primi partner commerciali nei paesi della regione, con molti dei quali condivide anche sponde marittime comuni, terminal di partenza di assi di collegamento strategicamente cruciali, come i Corridoi Paneuropei V e VIII, sembrerebbe - stando alla visita del Ministro degli Esteri nei Balcani alla fine del febbraio 2005 - intenzionata ad assumersi responsabilità adeguate al suo ruolo nella regione. Fini ha risposto a Rugova che la discussione sull’eventuale indipendenza del Kossovo deve necessariamente partire dalla verifica del rispetto degli standard fissati dalla comunità internazionale per il rispetto dei diritti umani; ha messo in guardia il serbo-montenegrino Vuk Draskovic dagli effetti imprevisti di una eventuale dissoluzione della Serbia-Montenegro; ha raccolto il sostegno di Serbia e Montenegro alla ‘ipotesi B’ di riforma delle Nazioni Unite, progetto italiano, che prevede tra l’altro l’aumento dei membri semipermanenti del Consiglio di Sicurezza e il prolungamento del loro mandato, nonché la membership italiana nel biennio 2007-2008.
Al di là delle dichiarazioni del nostro governo, di quelle che farà la Commissione Indipendente sui Balcani, di quelle che fa Joseph su Foreign Affairs, si parla ancora di Balcani, finalmente. E non se ne parla in tempi di conflitto scoppiato, ma in tempi di pace, o quasi, quando il conflitto può essere evitato.
Lo status del Kossovo farà da cartina di tornasole non solo per gli equilibri nella regione ma anche per le effettive capacità politiche di Unione Europea, ONU, Stati Uniti e NATO. Intanto alcuni passi decisivi possono essere fatti, come il passaggio delle responsabilità economiche - per la proprietà pubblica, per le imprese, e per il Kosovo Trust Agency – nelle mani dei locali, come già previsto dal segretario generale di UNMIK Jessen-Petersen.
Ma gli ingredienti della ricetta sono di più, e vanno attentamente soppesati.
Decisori, rappresentanze di governo, articoli sui giornali, certo. Il tutto mescolato con il processo di integrazione nell’Unione, e con la candidatura a membri della NATO.
Il lievito, però, è togliere la regione dall’isolamento, causato dallo scarso interesse, diminuire le distanze della regione dall’Unione, attraverso strumenti economici, politici e anche attraverso lo sviluppo delle infrastrutture, drammaticamente sottovalutate, soprattutto per quanto riguarda i Balcani meridionali. Ancora, puntare sulle risorse umane locali, per prima cosa favorendo il più possibile il loro accesso all’informazione, in una regione dove il telefono per alcuni è ancora un sogno.



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