Il lobbying democratico come fattore di sicurezza |
Giorgio CARRION |
Nell’immaginario collettivo, specie dopo tangentopoli, lobby è sinonimo di gruppo di pressione che opera nell’ombra, in un’area grigia tra il lecito e l’illecito, per favorire ‘oscuri interessi, talvolta ‘ungendo le ruote’, di aziende, gruppi finanziari, banche. foto ansa Una case-story, insomma, che gli appassionati di diritto commerciale internazionale e di ‘public affairs’ potranno studiare a fondo, perché ha visto scendere in campo i vertici dei governi di Italia e Stati Uniti, nonché una moltitudine di ‘influenzatori’ che ai vari livelli di responsabilità, istituzionale e non, hanno contribuito a far prevalere la scelta degli elicotteri italiani sui collaudati Sikorsky americani. Una vittoria altamente simbolica che premia la fedeltà italiana all’alleanza con gli Stati Uniti nella complessa situazione medio orientale, ma anche la perseveranza dei vertici di Agusta-Finmeccanica che hanno saputo giocarsi fino in fondo la gara con la quotata avversaria americana. Questa vicenda, balzata all’onore delle cronache anche per i positivi contenuti d’immagine di cui è portatrice per il nostro Paese, ha riproposto l’attenzione sui meccanismi del lobbying internazionale, allorquando sono in gioco grossi interessi economici, sia di carattere privatistico (in caso di gare, appalti, concorsi di varia natura) sia di genere pubblico, dal momento che a scendere in campo sono direttamente i rappresentanti dei governi nazionali impegnati a tutelare gli interessi dell’industria e del mercato. Il successo di Agusta Westland apre a questo gruppo le porte del ricco mercato aeronautico nord americano, sia civile che militare, a dimostrazione che l’acquisizione di una importante fornitura può avere ricadute economiche e industriali assai rilevanti, non solo in relazione alla specifica commessa, ma per le prospettive che essa genera per la conquista di nuovi mercati. Il lobbying, dunque, nasce e si afferma come attività di sostegno agli interessi di un gruppo industriale, di un cartello di aziende, di un’associazione imprenditoriale o, addirittura, di un intero comparto produttivo. Le lobby, altrimenti definite gruppi d’interesse o di pressione, hanno svolto e continueranno verosimilmente a svolgere, nel futuro, un ruolo fondamentale nelle dinamiche politiche, economiche e sociali di un paese come di una comunità internazionale allargata. Di lobbisti se ne contano oltre 10 mila nella sola Bruxelles, riuniti in non meno di 3 mila società; 500 sono le grandi imprese presenti attraverso proprie rappresentanze, e 130 gli studi legali specializzati in diritto comunitario. Le cifre sono poco note, ma emblematiche: a Washington operano almeno 100 mila lobbisti direttamente o indirettamente legati ad associazioni padronali, uffici legali, agenzie di pubbliche relazioni, società di comunicazione, studi specializzati in ricerche e analisi di mercato, media. Non tutti, evidentemente, sono impegnati nel lavoro di lobbying in senso stretto, ma in migliaia ruotano attorno alle pratiche di pressione, negoziazione, transazione degli interessi organizzati, fornendo supporti in ordine alla produzione di informazioni, interpretazione e definizione di norme, creazione di dossier, raccolta di dati e statistiche, monitoraggio legislativo e attività informative e formative, raccolta di fondi per campagne elettorali, e così via. da www.Willard-inter-continental E’ nella "lobby" (atrio, vestibolo) dell’Hotel Willard di Washington D.C. che questo termine acquista, nella seconda metà dell’Ottocento, il significato di ‘gruppo di influenza’. Il Presidente americano Ulysses S. Grant, frequentatore dell’albergo, coniò infatti il vocabolo ‘lobbyist’ per indicare quegli affaristi che, nell’atrio dell’hotel, lo aspettavano per ottenere ‘sostegno’ e ‘protezione’ alle loro attività. L’attività di lobbying ha una lunga storia ed è strettamente collegata con i valori della democrazia e del libero mercato. Di più, esso influenza e determina la sicurezza delle istituzioni democratiche, perché – in quanto correlata ai rapporti tra Stato, mercato e società civile - laddove essa è regolamentata, e quindi trasparente ed accettata, favorisce il processo di decisione e di mediazione degli interessi contrapposti, garantisce il ruolo e il diritto di un gruppo organizzato a rappresentarsi nei luoghi della decisione: le istituzioni nazionali, regionali o locali. Vale ricordare che il lobbying nasce e si configura negli Stati Uniti come garanzia dell’esercizio dei diritti costituzionali. Storicamente, si usa indicare nel 1896 la nascita del lobbismo americano, allorquando, le componenti politiche rappresentanti delle classi lavoratrici subiscono una grave sconfitta elettorale. Da quel momento, la mediazione politica, intesa in senso democratico ed occidentale come dialettica tra i partiti rappresentati in parlamento, lascia spazio alla creazione di ‘agenzie amministrative’ che agiscono in nome e per conto di gruppi economici e sociali organizzati. Solo nel 1938, però, il nuovo fenomeno viene regolamentato all’interno di una disciplina denominata Foreign agents registration, alla quale fa seguito il Federal regulation of lobbying Act del 1946 e l’Ethics in government Act del 1978. La regolamentazione si rende necessaria per dare risposta al crescente ruolo dei gruppi di pressione che, attraverso forme istituzionalizzate, quali l’audizione al Congresso ed altre pratiche di contatto tra potere pubblico e lobby, sono diventate una componente nevralgica del sistema decisionale pubblico. La legge del 1946, in particolare, punta alla pubblicizzazione dell’attività lobbistica. Il legislatore americano è convinto che il lobbying è parte integrante della comunità politica e di quella economica e finanziaria. In altre parole, è un fenomeno insopprimibile e ‘naturale’, nella misura in cui a ciascun gruppo d’interesse organizzato deve essere data la facoltà di riunirsi in ‘policy communities’, comunità che agiscono in funzione di precisi obiettivi quali l’adozione di misure fiscali favorevoli, finanziamenti a opere o attività industriali e commerciali, istituzione di nuove norme che agevolino la commercializzazione di un prodotto, e così via. Ben presto, però, i lobbisti americani si rendono conto che la loro funzione istituzionale ha rilevanza maggiore del previsto. Il peso crescente dei mezzi di comunicazione di massa, a cominciare dalle televisioni, ha reso enormemente più costose ed impegnative le campagne elettorali; le stesse tecniche di comunicazione e di raccolta del consenso richiedono somme sempre più ingenti. Nascono così i cosiddetti Pacs (Political Action Committees), comitati elettorali destinati a coniugare volontarismo ed organizzazione. Armi formidabili di costruzione del consenso e di drenaggio dei voti, i Pacs, organizzati su scala territoriale e parcellizzata, sono animati da solerti attivisti che si occupano di diffondere il materiale propagandistico, convincere e ‘pilotare’ gli elettori il giorno del voto, raccogliere finanziamenti. Queste strutture, tutt’altro che spontanee, sono spesso emanazione di organizzazioni sindacali, padronali o di categoria professionale. Esercitano perciò un ruolo di mediazione degli interessi andando ad influenzare direttamente la formazione del ceto politico: se un gruppo di pressione riesce a far eleggere il deputato "X", questi dovrà nel corso del suo mandato parlamentare rispondere a chi lo ha eletto, tutelando gli interessi della lobby di riferimento. E in Italia? Va detto subito che il termine lobbying nel lessico politico giornalistico italiano e nell’immaginario collettivo è vissuto come sinonimo di corruzione, di sotto governo, in generale di pratiche inclini allo scambio politico di favori, voti, quando non di denaro. Tangentopoli, e la conseguente inchiesta "Mani Pulite", hanno fatto emergere la diffusione di pratiche illegali – soprattutto riconducibili al rapporto tra politica, partiti ed economia – e alla degenerazione del ‘patto democratico’ secondo il quale è legittimo esercitare un’azione politica e sociale di informazione e formazione dell’opinione politica, a condizione che però questa non sia inficiata dalla corruzione e dal mercimonio. Come osserva, opportunamente, Luigi Graziano, docente di scienze politiche all’Università di Torino e autore di diversi saggi su lobbying e democrazia, “ove la corruzione è prevalente e sistematica, non c’è spazio per il lobbismo. Esso è, nella sua fisiologia, rappresentanza socialmente riconosciuta di interessi palesi che si danno, a tale fine, un’apposita organizzazione politica”, in genere attraverso una figura giuridica legalmente riconosciuta (associazione, ente, società…), una sede nella capitale, un team di esperti. Di contro, in Italia il tema dell’attività lobbistica è sempre stato vissuto con una certa sufficienza e una buona dose di incompetenza. E’ un fatto che nonostante reiterati dibattiti a metà degli anni ‘90, soprattutto seguenti la fase critica di Tangentopoli, il parlamento italiano non legifera alcun ordinamento relativo alla regolamentazione del lobbying in Italia, sebbene tra l’VIII e la X legislatura siano presentate numerose proposte di legge. “Il vero problema – si legge in un allegato ad uno dei disegni di legge presentati - non è lo svolgimento dell’attività d’informazione da parte di singoli soggetti o di gruppi per il perseguimento di interessi specifici, bensì il rispetto della regola del gioco, che è nel caso specifico la chiarezza delle posizioni e degli intenti perseguiti da ciascuno, senza inutili infingimenti o assurde mascherature: la democrazia teme ciò che non si conosce, l’occulto, il clandestino, non quanto avviene pubblicamente, sotto gli occhi di tutti”. Il passo del legislatore penetra puntualmente il problema: lobbying e democrazia, ovvero, lobbying e sicurezza della Stato sono ambiti inscindibili. Un assioma che, però, non basta a convincere i gruppi parlamentari a procedere ad una regolamentazione del settore. Anche perché in Italia il lobbying è assimilato genericamente all’attività di relazioni pubbliche. Tale assimilazione, va detto con chiarezza, è il frutto della mancanza di consapevolezza del ruolo professionale del lobbista: l’assenza di una legge settoriale e di un eventuale albo professionale che riconosca la specificità, l’etica, le prerogative, i diritti e i doveri dell’operatore di lobbying, ha generato grande confusione. Organizzare un party con politici e imprenditori, o veicolare sulla stampa una notizia attraverso un ufficio stampa, non ha nulla a che vedere con l’azione di lobbying. Semmai, tali e altre azioni ne potranno costituire il corollario, un supporto comunicativo utile alla gestione, appunto, delle relazioni tra i diversi soggetti pubblici e privati. L’azione di lobbying, al contrario, nell’esercitare gli interessi di parte, crea un reciproco riconoscimento di ruolo: il politico parlamentare viene informato e formato ad una determinata problematica ed esigenza specifica, assume su di sé la responsabilità istituzionale e politica di esaminare il dossier presentato dal lobbista, pone interrogativi, fornisce risposte. Il lobbista opera con l’istituzione, facendo gli interessi del proprio cliente (azienda, associazione, ente privato…) ma non contro la legge, cercando di aggirarla o peggio adoperando strumenti illegittimi e corruttivi. In questo senso, tutelando gli interessi del proprio cliente salvaguarda anche quelli dell’istituzione, perché apporta contributi di conoscenza e cultura settoriale, suggerisce soluzioni a problemi che – in numerosi casi – afferiscono a gruppi sociali, semmai deboli o poco rappresentati. Un caso tipico può essere quello della registrazione di un farmaco salvavita e della sua rimborsabilità. L’azienda farmaceutica ha tutto l’interesse di vedere registrato il proprio medicamento in una fascia di totale rimborso, affinché sia il Sistema Sanitario Nazionale a pagare il costo del farmaco all’ammalato. Riuscire in questo intento, vuol dire convincere le istituzioni sanitarie centrali e fornire argomenti validi in termini di caratteristiche del farmaco, compliance, costo-beneficio, ampiezza dell’utilizzo, eccetera. Il lobbista dovrà supportare l’azienda costruendo un progetto di lobbying che sia in grado di sensibilizzare gli attori politici e i decisori istituzionali sulla bontà della richiesta. Per fare ciò, cercherà ‘sponde’ in ambito politico, ma anche in associazioni di pazienti e nei media, operando una triangolazione d’interessi tesa al raggiungimento dell’obiettivo. In questo caso, sommariamente tracciato, il paziente è il soggetto debole ma principalmente interessato al successo dell’operazione; il vantaggio commerciale per l’azienda farmaceutica coincide con quello dei pazienti ai quali è rivolto il farmaco. Il compito del lobbista, quindi, sarà quello d’instaurare un rapporto di andata/ritorno d’informazioni, creando il clima di consenso necessario attorno alla natura e utilità del medicamento. Tale azione deve essere svolta in forma trasparente, utilizzando tutte le ‘armi’ che l’istituzione parlamentare mette a disposizione: interrogazioni, ordini del giorno, audizioni. Saranno organizzati quindi contatti con i membri delle commissioni sanità della Camera e del Senato e gli altri organismi del Ministero della sanità, ai quali saranno forniti dossier e paper informativi e scientifici. Tutta questa attività viene svolta oggi senza la possibilità di manifestare in modo pubblico e organizzato l’azione di lobbying. Nel 1987, il disegno di legge n. 1124, all’articolo 5 prevedeva la regolamentazione di un’attività di “…rappresentanza e promozione di interessi privati nei confronti del Parlamento, del Governo, di consigli o giunte regionali, provinciali o comunali, o di singoli membri di tali organi collegiali”. Con questa accezione il lobbying sarebbe potuto entrare di diritto nelle attività consentite e normate, distinguendosi nettamente da una generica azione di relazioni pubbliche. Il crisma dell’ufficialità del ruolo del lobbista viene assunto di diritto nel sistema legislativo e dei rapporti tra sfera degli interessi privati e sfera degli interessi pubblici. Nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge appena citata si parla del lobbying come di un’attività “…in sé legittima, ed ineliminabile in un regime pluralista, ma che deve essere vincolata a rigorosi requisiti di trasparenza, in modo che sia chiara la distinzione tra i comportamenti leciti e le pratiche di clientelismo, di corruzione, o anche soltanto da quelle pratiche che per la loro dubbia natura non sopportano il controllo della pubblica opinione, e tendono quindi a non svolgersi alla luce del sole”. Ancora – ma ricorrerà in altre pagine degli atti parlamentari – si evoca la “luce del sole”, parlando di lobbying. La preoccupazione del legislatore appare chiara: regolamentare la materia vuol dire fornire un contributo al rispetto delle regole democratiche e, quindi, alla sicurezza più generale dello Stato. Il termine ‘sicurezza’ non viene quasi mai evocato, ma risulta evidente. D’altra parte, in una società dominata dal concetto di ‘rete’, dove l’accesso alle informazioni e alla formazione delle decisioni è sempre più trasparente e disponibile, dove internet ha sconvolto i parametri della ricerca della conoscenza, globalizzando le fonti e moltiplicando le relazioni, i rapporti tra Stato e mercato, tra decisori e gruppi d’interesse non possono restare relegati in un limbo di indeterminatezza normativa. La società si va dematerializzando e le informazioni sono sempre più spesso distribuite e trasmesse sulle reti e non più raccolte e depositate in casseforti. Sicurezza e comunicazione viaggiano di pari passo: la lotta alla criminalità, alla droga, al terrorismo si fanno con la prevenzione, con il lavoro di intelligence e di ricerca costante delle informazioni. Analogamente, l’accesso alle informazioni legislative, l’azione politica trasparente, il rispetto delle regole di mercato, sono parte integrante del dettato costituzionale e, quindi, della sicurezza dello Stato. La Lega americana dei lobbisti invita i propri membri a rispettare le leggi e i regolamenti che governano il lobbying come gli standard etici fissati dal Congresso e dall’Esecutivo, sforzandosi di andare più in là di queste regole ufficiali, “…perché da esse dipende la sicurezza del nostro Paese”. Le lobby agiscono, di norma, su più fronti, in seno ai partiti, nelle commissioni parlamentari, nei sottosegretariati, ecc. Il loro potere di pressione potrà essere costituito dai voti, direttamente o indirettamente manovrati, dalla capacità di informazione su questioni tecniche o comunque specialistiche, dal supporto che sono in grado di fornire alle esigenze elettorali di partiti e singoli professionisti. La possibilità di ottenere facilmente informazioni attendibili, sorrette da competenze riconosciute, costituisce un beneficio certo per il professionista politico che è sollecitato a partecipare a momenti decisionali sempre più intensi su argomenti complessi. Tutto questo, ci si può chiedere, che relazione ha con la sicurezza dello Stato? Le risposte possono essere molteplici. La prima e, per certi versi più facile, attiene alla fornitura di apparati militari e/o tecnologie per la difesa. Le lobby di aziende di forniture militari svolgono da sempre un ruolo fondamentale nella politica di difesa e di selezione degli apparati. Soprattutto sul mercato globale delle forniture aeronautiche e degli armamenti, la concorrenza delle aziende costruttrici ha generato da sempre un forte impegno di costruzione del consenso. D’altra parte, tutta la politica della sicurezza porta con sé il concetto di salvaguardia degli interessi organizzati. Per chiarire meglio questo punto, occorre fare riferimento, al dibattito sulla sicurezza in corso nell’Unione Europea. foto ansa Ai temi legati alla lotta al terrorismo e alla criminalità, si affiancano quelli legati alla libera circolazione delle merci e delle persone, alla dipendenza energetica e alle minacce dell’integrità dell’ambiente. Nei documenti della Commissione affari esteri del Parlamento europeo, laddove si parla dei temi della sicurezza, è facile imbattersi nell’intera gamma delle tematiche inerenti la trasparenza dei mercati, il libero commercio e i riferimenti ai trattati WTO. Gli aspetti più innovativi di questi documenti inerenti la sicurezza dell’Unione Europea riguardano l’applicazione dei principi di trasparenza e responsabilità. In generale, il Parlamento europeo dal 2000 ad oggi si è impegnato per dare una nuova struttura alla politica estera e di sicurezza basata sulla centralità del Consiglio e della Commissione, interfacciandosi in modo sempre più stringente con i fattori geopolitici e geoeconomici. Se si esamina l’intero settore delle relazioni esterne dell’Unione, non si può non osservare il peso crescente delle politiche di sicurezza. Politica economica e politica della sicurezza, insomma, vanno di pari passo. Sullo sfondo di questo palcoscenico si muovono le lobby. La politica estera, d’altra parte, è fortemente caratterizzata da elementi di confidenzialità e segretezza: il terreno di cultura entro cui si muove da sempre l’attività lobbistica. In Italia si è ritenuto, fino ad oggi, di non mettere ordine legislativo e giuridico in questo complesso intreccio di interessi e professionalità. Eppure, anche in Italia le lobby esistono, operano, si organizzano e condizionano il sistema politico. Esse fanno capo a professionisti, in genere provenienti dal settore delle relazioni pubbliche, a giornalisti o ex tali, a giuristi, avvocati, manager o politici che hanno messo a frutto la conoscenza del sistema politico istituzionale, relazioni personali, ‘rendite di posizione’, e naturalmente esperienze professionali. Molti di costoro hanno accesso al Senato ed alla Camera, avvalendosi di titoli professionali, quali quelli di collaboratore parlamentare o giornalista, esercitano la loro attività lobbistica, esaminano la documentazione legislativa e intercettano orientamenti politici e decisioni, fornendo e ricevendo documenti utili all’obiettivo di business posto dal cliente. La creazione di un Comitato per l’informazione e la comunicazione presso la Camera dei deputati, avvenuta durante la X legislatura ha favorito l’accesso della stampa alla documentazione delle Commissioni permanenti e reso più trasparente il prodotto legislativo. Le audizioni di associazioni o gruppi d’interesse presso le Commissioni parlamentari sono diventate più frequenti; la maggioranza dei documenti legislativi è on-line e può essere consultata via internet. Gli stessi uffici parlamentari sono diventati più disponibili a fornire, anche telefonicamente, informazioni e notizie sull’iter del lavoro degli organismi parlamentari. Tutto questo sforzo di trasparenza ha sicuramente giovato alla dialettica democratica ed alla messa in rete delle informazioni, contribuendo ad avvicinare l’opinione pubblica al ‘palazzo’. Si consideri, poi, che in ragione della cosiddetta ‘devolution’, ovvero del decentramento dei poteri centrali alle Regioni, le esigenze di accesso alle fonti amministrative e di relazione con i poteri decentrati è aumentato a dismisura. Acciocché aziende, associazioni e gruppi di pressione hanno dovuto organizzarsi su scala regionale per poter rispondere alle nuove esigenze della regionalizzazione dei poteri, destinando risorse umane alle relazioni istituzionali e, di fatto, moltiplicando per venti, quante sono le regioni, le attività lobbistiche. Si consideri, inoltre, che le nuove normative in materia di appalti pubblici, varate nel 1994, e altre leggi collegate di finanza pubblica, che pongono un freno alla licitazione privata, obbligando gli enti pubblici a procedere a gare per l’approvvigionamento di beni e servizi, hanno ulteriormente spinto i gruppi privati e di pressione a dotarsi di strumenti di conoscenza e informazione preventiva, per poter partecipare ad ‘armi pari’ ai concorsi per l’affidamento di commesse. Questa attività – che nel linguaggio lobbistico è denominata procurement – ha assunto un ruolo sempre più rilevante e delicato perché, in mancanza di norme specifiche sull’attività di lobbying, rischia di qualificarsi come una pratica border-line rispetto alla legge. Il rischio della ‘turbativa d’asta’, insomma, è dietro l’angolo. Pur tuttavia, l’attività di procurement, nell’accezione anglosassone del termine, per nulla s’interpone al corretto svolgimento di una gara d’appalto. Il lobbista è chiamato dal cliente a svolgere un ruolo di verifica sul campo delle condizioni-quadro entro le quali andrà a definirsi il bando e, quindi, la gara. Si tratta di verificare con puntualità l’oggetto e le finalità, le specifiche tecniche e normative, le dimensioni del budget e le attese dell’emittente il bando, il ‘clima’ entro il quale viene a realizzarsi la gara stessa e le potenziali alleanze, percependo in anticipo e analizzando il ruolo dei possibili competitors. Lo scopo è quello d’innalzare il profilo del concorrente, facendo conoscere i suoi interessi ai decisori istituzionali. Questa attività è divisa in fasi. La prima fase è quella della pre-bid che precede l’offerta. In essa il lobbista identifica i decisori chiave e prepara un programma di contatti affinché la redazione dell’offerta sia accompagnata dal massimo delle informazioni. E’ una fase delicata, nella quale occorre monitorare anche la capacità dei concorrenti, agevolare la creazione di partenariati e offerte multidisciplinari (global service), preparare il piano di comunicazione da supportare all’offerta stessa, sviluppare una strategia politica nel caso venisse richiesta. Una volta acquisito il bando, si esaminano le condizioni tecniche per assicurarsi che non siano pregiudizievoli, si assiste alla definizione della strategia di offerta, si monitorizzano le attività della concorrenza e forniscono informazioni sugli orientamenti dei decisori, analizzando l’ambiente in fase di gara e assistendo, se il caso, alla contrattazione (qualora il bando lo preveda). Come si può facilmente intuire, il procurement richiede un elevato quoziente di professionalità da parte del lobbista, che deve conoscere i meccanismi delle gare e degli appalti pubblici, i rudimenti del diritto pubblico ed amministrativo, le regole e le norme che sovrintendono lo specifico settore inerente l’oggetto della gara. Ma soprattutto, deve poter agire in totale trasparenza e rispetto delle regole, non esercitando alcuna pressione indebita nei confronti degli estensori del bando. Il concetto di lobbying è già entrato da tempo nel lessico e nel ‘comune sentire’ delle istituzioni democratiche. Navigando tra i documenti ufficiali dello Stato italiano ci s’imbatte frequentemente in questo termine. Nel sito internet della Ragioneria generale dello Stato, in riferimento alla politica agricola comunitaria, si fa esplicita menzione “…alla capacità di lobbying degli agricoltori”. Sul n. 33 della rivista ‘Impresa & Stato’, in un dibattito sulle riforme istituzionali, il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, afferma: “Il problema della rappresentanza degli interessi territoriali (regioni e autonomie locali) o economici …(omissis)… è quello di dare legittimità a forme nuove di rappresentanza, come il lobbying, il trasferimento di competenze, l’attribuzione di responsabilità specifiche e mirate, ecc.”. Nel testo di legge unificato della Commissione Affari costituzionali, presentato nel 1997 e concernente “misure per la prevenzione dei fenomeni di corruzione”, agli articoli 21, 22, 23 e 24, si disciplina il fenomeno delle lobby, l’attività, cioè, “… volta a perseguire interessi di privati, non riconducibili a quelli generali o a fini istituzionali, attraverso relazioni o influenze esercitate sugli organismi preposti alla formazione della legislazione o all’amministrazione”. I relatori, onorevoli Serra, Veltri, Bonito, Li Calzi e Martinelli, notano come il tema si evidenzi delicato sotto il profilo costituzionale, laddove all’art. 67 della Carta Costituzionale si stabilisce che ogni parlamentare “rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincoli di mandato”. Dunque, ancorché gli interessi perseguiti attraverso l’attività di lobbying siano leciti, resta comunque il rischio di un possibile conflitto fra l’interesse di parte e quello generale. Il legislatore ammette che l’attività di lobbying è di grande complessità perché può celare un occulto condizionamento del parlamentare che può essere indotto a sostenere un provvedimento non per libero convincimento, ma, ad esempio, per il timore di scontentare fasce consistenti del suo elettorato. Si ammette, tuttavia, che in democrazia, lo scambio tra elettori ed eletti, quando riguarda interessi leciti, è “…in qualche misura connaturale alla funzione stessa di rappresentanza”. L’attività di lobbying si manifesta in tutte le società politiche che governano realtà complesse, caratterizzate da interessi frammentati, ma, non per questo, immeritevoli di tutela. Essa – scrivono i relatori - caratterizza tutte le società politiche dei paesi industrializzati, per la consistenza dei vantaggi in gioco e per la presenza di interessi che travalicano i confini di un solo paese e intersecano trasversalmente molteplici realtà statali: “Conoscere la natura di questi interessi, le poste che sono in giuoco, i soggetti che li rappresentano, ancor più se si tratta di interessi non nazionali, può allora costituire l’antidoto rispetto all’adozione di provvedimenti di cui restano ignorate o oscure ai più le concrete finalità. Tanto più se si tiene conto che l’attività di lobbying può anche avvenire in modo subdolo, ad esempio attraverso saggi e/o articoli pubblicati su autorevoli mezzi di stampa o con informazioni tendenziose, diffuse con i mezzi delle comunicazioni di massa. Non a caso il maggiore fra i paesi industrializzati, gli USA, ha ritenuto di dover disciplinare per legge l’attività di lobbying già da mezzo secolo”. L’articolo 21 introduce, al primo comma, l’istituzione dei registri delle lobby presso gli uffici di Presidenza del Senato e della Camera dei deputati e presso il Garante della legalità e della trasparenza della pubblica amministrazione. Il secondo comma stabilisce che sono tenuti ad iscriversi in tali registri “… tutti coloro, persone fisiche o società, che si propongono di influenzare l’attività legislativa e o amministrativa in favore di leciti interessi di privati, in ragione dell’ambito di influenza in cui intendono operare”. In sostanza, l’attività di lobbying richiederebbe l’iscrizione nei registri di uno o di tutti e due i rami del Parlamento, quando essa viene operata a livello legislativo, nonché l’iscrizione nel registro tenuto dal Garante della legalità e della trasparenza della pubblica amministrazione quando essa viene operata a livello amministrativo. Il terzo comma vieta ai parlamentari, ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni, agli amministratori degli enti pubblici e delle società nelle quali lo Stato partecipa al capitale in misura superiore al 20 per cento, nei tre anni successivi alla cessazione del mandato, della carica o dell’ufficio ricoperti, e ai giornalisti iscritti all’Associazione della stampa parlamentare di svolgere attività di lobbying. Nei commi successivi si fissano, inoltre, i contenuti delle registrazioni, in modo da assicurare completa trasparenza su coloro che intendono svolgere tale attività. Tali norme sono intese ad assicurare la riconoscibilità dei soggetti che svolgono attività di lobbying, in modo che chi è chiamato ad assumere una decisione sia sempre in grado di stabilire se è stato oggetto di contatti e di informazioni tendenti al perseguimento di un preciso scopo. La disposizione che vieta ai giornalisti della stampa parlamentare e a coloro che sono stati membri delle Camere o che hanno svolto compiti dirigenziali nella pubblica amministrazione, negli enti statali o nelle società a prevalente capitale dello Stato, di svolgere attività di lobbying per un congruo periodo di tempo dalla cessazione del mandato o dell’incarico è tesa, invece, ad evitare che l’attività di lobbying possa essere intestata a soggetti che, in ragione delle loro precedenti funzioni, siano stati troppo contigui a coloro che sono chiamati ad assumere le decisioni. Questi ultimi, infatti, debbono sempre poter discernere tra il contatto interessato e quello che non si propone un fine immediato. L’intenzione del legislatore, insomma, ha lo scopo di portare alla luce il contenuto dell’attività di lobbying, nella convinzione che la sua trasparenza costituisca un deterrente per le attività illecite. S’introduce l’obbligo del lobbista di depositare una preventiva relazione su ogni singola attività intrapresa e a consuntivo di ogni attività di lobbying conclusa, e una relazione annuale complessiva sull’attività svolta. E’ stabilita inoltre la pubblicità dei registri delle lobbying e delle relazioni depositate dai lobbisti. Sono altresì previste sanzioni amministrative anche rilevanti, che nella fase pre-euro andavano dai 50 ai 100 milioni di vecchie lire. Gli articoli citati furono stralciati dalla legge. Si decise di procedere all’approvazione evitando di affrontare il tema della regolamentazione del lobbying, ufficialmente sostenendo che per la sua complessità avrebbe richiesto una legge ‘ad hoc’. L’articolato appariva quanto mai completo e convincente agli addetti ai lavori. Purtroppo, non è stato mai affrontato in sede deliberativa. Non è questa la sede dove discettare sulle ragioni che hanno relegato questa proposta in qualche cassetto, sta di fatto che essa rappresentava la sintesi di ben nove proposte di legge presentate da non meno di cinquanta parlamentari appartenenti a tutti gli schieramenti politici presenti in Parlamento nella XIII legislatura. La regolamentazione del lobbying in Italia è ormai all’ordine del giorno. In un convegno tenutosi a Roma nel maggio del 2004, ad opera di Reti, una società di relazione pubbliche, il presidente della Camera dei Deputati, Pier Ferdinando Casini, ha affermato: “Occorre superare una volta per tutte quell’alone di diffidenza che spesso circonda l’idea di un rapporto diretto tra le istituzioni e le organizzazioni portatrici d’interessi settoriali nell’ambito dei procedimenti legislativi e valorizzare, invece, appieno le funzioni che esse possono e debbono svolgere. Funzione che nell’attuale fase di evoluzione del nostro ordinamento, potrebbe assumere un ulteriore valore aggiunto in ragione della possibilità che le organizzazioni hanno di operare quale elemento di raccordo tra i diversi livelli istituzionali: Parlamento, Governo, Regioni, Enti Locali, Unione Europea”. In un messaggio rivolto ai convegnisti, il Ministro per le attività produttive, Antonio Marzano, ha scritto: “Sarà necessario definire sia gli ambiti, sia le caratteristiche delle attività di lobbying, sia i criteri ed i presupposti professionali e deontologici, il cui possesso ne abiliti l’esercizio. A tale materia, volta a disciplinare dall’interno la lobby, finalizzata, cioè, a chiarire chi è il lobbista e che caratteristiche professionali debba possedere per esercitare tale attività, deve corrisponderne un’altra rivolta all’esterno, mirata a disciplinare i rapporti fra le lobby ed i public decision-maker, in modo da indirizzarli sui binari della più ampia trasparenza e correttezza”. Il dibattito è aperto. C’è chi predilige il varo di una legge, riprendendo e aggiornando semmai l’articolato prima menzionato, e chi invece preferirebbe orientarsi verso soluzioni più ‘pragmatiche’ attraverso l’adozione di un regolamento parlamentare di accesso alle sedi istituzionali. Tale regolamento dovrebbe garantire la trasparenza dell’azione del lobbista, che potrà iscriversi ad un pubblico registro; ciascun operatore dovrà dichiarare il proprio codice etico e il soggetto (società, ente, associazione…) per il quale lavora. I contatti con i parlamentari possono avvenire all’interno delle sedi istituzionali, limitatamente alla fornitura di informazioni pertinenti il mandato del parlamentare; ogni altra questione andrà discussa fuori dalle sedi deputate. Il lobbista resta, tuttavia, un soggetto privato che non ha alcuno status di carattere istituzionale, profilo che deve essere manifesto e chiaro anche ai soggetti esterni. Una simile impostazione ‘liberale’ avrebbe sicuramente il merito di cominciare a regolamentare il settore. Pur tuttavia, è apparsa a molti come una soluzione a ‘maglie larghe’, forse troppo. L’ipotesi di una legge di regolamentazione, sulla falsa riga di quanto già disposto a livello europeo e di altri paesi, avrebbe invece il merito di dare un profilo netto alla professione del lobbista. Perché tra le varie questioni vi è anche quella del riconoscimento giuridico del professionista, attualmente non assimilabile ad alcuna precisa categoria professionale. La disciplina dell’attività di relazione istituzionale, per fini non istituzionali o di interesse generale, svolta nei confronti di membri delle assemblee legislative nazionali, regionali e locali sarebbe certamente un valido contributo alla sicurezza dello Stato e delle sue istituzioni. Conoscere il nome e il cognome dell’operatore delle relazioni istituzionali - o lobbista che dir si voglia - la sede d’affari, la precisa e circoscritta attività, l’elenco dei clienti per i quali agisce e la descrizione degli obiettivi per i quali lavora, la composizione del capitale sociale della società di cui è socio costituisce elemento di trasparenza e di salvaguardia. Sapere che questa persona agisce in nome e per conto di un Sindacato o di un’Associazione imprenditoriale o no-profit, di un gruppo organizzato di cittadini o di una multinazionale, è elemento qualificante sia per l’istituzione, sia per l’intero settore che – ma non è un paradosso lessicale – ha bisogno di ‘sicurezza’, nel senso che avverte tutto il peso di un ruolo crescente ma, al contempo, privo di uno status giuridico preciso e riconosciuto. Nel mondo variegato e multiforme delle società di pubbliche relazioni, il profilo del lobbista è oggi vagamente ascritto alle relazioni istituzionali o public affairs. Dietro queste sigle operano professionisti che non hanno, in genere, una preparazione specifica. Solo da qualche anno, alcune facoltà universitarie, prevalentemente di comunicazione o scienze politiche, hanno introdotto nei piani di studio le relazioni istituzionali, quale specifica materia. Si tratta, pur tuttavia, di stralci di formazione, che non tengono conto della complessità della formazione del lobbista. Questi deve anzitutto essere animato da una buona conoscenza della res publica, del diritto pubblico, privato e amministrativo; deve conoscere i meccanismi della politica, ovvero il sistema partitico: l’aver svolto attività politica, semmai in un consiglio comunale, provinciale e regionale, costituisce sicuramente un punto di forza. L’expertise, tuttavia, si forma sul campo. Il lobbista dovrà essere mosso da curiosità, sensibilità per le relazioni umane e sociali, conoscenza dei meccanismi economici e sociali, forte propensione alla lettura ed allo studio. foto ansa Ma soprattutto, chi opera in questo campo ha il dovere di rispettare le regole, sebbene non ancora scritte, percependo il nesso che vige tra lobbying, sovranità e sicurezza dello Stato. L’Ethics in government Act, varato negli Stati Uniti, impone ai membri ed al personale del Congresso, al Presidente e al personale federale, nonché ai giudici, una serie di misure di salvaguardia dell’etica professionale, imponendo – per esempio – di dichiarare annualmente i doni ricevuti, i prestiti contratti, i rapporti d’impiego e i beni immobili, sia propri, sia di alcuni familiari. La legge inoltre istituisce l’Office of Government Ethics, che ha il compito di studio e proposta, vigilanza e rispetto della legge stessa, sia a livello centrale che periferico della vasta amministrazione americana. Esso lavora di concerto con il Dipartimento della giustizia per l’attività investigativa ed è in stretto contatto con le autorità che si occupano di sicurezza interna. Anche nel Regno Unito si sono avuti negli ultimi anni importanti interventi normativi, è stata istituita una Commissione che si sta occupando di stabilire nuove norme sull’attività di lobbying. Provvedimenti sono allo studio, inoltre, in Spagna, Portogallo e Francia. In tutti questi casi, sia che si tratti della promulgazione di leggi, sia di regolamenti, la lobbying viene considerata come un’attività la cui valenza è direttamente riconducibile alla vita democratica interna di un paese, e quindi alla sicurezza intesa nel senso più ampio. La percezione della sicurezza passa sempre di più attraverso l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa, alla possibilità di connettersi alle reti globali, di telefonare, di navigare in internet, di ottenere informazioni in tempo reale. Ciò vale per il singolo cittadino ma anche per l’impresa che deve competere sul mercato interconnesso. Interessate alle relazioni istituzionali, infatti, non sono solamente le grandi imprese, le corporation multinazionali planetarie, ma sempre più anche le piccole e medie imprese, molte delle quali devono fare i conti con i mercati internazionali ma anche con le nuove procedure di accreditamento presso le istituzioni pubbliche, nazionali e locali. L’accesso alle fonti legislative, il rapporto dialettico tra cittadini e Stato, la relazione tra decisori istituzionali e società civile, richiedono il conforto di regole certe. Trasparenza e sicurezza vanno di pari passo. Alexis de Tocqueville, nella sua fondamentale opera La democrazia in America, scrisse: “L’arte di associarsi diventa la madre dell’azione, studiata e messa in pratica da tutti. Ignorare la difesa e la promozione dei legittimi interessi di parte, vuol dire negare la democrazia e, in definitiva, la libertà”. Approfondimenti bibliografici FRANCO CARDINI, Atrea e i Titani, Edizioni Laterza, 2005; MAURO FOTIA, Le lobby in Italia, Edizioni Dedalo, 1997; LUIGI GRAZIANO, Lobbying, pluralismo, democrazia, La Nuova Italia, 1995; Atti parlamentari e Gazzetta Ufficiale (Roma); Atti del Parlamento Europeo (Bruxelles). |