Cina e globalizzazione parlano gli intellettuali di Pechino |
Stefania COSTANZO |
Una inedita chiave di lettura del fenomeno globalizzazione ci viene fornita dal dibattito sviluppatosi su questo tema tra le élite intellettuali cinesi. Si tratta di uno sguardo ‘dall’interno’ che consente, per la prima volta, di esaminare la questione dal punto di vista di un Paese impegnato ad individuare una via originale e alternativa, in grado di contemperare esigenze di modernizzazione e rispetto della tradizione. foto ansa Il termine che è stato coniato all’inizio degli anni’90 per tradurre il concetto di ‘globalizzazione’ è: (quanqiuhua). Nel linguaggio ufficiale quanqiuhua ha sostituito progressivamente la parola che equivale a ‘modernizzazione’, (ossia , xiandaihua, dove xiandai significa moderno), ormai considerata obsoleta (1) Tale evoluzione lessicale riflette l’integrazione sempre più massiccia del Paese nei meccanismi del mercato internazionale, che ha avuto inizio con il lancio della politica di riforma e apertura (gaige kaifang) durante lo storico III Plenum dell’XI Comitato Centrale (12-18 dicembre 1978) e che è stata accelerata nel 1992. I provvedimenti adottati dall’establishment per riorganizzare e rafforzare l’economia interna hanno prodotto dei risultati sorprendenti, come dimostrano le seguenti cifre: la crescita annuale registrata nel 1992-1994 era pari ad oltre il 13%, nel 1994-97 oscillava intorno al 9% e dal 1998 si è assestata intorno al 4-6% (2) . Il risultato di questo sviluppo straordinario è stato l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (W.T.O.). Questo traguardo, raggiunto nel 2001 dopo ben quindici anni di trattative, ha riconosciuto alla Cina lo status di colosso economico emergente nonché quello di nuova frontiera dell’economia mondiale. Grazie all’abbondanza di mano d’opera sottopagata e alle incalcolabili opportunità di profitto generate da un mercato in continua espansione, nel 2004 il P.I.L. ha superato nuovamente la soglia del 9%. Si prevede che nel 2005 la Cina diventerà il terzo paese per volume di scambi dopo gli U.S.A. e la Germania, eclissando il Giappone (3) Tuttavia, questa ascesa dalle proporzioni eccezionali sta causando l’emergere di una serie di squilibri, sia a livello sovranazionale sia a livello nazionale. Ad esempio, dal 2000 la Cina ha contribuito ai due quinti della crescita della domanda mondiale di materie prime, con consumi pari al 30% del petrolio estratto, al 30% dell’acciaio prodotto, al 40% del cemento nel 2004. Nei prossimi vent’anni il consumo cinese di energia pro-capite potrebbe quadruplicare, con il conseguente superamento del tasso di consumo americano, sebbene ciascun cinese arriverebbe a bruciare la metà dell’energia di un cittadino degli States (4) . Da questi esempi risulta evidente che la Cina riuscirà difficilmente a mantenere invariato il proprio ritmo di crescita. La possibilità di una flessione è suggerita non solo dalla necessità di rispettare gli equilibri economici e geopolitici mondiali, ma anche dalle tensioni e dai surriscaldamenti nati all’interno. La diffusione dilagante delle principali aberrazioni del modello capitalista, come la corruzione dei quadri, l’aumento della criminalità, il profondo divario tra ricchi/poveri e tra città/campagna, la corsa al consumismo sfrenato, hanno indotto alcuni osservatori a constatare che la globalizzazione si sta insinuando nel paese minacciando di pregiudicarne il fragile equilibrio. La genesi del dibattito sulla globalizzazione in Cina In questo contesto ha avuto vasta risonanza la pubblicazione del libro di Shintaro Ishihara Il Giappone che può dire di no: perché il Giappone sarà primo tra i suoi pari nel 1989. Esso può essere considerato l’atto iniziale del dibattito sulla superiorità dei valori asiatici rispetto a quelli occidentali, una riflessione che ha coinvolto i paesi emergenti dell’Estremo Oriente (5) . L’Asia è diventata oggetto di studio dei principali istituti stranieri per la sua sbalorditiva crescita economica e da circa un decennio si parla di ‘capitalismo confuciano’ (6) . Alcuni studiosi occidentali ed asiatici si sono infatti resi conto dell’utilità di alcuni aspetti del confucianesimo per la crescita economica: la frugalità, l’onestà, l’etica del lavoro, l’importanza dell’istruzione, il rispetto nei confronti della famiglia e soprattutto di ogni forma di autorità. Si è diffusa l’opinione che il ventunesimo secolo sarà il ‘secolo asiatico’ poiché l’Asia è una delle regioni più dinamiche del mondo, come è stato dimostrato dal rapido sviluppo del Giappone e delle cosiddette ‘quattro tigri asiatiche’. La Cina, il cui P.I.L. cresce mediamente del 6-8% l’anno, condivide questa previsione. L’orgoglio generato da questi risultati ha favorito il revival degli studi sul patrimonio nazionale (guoxue) e la pubblicazione di libri che condannano l’omologazione dilagante. Tra essi ricordiamo La Cina può dire di no (Zhongguo keyi shuo bu), che ha riscosso un grande successo nel 1996. L’opposizione all’ingresso della Cina nel W.T.O., il rifiuto di assegnare alla Cina le Olimpiadi del 2000, la crisi sullo stretto di Taiwan (1995-96), il sostegno americano alla causa tibetana, la presunta attività di spionaggio della C.I.A. hanno indotto i suoi autori a constatare che gli U.S.A. non sono il baluardo dei valori universali che sostengono di essere ma sono una potenza egemonica, narcisistica ed arrogante che agisce come una sorta di servizio di sorveglianza a livello globale. Inoltre il libro non risparmia critiche ai dirigenti cinesi, accusati di essere troppo accondiscendenti nei rapporti con gli U.S.A. Essi devono avere il coraggio di dire qualche volta no all’America ma non sono abbastanza sicuri di sé (7) . Il senso di disagio che ha trovato espressione in questi testi e nelle discussioni che ne sono seguite è stato ulteriormente acuito dal lento ma irreversibile tramonto dell’ottimismo che ha caratterizzato gli anni ’80. Come ha affermato Wang Hui, l’apertura all’Occidente e alla globalizzazione non ha portato alla propagazione dell’equità e della giustizia sociale ma piuttosto alla collusione tra economia e politica e all’approfondimento del divario tra ricchi e poveri (8) Così, dalla seconda metà degli anni ’90, gli intellettuali cinesi hanno accettato l’ennesima sfida lanciata dall’Occidente e hanno cercato di analizzare le ripercussioni di questo fenomeno sul ‘continente’ Cina. Le diverse posizioni da loro assunte hanno dato vita ad un vivace dibattito che prosegue ancora oggi. A rendere ancor più stimolante l’atmosfera hanno contribuito le influenze provenienti dai circoli intellettuali occidentali, come il postmodernismo, il postcolonialismo, ecc. Nel corso degli anni nessuna teoria ha acquisito una validità assoluta, portando all’emergere di un panorama intellettuale estremamente variegato. Tuttavia al suo interno è possibile individuare, con le dovute semplificazioni, una sorta di linea di demarcazione tra due gruppi: la ‘nuova sinistra’ ( xinzuopai) e il ‘liberalismo’ ( ziyouzhuyi). Tale assetto del dibattito ricorda quello occidentale, con l’opposizione tra due schieramenti principali: quello dei critici della globalizzazione e quello dei suoi fautori. La “nuova sinistra” (xinzuopai) Sebbene con le dovute differenze, la ‘nuova sinistra’ può essere assimilata al gruppo occidentale dei detrattori della globalizzazione. L’espressione “xinzuopai” è stata coniata dagli intellettuali liberali per distinguere questa nuova corrente da quella conosciuta come ‘vecchia sinistra’, costituita dagli ideologi marxisti-leninisti come Hu Qiaomu e Deng Liqun. A differenza della ‘vecchia sinistra’, la ‘nuova sinistra’ non si oppone alla politica di riforma e apertura ma rifiuta l’introduzione di modifiche radicali nel sistema economico e politico vigente. Inoltre i suoi esponenti ritengono che il Partito Comunista Cinese dovrebbe ergersi a paladino degli interessi del paese, formulando delle riforme che favoriscano la crescita economica senza ledere l’identità nazionale. I primi ad essere indicati come membri della ‘nuova sinistra’ sono i cinesi che hanno studiato all’estero (soprattutto negli U.S.A.) materie come le scienze sociali e le discipline classiche. Come nota Wang Hui, vivere in Occidente ha consentito a questi intellettuali di assistere agli attacchi contro il capitalismo e contro la degenerazione della società che sono all’ordine del giorno nell’ambiente universitario (9) I critici occidentali della globalizzazione denunciano la crescente polarizzazione delle ricchezze nelle mani di una ristretta élite, l’uso irrazionale delle risorse naturali, l’omologazione degli stili di vita e dei modelli di consumo che distrugge il pluralismo delle culture, la crescita delle spese militari, delle vittime delle guerre e delle morti per denutrizione (10) Una crescente attenzione nei confronti del postmodernismo, del postcolonialismo e del decostruzionismo è nata anche in patria con la pubblicazione delle opere di studiosi stranieri come Edward Said e Michael Foucault, intorno alla metà degli anni’80. A ciò si è aggiunta l’influenza della Scuola di Francoforte, di Wallerstein, di Amin, ecc. Tuttavia fu solo dopo l’incidente di piazza Tien-an Men del 1989 e i drastici cambiamenti che ne seguirono, che queste correnti, insieme ad altre metodologie critiche, segnarono il progressivo distacco dal Movimento del 4 maggio 1919 (11) e diedero inizio ad una riflessione sul consumismo dominante di derivazione occidentale (12) Allo scopo di evitare la censura, i pensatori della ‘nuova sinistra’ hanno iniziato a divulgare le loro idee su riviste e giornali di Hong Kong come ‘Ventunesimo secolo’ (Ershiyishiji), attirando l’attenzione dei circoli accademici e dei media cinesi, a partire dalla metà degli anni’90. In generale, essi mettono in discussione l’ideologia liberista occidentale e sostengono la necessità di trascendere sia il socialismo sia il capitalismo per sviluppare una via alternativa verso la modernizzazione. La loro attenzione si è concentrata soprattutto sul collaborazionismo tra il Partito Comunista Cinese e il mercato globale. Infatti il programma di riforme in atto non fa altro che rafforzare il potere economico dell’élite cinese, inasprendo le disuguaglianze tra le varie classi sociali e tra la Cina e gli altri stati. Questa sorta di connivenza è stata accettata di buon grado da gran parte della comunità intellettuale, in particolare dai cosiddetti neoliberisti (13) . Il miraggio del benessere economico e dell’instaurazione di una società democratica che garantirà uguali diritti e doveri per tutti ha impedito a molti di sviluppare un’adeguata coscienza critica che consenta di vedere oltre i benefici materiali immediati. Essi sono diventati complici di questo sistema, piegando la loro attività alle ferree leggi del mercato. Il primo a riflettere sulla situazione corrente è stato Wang Hui che, oltre ad essere il curatore della popolare rivista ‘Studiare’ (Dushu) è anche uno dei principali esponenti della ‘nuova sinistra’. Fu proprio lui a dare origine alla disputa tra la ‘nuova sinistra’ e il ‘liberalismo’ con la pubblicazione del saggio La situazione del pensiero cinese contemporaneo e la modernità (Dangdai Zhongguode sixiang zhangkuang yu xiandaixing wenti) sulla rivista ‘Frontiere’ (Tianya), nel maggio del 1997 (14) . Nel corso della sua analisi Wang denuncia l’eccessiva influenza della cultura occidentale, soprattutto di quella americana, fattore che costituisce un ostacolo allo sviluppo di un pensiero cinese originale. Nonostante ciò egli non difende a spada tratta la tradizione culturale cinese. Il suo obiettivo è infatti quello di superare le classiche dicotomie Occidente/Cina, capitalismo/socialismo e libero mercato/pianificazione poiché sia il nazionalismo sia l’occidentalismo portati agli estremi non fanno altro che alimentare la frattura tra Est e Ovest (15) . Sarebbe dunque un errore analizzare i problemi incontrati dalla Cina lungo la strada della modernizzazione sulla base del capitalismo. Tale modalità di sviluppo è stata infatti elaborata sulla base dei percorsi storici occidentali. Di conseguenza, le questioni cinesi verrebbero liquidate come difficoltà generate dall’arretratezza economica e scientifica del paese e come ostacoli prodotti dal complesso passaggio da un’economia agricola ad una industriale. Da ciò si deduce che secondo le teorie occidentali, modernizzazione equivale a diffusione del capitalismo. Invece, come sottolinea Wang Hui, la concezione cinese della modernizzazione affonda le proprie radici nel socialismo (16) . Mao Zedong credeva fermamente che la strategia della rivoluzione e del Grande Balzo in avanti (17) avrebbero consentito alla Cina di uscire dal proprio stato di sottosviluppo e di competere con i paesi industrialmente avanzati. Fondamentale nella realizzazione di questo progetto era l’instaurazione del collettivismo, considerato la condizione indispensabile per mobilitare l’intera popolazione e convogliarne gli sforzi verso la crescita del Paese. Attraverso la nazionalizzazione dell’economia e la creazione delle comuni popolari, Mao è riuscito a sottomettere la società alle priorità dello stato, arginando i problemi della riscossione delle tasse ereditati dall’epoca Qing, riducendo le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime al settore industriale, ecc. Secondo Wang Hui, da ciò si evince che il socialismo maoista costituisce una teoria della modernizzazione alternativa a quella capitalistica poiché è fondata su un’ideologia rivoluzionaria e su un’attitudine egualitaria anziché sulla proprietà privata e sulla separazione tra la classe dei capitalisti-proprietari e quella dei lavoratori. Tuttavia, lungo la strada della modernizzazione il pensiero maoista ha prodotto delle profonde contraddizioni. Wang ne è consapevole e ne discute con grande lealtà intellettuale. Per esempio, egli ritiene che qualsiasi forma di egualitarismo sociale che è stata attuata tra il 1949 e il 1976 abbia perso gran parte del proprio valore di fronte alla netta separazione tra i dirigenti e il popolo, tra la città e la campagna, ecc. che l’hanno accompagnata. Un’altra antinomia è rappresentata dal fatto che, da un lato, Mao ha nazionalizzato l’economia allo scopo di indirizzare la società verso il raggiungimento di condizioni di vita accettabili e, dall’altro, ha sempre deprecato il ricorso al controllo dello stato perché limita l’autonomia del popolo. Tali incongruenze sono generate dal fatto che la ricerca della modernizzazione in Cina è nata in un contesto storico caratterizzato dall’espansione dell’imperialismo, prima, e dalla crisi del capitalismo, poi. E’ quindi naturale che ogni promotore dello sviluppo abbia riflettuto ampiamente sui modi per evitare gli abusi del processo di modernizzazione occidentale. foto ansa Questa tendenza è stata soprannominata da Wang Hui ‘teoria antimoderna della modernizzazione’ (fanxiandaixing de xiandaixing lilun), laddove per ‘antimoderno’ si intende la modificazione in senso liberticida di certi aspetti della teoria della modernizzazione occidentale, perché rivelatisi controproducenti (ad es. la capillare penetrazione dello stato in ogni settore della vita sociale è giustificata dalla volontà di impedire un eccessivo divario tra le classi sociali) (18) . L’attuale progetto di modernizzazione, che è iniziato nel 1978 con il lancio della politica di riforma e apertura, punta alla crescita economica del paese e al suo ingresso nella ristretta cerchia delle potenze mondiali più influenti. Esso manca della componente idealistica del pensiero maoista, che è stata sostituita da un ferreo pragmatismo perfettamente sintetizzato dalla massima di Deng Xiaoping “la pratica è il solo criterio di verità” (19) . Come tale, tende ad omologarsi sempre più al modello capitalistico e a riprodurne le aberrazioni. Wang Hui ritiene inoltre che gli eventi del 1989 e i radicali cambiamenti che ne seguirono dimostrano l’esistenza di una relazione paradossale tra lo stato e il mercato: da un lato, l’espansione del capitale globale è impensabile in presenza dell’apparato delle leggi e delle limitazioni statali, ma dall’altro il mercato ha bisogno della collaborazione dello stato per continuare ad espandersi. Proprio sulla base di questo rapporto inestricabile Wang giunge a sostenere che l’integrazione della Cina negli ingranaggi della globalizzazione non può essere arrestata (20) e che il processo di globalizzazione è alimentato anche dalle forze contrarie alla globalizzazione (21) . Lo stato diventa quindi il paladino degli interessi delle grandi compagnie adattandosi alle regole del W.T.O. e degli altri organismi internazionali. Per evitare che la società cada in uno stato di crisi irreversibile è necessario che il governo rifiuti di aderire ai programmi liberisti più radicali assumendosi la responsabilità di assicurare la giustizia sociale non solo a livello nazionale ma anche sovranazionale (22) . Nell’ambito delle relazioni internazionali bisogna, infatti, impedire che prevalgano gli interessi dei singoli stati, ossia dei paesi più potenti a scapito di quelli in via di sviluppo. A tale scopo si potrebbe istituire una sorta di governo mondiale per coordinare la politica finanziaria globale, la distribuzione equa delle ricchezze, la salvaguardia ambientale, ecc. in modo tale che ciascuno stato sia costretto a considerare il benessere della comunità globale prioritario rispetto al proprio. Tale progetto ricorda quello avanzato da uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno della globalizzazione, il professore emerito di Sociologia presso le Università di Leeds e Varsavia Zygmunt Bauman, che prevede l’instaurazione di una repubblica planetaria che sia in grado di assicurare la salvaguardia delle nozioni di ‘bene pubblico’, ‘società buona’, ‘equità’ e ‘giustizia’ (23) . Naturalmente, la questione non si limita esclusivamente agli intrecci tra economia e politica. Wang sostiene, infatti, che sta emergendo nel mondo un nuovo modello di globalizzazione: quello militare guidato dagli U.S.A. e dalla N.A.T.O, le cui implicazione sono altrettanto preoccupanti (24) . Questa sua riflessione ricorda quella del sociologo italiano Danilo Zolo, il quale sottolinea il progressivo passaggio dalla guerra circoscritta in uno spazio definito e giustificata da giuste cause (bellum justum) ad una guerra globale e motivata esclusivamente dalla logica del profitto (25) . Tra le testimonianze lampanti di questo processo ricordiamo la guerra nei Balcani, iniziata nel 1999 e mai conclusa. Essa rappresenta il primo caso di conflitto, che è scoppiato per impedire il perpetuarsi di crimini contro l'umanità ma che non ha ricevuto l'approvazione dell'O.N.U., seguita dall'altrettanto tragica guerra in Iraq del 2003, che è ancor oggi causa della morte di migliaia di innocenti. E’ proprio il tentativo di sensibilizzare le coscienze dei dirigenti sull’importanza di attuare la giustizia sociale che induce Wang a rivalutare il socialismo. L’ideologia socialista, infatti, è caratterizzata dall’esaltazione dell’uguaglianza sociale e dell’equità, di conseguenza gli intellettuali si sono appellati ad essa per denunciare la corruttela dell’establishment, sia prima che dopo il 1978. Per capire fino a che punto i problemi emersi in Cina dopo l’apertura al mercato siano parte integrante di una crisi mondiale della modernità bisogna sottoporre ad una critica serrata, non solo la storia recente della Cina, ma anche quella del capitalismo europeo e della sua espansione nel globo. Lo scopo di questa analisi non è quello di rifiutare in toto l’esperienza della modernità, ma quello di eliminare il feticismo nutrito nei confronti dell’Occidente ed utilizzare la storia della Cina e di altre società per rinnovare il processo di modernizzazione e tentare di rimediare ai danni prodotti dalla globalizzazione. Da ciò si evince che, secondo Wang, il cammino verso il progresso e la crescita economica deve essere incoraggiato, ma è necessario modificare le modalità che lo hanno gestito sinora per evitare che il mondo cada in uno stato di crisi irreversibile. Sulla stessa direttrice si muove anche Cui Zhiyuan, a cui Wang Hui riserva particolari elogi. A quegli intellettuali che sostengono che l’unica strada percorribile verso la modernità sia la combinazione tra la democrazia liberale e il capitalismo neoclassico, Cui ribatte che non esiste un modello unico di liberismo (il Giappone, la Germania, gli U.S.A. percorrono strade diverse) e che tale modello sta svelando i suoi risvolti negativi, come sostengono molti intellettuali occidentali. Come altri membri della “nuova sinistra” della tradizione maoista, egli rifiuta sia le mobilitazioni di massa sia il rigido apparato burocratico associato all’economia pianificata, ma valuta positivamente l’esperienza rivoluzionaria per la carica di energia e di innovazione che l’hanno accompagnata. In particolare, egli ritiene che la dottrina maoista, privata dei suoi eccessi, sia in grado di fornire una base per l’instaurazione della democrazia economica in Cina. Questa sua idea deriva da uno studio attento del villaggio di Nanjie, nella provincia dello Henan. A metà anni ’90 tale villaggio è diventato oggetto di un acceso dibattito perché ha raggiunto il benessere economico rispettando il pensiero di Mao Zedong e senza fare ricorso alla proprietà privata. Secondo Cui, Nanjie testimonia come sia possibile trovare un compromesso tra l’eredità di Mao e l’economia di mercato, ottenendo allo stesso tempo giustizia sociale ed efficienza economica (26) . La sua critica del liberismo e il sostegno accordato alla causa maoista sono parte integrante del distacco dalla tradizione del 4 maggio 1919, che ha coinvolto anche gli intellettuali della ‘nuova sinistra’ che esprimono posizioni ancor più radicali. Essi, tra i quali ricordiamo Han Yuhai, non si limitano a criticare le principali storture della globalizzazione ma condannano duramente l’intero fenomeno, identificandolo con l’occidentalizzazione o addirittura con l’americanizzazione (quanqiuhua jiushi meiguohua) (27) . Proseguendo lungo questa via, la Cina si troverà ben presto sotto il controllo delle multinazionali e sarà irreparabilmente inghiottita nel vortice del capitalismo. E’ proprio contro il dominio di ristrette oligarchie finanziarie e politiche che si scagliano questi pensatori. Tale posizione coincide con quelle dei critici occidentali della globalizzazione, tra cui ricordiamo Zygmunt Bauman, James Mittelman, Michael Hardt, Toni Negri, ecc (28) . Analogamente Han Shao Gong, saggista e teorico oltre che scrittore, ha sottolineato come in realtà il colonialismo ai danni dei cosiddetti ‘paesi del Terzo Mondo’ non sia finito all’inizio del ’900 ma abbia mutato forma, trasformandosi in egemonia culturale detenuta soprattutto dagli U.S.A. (29) . A suo parere i modelli culturali importati dall’Occidente tramite i mass media non fanno altro che alimentare la disaffezione dallo studio, dal lavoro, dai valori basilari su cui si fonda una società stabile e forte. L’unico rimedio contro ciò che lui chiama ‘capitalismo massmediatico’ (chuanmei zibenzhuyi) è il nazionalismo. Tuttavia Han Shao Gong mette in guardia dalle insidie del nazionalismo che, se portato agli estremi, si trasforma in fondamentalismo, come si è verificato in Bosnia, in Cecenia, ecc (30) . Nonostante l’impegno intellettuale dei suoi membri, la ‘nuova sinistra’ è composta da una ristretta minoranza che deve fronteggiare quotidianamente la sfida del consumismo. Il contesto in cui opera, fondato sulla corsa all’arricchimento, contribuisce a vanificare i suoi sforzi di proporre un’alternativa all’occidentalizzazione dilagante. Come sottolineano il sociologo italiano Luciano Gallino, il sociologo francese Pierre Bourdieu ed altri, le decisioni consapevoli delle maggiori potenze mondiali di accelerare sempre più la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la riduzione in numerosi settori (sanità, previdenza, istruzione, ecc.), dell’intervento dello Stato e l’omologazione culturale produrranno benefici di cui si avvantaggeranno soltanto i più ricchi (31) . Tale processo appare ormai inarrestabile e privo di vie d’uscita poiché è troppo ampia la trama di interessi che lo alimentano. Tuttavia, proprio per questo motivo l’attività di gruppi come quello della ‘nuova sinistra’ in Cina è fondamentale. Essi costituiscono una sorta di coscienza critica della globalizzazione poiché contribuiscono a metterne in evidenza gli eccessi e perché cercano di proporre delle correzioni al suo andamento, giungendo sino ad elaborare delle alternative. Il liberalismo (ziyouzhuyi) Improntata all’esaltazione del capitalismo e delle sue conquiste è invece la corrente liberale (ziyouzhuyi). L’interesse nei confronti del liberalismo occidentale si è diffuso in Cina durante gli anni ’80, grazie alle traduzioni delle opere di pensatori come James Locke, Jean Jacques Rousseau, Karl Popper, F.A. von Hayek e Francis Fukuyama. Esso, inoltre, affonda le proprie radici nella tradizione illuministica del Movimento del 4 maggio 1919, che inneggiava alla vittoria della scienza e della democrazia contro l’oscurantismo e alla distruzione del patrimonio culturale confuciano considerato il principale ostacolo al progresso del paese. Di conseguenza i suoi membri hanno sostenuto strenuamente la politica di riforma e apertura di Deng Xiaoping, che implicava non solo l’ingresso nel circuito economico, politico e culturale mondiale ma anche la revisione di alcune pratiche del vecchio ordine di stampo marxista-leninista, come la pianificazione del settore economico. Sotto l’influenza ideologica occidentale e soprattutto americana, i gruppi liberali cinesi hanno estremizzato le loro posizioni. Le sporadiche richieste di innovazione sono diventate sempre più pressanti sul finire degli anni ’80, fomentate dalla constatazione del crescente divario tra ricchi e poveri e della corruzione dilagante. Le espressioni di disagio hanno raggiunto il culmine con le manifestazioni dell’aprile-giugno del 1989 in piazza Tien-an Men, che hanno complicato notevolmente i rapporti tra governo e liberali. I provvedimenti restrittivi applicati all’indomani dell’attacco delle truppe contro i manifestanti hanno costretto alcuni intellettuali ad abbandonare la Cina, altri a chiudersi nel silenzio, immergendosi in attività prive di connotazioni politiche. La distensione verificatasi dopo il viaggio di Deng Xiaoping nel Sud del Paese (32) ha consentito ad un ristretto numero di studiosi di porre nuovamente l’accento sulla necessità del cambiamento, sebbene in maniera moderata e nell’ambito di circuiti ben definiti, come riviste specifiche e circoli accademici (33) . Inoltre, nel corso degli anni ’90 l’ideologia socialista ha subito delle spinte sempre più forti verso il rinnovamento. Queste sollecitazioni provenivano dall’Occidente, che affiancava al successo economico di matrice capitalista l’ostilità contro il comunismo radicata negli ambienti politici e culturali di destra. foto ansa Galvanizzati dalle influenze occidentali, i liberali hanno iniziato a mettere in dubbio la legittimità del partito nel guidare il paese nella fase di transizione verso il mercato libero. Uno degli obiettivi fondamentali del liberalismo è diventato quindi quello di trasformare radicalmente la struttura socioeconomica e politica cinese, ispirandosi al neoconservatorismo dell’era Reagan-Thatcher. Più in generale, gli intellettuali liberali hanno avviato un processo di rivalutazione della mobilità del capitale globale, presentando la sua supremazia come la vittoria della civiltà sull’ignoranza nella lotta tra le forze della modernizzazione e quelle del sottosviluppo (34) . L’incontro con l’ideologia di Margaret Thatcher e di Ronald Regan ha indotto alcuni studiosi a indicare questa corrente con il termine ‘neoliberismo’ (35) . Tra i suoi massimi esponenti ricordiamo Li Shenzhi, che è direttore dell’Istituto di Studi Americani presso l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali e uno degli intellettuali più rispettati in Cina grazie alla sua ottima conoscenza sia del patrimonio culturale cinese sia di quello occidentale. Egli dichiara di essere un discendente diretto della tradizione illuministica del Movimento del 4 maggio ed afferma che gli obiettivi che lo hanno caratterizzato, tra cui il trionfo della democrazia e del diritto all’autodeterminazione dell’individuo, non sono stati ancora realizzati (36) . Allo scopo di dimostrare che valori quali l’individualismo, i diritti umani, la reciproca tolleranza non sono patrimonio esclusivo del liberalismo occidentale ma sono parte integrante del 4 maggio, egli fa riferimento alle opere degli intellettuali più rappresentativi di quel movimento, come Chen Duxiu, Cai Yuanpei, Lu Xun e Hu Shi (37) . Questa rivalutazione dei cardini del 4 maggio non rappresenta soltanto una replica all’importanza attribuita dalla “nuova sinistra” al collettivismo ma costituisce anche una sorta di controffensiva nei confronti del partito, che tende a sminuirne la portata considerandolo una semplice manifestazione di patriottismo contro l’invasione giapponese. Li Shenzhi afferma che l’ideologia dei promotori del 4 maggio è nata dalla fusione tra il pensiero cinese e il liberalismo occidentale ed è una chiara manifestazione dell’ingresso graduale della Cina nel mondo. Tale riflessione lo ha portato ad assumere un atteggiamento positivo nei confronti della globalizzazione. A differenza della “nuova sinistra”, che mette in evidenza gli aspetti negativi di questo fenomeno, Li sostiene che gli eventi verificatisi tra il 1989 e il 1992 possono essere interpretati come le forze dell’informazione che costringono la Cina ad uscire dal suo isolamento (38) . Dunque la reazione più appropriata alla globalizzazione non è alimentare fervori nazionalistici ma prodigarsi per favorire la modernizzazione del paese. A preoccupare Li è soprattutto la tendenza del gruppo della “nuova sinistra” e dei nazionalisti in generale a sopravvalutare i progressi compiuti dalla Cina nell’era maoista. Egli reputa arroganti e presuntuosi coloro che affermano di poter salvare il mondo attraverso il patrimonio culturale e storico cinese. Al contempo egli è cosciente delle gravi ripercussioni che la globalizzazione può generare ma è convinto che i benefici saranno più numerosi dei danni. A suo parere la globalizzazione garantirà lo sviluppo economico e porterà alla nascita di una classe media, una vera e propria rivoluzione nella struttura sociale cinese. Solo questo mutamento epocale sarà in grado di creare le basi per la germogliazione della legge e della democrazia. Proprio per rispondere alle sfide del nuovo contesto globale Li sottolinea la necessità di realizzare delle riforme politiche radicali. Egli afferma che il più grande difetto del paese è la violazione dei diritti umani. Migliorare l’apparato legislativo consentirà di imprimere una svolta epocale alla politica del paese, consentendo alla Cina di ottenere il rispetto del mondo. Stare al passo con la globalizzazione significa quindi fondare delle istituzioni che siano compatibili con questo processo e non fare affidamento solo ed esclusivamente sull’economia. Solo in questo modo la Cina otterrà un rapporto paritario con le altre potenze mondiali e potrà contribuire alla costruzione di un nuovo ordine morale attraverso la diffusione dei valori fondamentali del confucianesimo. Li rappresenta la vecchia guardia del liberalismo. Mentre gli esponenti della vecchia generazione sono stati influenzati in misura minore dalla tradizione occidentale, i più giovani vi hanno attinto ampiamente. Così, i liberali degli anni ’80 hanno fatto riferimento ai “Manoscritti economici e filosofici” di Marx, agli scritti dei riformisti dell’Europa orientale e alle idee socialiste, i liberali degli anni ’90 hanno studiato ampiamente pensatori conservatori come Frederick von Hayek, Ayn Rand e Milton Friedman e pensatori liberali come Isaiah Berlin, Alexis de Tocqueville e James Madison. Tra i giovani intellettuali emersi negli ultimi anni spicca Liu Junning, curatore della principale rivista liberale cinese “Res Publica” (Gonggong luncong) e ricercatore presso l’Istituto di Politica dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali fino al 2000, quando è stato costretto a dimettersi a causa dell’irrigidimento del clima culturale. A lui si affianca Qin Hui, professore presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Qinghua di Pechino. Liu crede fermamente che l’espansione del capitalismo permetterà la progressiva eliminazione delle differenze eclatanti tra ricchi e poveri e di tutti i privilegi di cui gode l’élite. Qin condivide questa posizione ma sottolinea la necessità di affiancare ad una globalizzazione puramente economica la globalizzazione della democrazia, dell’assistenza sociale e dell’informazione. Egli sostiene che la liberalizzazione del mercato è un processo che coinvolge inevitabilmente i settori della politica, della società e della cultura ed è quindi impensabile trascurare le ripercussioni che esso produce in tali campi (39) . In questa prospettiva attuare una globalizzazione esclusivamente economica significherebbe provocare la nascita di gravi squilibri (40) . Qin riflette con grande lucidità anche sulla politica internazionale. Egli nota che l’America è attualmente bersaglio di aspre critiche perché si considera una sorta di polizia internazionale ed utilizza il pretesto della “difesa dei diritti umani” per perseguire i propri interessi. A suo parere questo giudizio ha una sua logica. Tuttavia impedire ad uno stato di tenere sotto controllo l’umanità significa permettere ad ogni paese (dittature incluse) di agire liberamente, facendo piombare il mondo nel caos (41) . Per evitare una simile degenerazione bisogna fare ricorso al liberalismo, sistema nel quale i diritti umani, la libertà e la democrazia sono superiori al profitto (42) . Sebbene la Cina non sarà in grado di sostenere i consumi elevati che caratterizzano le democrazie occidentali, tuttavia potrà avvantaggiarsi dei suoi benefici (43) . Secondo Qin infatti la maggior parte dei problemi cinesi, inclusi lo scontro tra etnie, la penuria di risorse naturali e finanziarie, sono causati essenzialmente dalla stagnazione del processo democratico (44) . Da questo resoconto si evince che i liberali cinesi pongono l’accento sugli aspetti positivi della globalizzazione sebbene siano consapevoli dei suoi limiti. Questa visione li accomuna ai loro colleghi d’oltreoceano, tra cui ricordiamo Anthony Giddens e Kenichi Ohmae (45) . A loro parere, tre secoli di industrialismo e modernizzazione hanno conseguito ottimi risultati in Occidente, generando, oltre ad un elevato livello di benessere economico, fenomeni come la rivoluzione informatica, la proclamazione dei diritti dell’uomo, la secolarizzazione, la diffusione del liberalismo e del libero mercato. In quest’ottica la globalizzazione non è considerata solo un fenomeno vantaggioso ma anche auspicabile poiché, nonostante i suoi difetti, ha migliorato le condizioni di vita della popolazione globale. Principali differenze tra la “nuova sinistra” e il “liberalismo” Come abbiamo illustrato nei paragrafi precedenti, le posizioni assunte dagli schieramenti della “nuova sinistra” e del “liberalismo” sono sostanzialmente inconciliabili. Questa contrapposizione deriva innanzi tutto dalla loro analisi divergente del rapporto tra capitalismo e potere. I membri della “nuova sinistra” sono fortemente critici nei confronti della crescente commistione tra politica ed economia e non credono alla concezione del capitalismo come rimedio a tutti i mali del paese. La più grande accusa che essi muovono ai liberali è infatti quella di non tener conto della giustizia sociale nella loro richiesta di estendere la proprietà privata. Invece i liberali sono convinti che gli esponenti della “nuova sinistra” abbiano voltato le spalle alla tradizione illuministica del 4 maggio. Essi trascurano valori come l’individualismo e la democrazia che sono essenziali per realizzare delle riforme economiche e politiche efficaci e pongono esclusivamente l’accento sulle esigenze della collettività, rispolverando la dottrina maoista. Questa loro tendenza è funzionale alla politica del governo, che oscilla tra apertura al capitalismo e ripetute conferme della propria fedeltà al maoismo. Per questo motivo, i liberali li accusano di collaborare più o meno apertamente con l’establishment (46) . Un altro motivo del contendere è stato l’ingresso della Cina nel W.T.O., che ha prodotto delle reazioni opposte nelle due correnti. Sulla base degli sviluppi delle trattative, la “nuova sinistra” ha criticato duramente il primo ministro Zhu Rongji (47) e l’intera leadership cinese per l’atteggiamento eccessivamente accondiscendente nei confronti delle richieste e delle condizioni imposte dagli U.S.A. Ad esempio, la Cina ha concesso l’assenza di divieti nei confronti dell’attività commerciale delle società straniere dopo tre anni di permanenza nel paese. L’ostacolo maggiore era tuttavia rappresentato dall’ingresso nel mercato cinese dei prodotti agricoli statunitensi. La Cina ha cercato di mantenere la propria condizione di “developing country” per avere diritto a sussidi più cospicui per finanziare l’incremento della produzione agricola interna (tali sussidi arrivano fino al 10% del valore della produzione). Per tutta risposta gli U.S.A. hanno chiesto il rispetto del limite del 5%, che è di norma destinato ai paesi industrializzati. Infine è stato raggiunto un compromesso: i sostegni oscilleranno tra il 7 e l’8,5% del valore di produzione a seconda dei prodotti e delle aree coltivate (48) . Secondo la “nuova sinistra”, tale condotta remissiva riflette la propensione del governo a parteggiare per l’America e per l’Occidente (qinMei qinxifang) (49) , dimenticando gli interessi della madrepatria. Cui Zhiyuan ha affermato che in queste condizioni i benefici dell’accesso al W.T.O. sono ridotti e che invece il prezzo da pagare è molto alto. Per esempio, poiché questa istituzione protegge i diritti della proprietà intellettuale straniera, il settore cinese dell’high-tech ne risulterebbe svantaggiato. Inoltre la presenza nel W.T.O. costringerebbe il mercato finanziario cinese ad aprirsi ulteriormente, impedendo al paese di utilizzare l’espediente del controllo del capitale in caso di eventi catastrofici come la crisi asiatica. foto ansa Ormai è opinione diffusa che gli U.S.A. abbiano deciso di ammettere la Cina nel W.T.O. dopo ben quindici anni di tentennamenti perché la strategia della globalizzazione ha incontrato enormi difficoltà nel 1998: il Giappone ha chiesto degli aiuti per i paesi più duramente colpiti dalla crisi finanziaria del 1997, Hong Kong ha respinto l’assalto degli speculatori stranieri, la Malesia ha annunciato l’avvio del controllo sui capitali, ecc. Il W.T.O. è dunque concepito come una rete che permette all’Occidente e soprattutto agli U.S.A. di controllare in maniera sempre più capillare l’economia globale. Entrare nel W.T.O. significa offrire agli U.S.A. la possibilità di interferire a piacimento nelle questioni interne della Cina (50) . Al contrario gli intellettuali liberali hanno sempre appoggiato l’entrata nel W.T.O. Ad esempio Liu Jiunning ha affermato che questo evento produrrà numerosi effetti positivi: la separazione tra politica ed economia, l’aumento della trasparenza nelle transazioni economiche e negli accordi politici, l’ampliamento dell’apparato legislativo e la riduzione della corruzione. Tale carta deve essere dunque sfruttata prontamente dal governo per consentire al paese di mettersi al passo con le potenze occidentali. Conclusioni Dall’analisi del dibattito sulla globalizzazione in Cina è possibile comprendere le reazioni degli intellettuali alle grandi trasformazioni prodotte dall’espansione del mercato globale in un paese in continua tensione tra la corsa verso la modernità e il rispetto della propria tradizione storica e culturale. Nonostante il frequente riferimento alle scuole di pensiero occidentali, essi sono riusciti ad analizzare i problemi che affliggono il paese in maniera attenta e puntuale, abbozzando delle soluzioni originali che rivelano il tentativo di coniugare le esigenze del “continente” Cina con le forti pressioni esterne. Entrambi gli schieramenti ritengono che abbandonare la globalizzazione non sarebbe un’opzione praticabile perché l’intreccio di interessi che la sostiene è impossibile da sciogliere. Tale inversione di rotta non sarebbe neanche auspicabile perché questo fenomeno non ha prodotto solo dei problemi ma anche dei vantaggi. E’ quindi necessario riformarlo, ma per realizzare un obiettivo così ambizioso è necessaria una presa di coscienza globale della pericolosità insita nelle sue modalità di gestione. In tal senso l’opera di divulgazione e di sensibilizzazione svolta dagli intellettuali cinesi e da quelli occidentali è fondamentale. In un mondo alle prese con una delle più grandi crisi della sua storia, elaborare delle soluzioni e indurre i cittadini globali a riflettere sui processi in atto è un dovere morale degli intellettuali. Particolarmente degna di attenzione è la proposta di Wang Hui e dei componenti della “nuova sinistra”. Nel promuovere il recupero dell’ideologia maoista essi arricchiscono il panorama intellettuale mondiale del contributo di una nazione che ha superato molte crisi adattandosi alle circostanze senza però perdere di vista la propria storia e la propria tradizione. Ed è proprio al suo patrimonio storico e culturale che la Cina deve aggrapparsi per evitare di essere travolta dall’ondata della globalizzazione e dalle sue contraddizioni interne, dimostrando la propria competitività non solo in campo economico ma anche in quello ideologico. |
(1) Cfr. Maurizio Marinelli, Gli intellettuali cinesi e il dibattito sulla globalizzazione , in Mondo Cinese 110, gennaio-marzo 2002, anno XXX, n.1, pp.40-41.
(2) Cfr. Marie-Claire Bergère, La République populaire de Chine de 1949 à nos jours , 1° ed., Armand Colin, 1989 (3° ed. 2000), tr.it. di Giorgia Viano Marogna, La Repubblica popolare cinese (1949-1999), Bologna, Il Mulino, 2000, pp.372 e 381. (3) Angela Pascucci, “Economia 2005, che mondo farà”, Il Manifesto, 7-1-2005, www.ilmanifesto.it.. (4) Cfr. idem. (5) Cfr. Joseph Fewsmith, China since Tiananmen - The Politics of Transition, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, p.143. (6) Cfr. Merle Goldman and Leo Ou-Fan Lee, An Intellectual History of Modern China, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp.505-506 e pp.526-527. (7) Cfr. Merle Goldman and Leo Ou-Fan Lee, op.cit., p.527 e Joseph Fewsmith, op.cit., pp.154-156. (8) Cfr. Wang Hui, “Dangdai Zhonguo de sixiang zhuangkuang wenti yu xiandaixing wenti” (Il pensiero cinese contemporaneo e la questione della modernità), in Tianya ·, 1997, n.5, p.134. Per la traduzione ho fatto riferimento alla versione in inglese di Theodore Huters, “Contemporary Chinese Thought and the Question of Modernity”, in Wang Hui and Theodore Huters, China’s New Order, – Society, Politics, and Economy in Transition, Cambridge, Harward University Press, 2003, p.144. (9) Cfr. Wang Hui and Theodore Huters, op.cit., pp.142-143. (10) Cfr. Danilo Zolo, Globalizzazione – Una mappa dei problemi, Bari, Gius. Laterza & Figli Spa, 2004, pp.15-17. (11) L’espressione “Movimento del 4 maggio 1919” si riferisce alle manifestazioni organizzate il 4 maggio 1919 a Pechino contro le dure condizioni imposte alla Cina dal Trattato di Versailles, che sancì la fine della Prima Guerra Mondiale; si riferisce anche al fermento culturale che ne seguì, caratterizzato dall’adozione dei modelli occidentali come forma di rottura con la tradizione confuciana, considerata la causa principale dell’arretratezza del paese. Si ritiene che da questo movimento nacque la Cina moderna (cfr. Jonathan Spence, The Search for Modern China, New York, W.W.Norton, 1990, pp.299-308). (12) Cfr. Danilo Zolo, op.cit., pp.111-113. (13) Il termine neoliberismo e i suoi derivati indicano il progressivo avvicinamento degli intellettuali liberali cinesi degli anni’80 al neoliberismo occidentale, che promuove la diffusione del capitale globale e della deregolamentazione rifiutando ogni forma di estremismo. Tale dottrina corrisponde al pensiero conservatore e moderato di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher (cfr. Xudong Zhang, op.cit., pp.16-28). Alcuni studiosi come usano il termine “neoliberisti” per riferirsi ai fautori del libero mercato degli anni’90 (cfr. Wang Hui and Theodore Huters, op.cit., p.27), altri usano il termine “liberisti” senza distinzioni tra gli intellettuali degli anni’80 e quelli degli anni’90 (cfr. Maurizio Marinelli, art.cit., pp.42-43), altri usano il termine più generico “liberali” (cfr. Joseph Fewsmith, op.cit., pp.122-131). (14) Cfr. nota 8, pp.3-4. (15) Cfr. Wang Hui··,art.cit., p.135. (16) Cfr. idem, pp.135-136. (17) Il Grande Balzo in avanti (1958-1960) è stata una politica economica che mirava a sviluppare in tempi brevi i settori dell’agricoltura e dell’industria attraverso la mobilitazione generale della popolazione. L’obiettivo era molto ambizioso: aumentare la produzione al punto tale da “superare l’Inghilterra in quindici anni”. A causa degli errori di gestione, questa strategia ha causato milioni di morti e un ritardo di circa un decennio nella marcia del paese verso la modernizzazione (Cfr. Marie-Claire Bergère, op.cit., pp.110-111). (18) Cfr. Wang Hui··, art.cit., p.136. (19) fr. Tony Saich, Governance and Politics of China, New York, Palgrave, 2001, p.52. (20) Cfr. Wen Tie Jun, Wang Hui, Qin Hui, “Zhongguo neng fou zouchu yitiao dute de daolu” (La Cina può percorrere una via alternativa oppure no), in Tianya , 2003, n. 4, p.57. (21) Cfr. Wang Hui and Theodore Huters, op.cit., p.118 e p.128. (22) Cfr. idem, p.128. (23) Cfr. Danilo Zolo, op.cit., p.23. (24) Cfr. idem, p.127. (25) Cfr. Danilo Zolo, op.cit., pp.113-135. (26) Cfr. Joseph Fewsmith, op.cit., pp.118-122. (27) Cfr. Maurizio Marinelli, art.cit., p.42. (28) Cfr. Danilo Zolo, op.cit., pp.15-17. (29) Cfr. Han Shao Gong, “Dier ji lishi - ‘Ku’de wenhua xiandai zhi er (Il secondo livello della storia - la modernità culturale di essere cool), Dushu, 1998, n.3, p.49. (30) Cfr. idem, pp. 51-52. (31) Cfr. idem, pp.8-9. (32) Nel 1992 il presidente della Repubblica Popolare Cinese Deng Xiaoping compì un viaggio nel Sud della Cina durante il quale rilanciò la riforma economica sospesa dopo l’incidente di piazza Tian-an Men del 1989 (cfr. Marie-Claire Bergère, op.cit., pp.374-75). (33) Cfr. Joseph Fewsmith, op.cit., pp.122-123. (34) Cfr. Maurizio Marinelli, art.cit., p.43. (35) Cfr. nota 13, p.6. (36) Cfr. Li Shenzhi, “Reignite the Torch of Enlightenment – In Commemoration of the Eightieth Anniversary of the May Fourth Movement”, in Contemporary Chinese Thought, vol.33, n.2, Winter 2001-2002, p.15. (37) Cfr. Joseph Fewsmith, op.cit., pp.123-124. (38) Cfr. idem, p.125. (39) Cfr. Qin Hui, “Duoyuanhua de quanqiuhua” (La molteplicità della globalizzazione), in Ershiyishiji , 2003, n.2, p.139. (40) Cfr. idem, p.138. (41) Cfr. idem, p.139. (42) Cfr. Wen Tie Jun, Wang Hui, Qin Hui, art.cit, p.56. (43) Cfr. idem, p.60. (44) Cfr. idem, p.62. (45) Cfr. Danilo Zolo, op.cit., pp.4-5 e p.14. (46) Cfr. Xudong Zhang, op.cit., pp.54-55 e Joseph Fewsmith, op.cit., pp.128-131. (47) Zhu Rongji assume le funzioni di primo ministro nel 1998 e accorda la priorità alla ristrutturazione delle imprese di stato e all’apertura al mercato internazionale (cfr. Marie –Claire Bergère, op.cit., p.483). Attualmente questa carica è ricoperta da Wen Jiabao. (48) Cfr. Romeo Orlandi, “L’adesione della Cina al W.T.O.”, in Mondo Cinese 108, luglio-settembre 2001, anno XXIX, n.3, p.28. (49) Cfr. Joseph Fewsmith, op.cit., p.215. (50) Cfr. idem, pp.214-217 e Joseph Fewsmith, “The Political and Social Implications of China’s Accession to the W.T.O.”, in The China Quarterly, September 2001, n.167, pp.573-591. |