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GNOSIS 2/2005
Terrorismo internazionale
verso una risposta giudiziaria globale


Stefano DAMBRUOSO

Per raccogliere e contrastare la sfida lanciata dal terrorismo fondamentalista servono anche, e soprattutto, strumenti giuridici adeguati, efficaci e coordinati. L’articolata disamina delle innovazioni normative introdotte in Italia nel post-11 settembre, il confronto con le altre legislazioni europee, l’esame delle problematiche emerse a livello di cooperazione internazionale e l’individuazione di specifici ‘nodi’ (quali, ad esempio, le attività sotto copertura e l’utilizzo dei collaboratori) mostrano che molto è stato fatto, ma evidenziano anche alcune - seppur circoscritte - ‘debolezze’ di sistema, che l’autore auspica possano essere tempestivamente superate attraverso una più funzionale armonizzazione della legislazione antiterrorismo in ambito comunitario.


Nella lotta contro il terrorismo di matrice fondamentalista si ha spesso la sensazione di procedere a tentoni o, per meglio dire, attraverso tentativi, errori e correzioni. Le democrazie occidentali stanno letteralmente imparando a declinare il concetto di sicurezza in un modo che sia appropriato alla sfida mortale lanciata loro dall’11 settembre 2001.
E’ una sfida che non possiamo non raccogliere, pena la rinuncia ai valori più alti nei quali crediamo: la libertà, la democrazia, la tolleranza, l’autonomia della legittimità politica rispetto ad altre, diverse appartenenze etniche o religiose. E’ inutile nascondersi che la lotta sarà lunga. La nuova minaccia ci costringe ad abbandonare “i dogmi del tranquillo passato” anche nei confronti del concetto di sicurezza. Oggi quest’ultima è sottoposta a una minaccia diffusa e pervasiva, alla quale è necessario controbattere attraverso un’azione diversificata. Bisogna essere in grado di rispondere tempestivamente un attimo prima che la minaccia sia compiutamente formata, o stia per colpire.
Dopo l’11 settembre uno degli insegnamenti recepiti da tutti gli appartenenti al “Law Enforcement” dei vari paesi (e tra questi sicuramente l’Italia) da tempo attivi nel campo della prevenzione e repressione del terrorismo islamico è stato quello per cui non vi devono più essere remore o preclusioni allo scambio di informazioni utili per il reciproco e collettivo prosieguo ed avanzamento delle indagini contro cellule organizzate appartenenti ad associazioni internazionali terroristiche. Né appaiono più ammissibili sottovalutazioni del fenomeno come invece accaduto in Europa sino a tutto l’11 settembre 2001.
Potrebbe allora risultare utile trattare, di seguito, alcune delle problematiche giuridiche che sovente si presentano nel corso delle indagini e dei dibattimenti relativi all’attività criminale posta in essere da appartenenti ad associazioni terroristiche islamiche.

Problemi interpretativi
dell’art. 270 bis c.p. novellato


La legge 15 dicembre 2001, n. 438, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 18 ottobre 2001, n. 374, recante disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale, avrebbe dovuto soddisfare, nell’intenzione del Legislatore, l’esigenza di dotare l’ordinamento giuridico italiano di una fattispecie penale idonea a reprimere le attività di gruppi terroristici internazionali radicatisi sul nostro territorio.
L’Italia infatti era uno dei non pochi paesi europei privi di strumenti repressivi di fenomeni criminali inquadrabili nel concetto di ‘terrorismo internazionale’ e poteva accadere che fosse, nella considerazione dei ‘terroristi islamici’, un Paese preferibile ad altri (in particolare, da parte di movimenti integralisti con un progetto di internazionalismo islamico).


foto ansa

La nuova formulazione dell’art. 270 bis c.p. sembra prospettare due modalità di manifestazione dell’associazione eversiva:
- l’associazione che si propone l’uso della ‘lotta armata’ per scardinare l’ordinamento costituzionale e democratico interno dello Stato italiano, indipendentemente dall’utilizzo di metodi terroristici e dal raggiungimento di finalità terroristiche che pure possono concorrere (c.d. movimenti eversivi);
- l’associazione ‘terroristica’ che si propone il compimento di atti violenti con l’esclusiva finalità terroristica avente come obiettivo lo Stato Italiano (cd. terrorismo interno) ovvero Stati esteri, istituzioni o organismi internazionali (cd. terrorismo internazionale).
La configurazione della nuova associazione terroristica internazionale colma, quindi, un vuoto normativo che era stato da tempo posto in evidenza dalle pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Con la precedente formulazione dell’art. 270 bis c.p. in pratica non si potevano perseguire le attività di organizzazioni clandestine, operanti anche se solo in parte nel territorio italiano, il cui programma di violenza armata, tuttavia, riguardasse altri Stati. A tali fattispecie era possibile applicare solo la norma ex art. 416 c.p. nel caso in cui avessero commesso fatti penalmente rilevanti sul nostro territorio come reati fine dell’associazione semplice (ad esempio, ricettazione, falsificazione di documenti, favoreggiamento all’immigrazione clandestina, etc.).
Va detto anche che nello stesso corpo dell’art. 270 bis c.p. antecedente la novella del 2001 non si faceva alcun riferimento al terrorismo (solo in rubrica vi era un riferimento) ma solo all’’eversione’, ed anche nell’esperienza applicativa degli anni in cui maggiormente si è fatto ricorso all’uso della norma (anni ‘80 - inizio anni ‘90), la maggior parte delle organizzazioni perseguite miravano a sovvertire l’ordine democratico del nostro Paese, scardinandone i principi basilari fissati nella Carta Costituzionale.
Al riguardo, una Sentenza della Suprema Corte intervenendo per la prima volta sulla novella legislativa del 2001, ha ribadito che si può essere perseguiti per atti di terrorismo internazionale ma non per eversione di uno Stato estero. Costituisce finalità di terrorismo, secondo la Cassazione, “incutere timore nella Collettività con azioni criminose indiscriminate”, mentre per eversione si intende “il fine più ristretto di sovvertire l’ordinamento costituzionale e di travolgere l’assetto pluralistico e democratico dello Stato, disarticolandone la struttura, impedendone il funzionamento o deviandolo dai principi fondamentali”. I Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto che con la recente legge si è inteso estendere la punibilità soltanto alle associazioni con finalità di terrorismo internazionale, ma non a quelle che hanno finalità eversive ai danni di uno Stato estero; e tanto per ragioni di opportunità politica, così come per motivi di diritto interno ed internazionale. L’eversione dell’ordine democratico implica e presuppone un assetto pluralistico e democratico dello Stato e nessun ordinamento potrebbe tollerare che la democraticità del proprio assetto istituzionale e sociale sia sindacabile da parte di un giudice straniero.
Nel caso di specie si trattava di due cittadini italiani accusati di avere, insieme ad altri, costituito ed organizzato un’associazione finalizzata al sovvertimento dell’ordine costituzionale di alcuni Stati esteri, nel loro territorio provvedendo a reclutare, per conseguire il loro scopo, personale addestrato e aver procurato finanziamenti per preparare ed eseguire le azioni militari programmate in Birmania e nelle isole Commodore.
Va chiaramente evidenziato che il Legislatore non ha proceduto a tipizzare il concetto di terrorismo, rimettendo all’interprete la concreta individuazione delle condotte da perseguire come ‘attività terroristica’. L’evidente contenuto sociologico-politico che il concetto di terrorismo richiama rende necessaria un’applicazione flessibile del principio di tassatività, che difficilmente potrebbe soddisfare l’esigenza di punire le condotte più eterogenee ed ancora per certi versi non prevedibili proprio perché il fenomeno ha caratteristiche di novità non solo giuridiche.
E’ evidente che l’ampio spazio interpretativo può consentire - in una fase iniziale di ricerca di una stabilità giurisprudenziale - anche pronunce che appaiono fortemente stridenti rispetto allo spirito-intenzione del Legislatore, così come peraltro desumibile dai lavori parlamentari relativi alla legge stessa. Non può infatti essere ignorato, nell’interpretare la legge, che questa è stata promulgata a seguito dell’11 settembre 2001, recependo - grazie all’accelerazione data dalle vicende di quei giorni - le sollecitazioni dei tanti operatori giudiziari (magistrati e polizia giudiziaria) che avevano da tempo già dovuto contrastare episodi riconducibili al terrorismo islamico non avendo però lo strumento legislativo che punisse ad hoc tali condotte.
E come in altre esperienze di elaborazione giurisprudenziale di concetti dal contenuto necessariamente ‘aperto’ è anche possibile riscontrare sentenze dal contenuto non corrispondente a quanto la generalità degli operatori si aspettavano a seguito dell’introduzione della norma con la novella dell’art. 270 bis.
Una interessante pronuncia del GUP di Milano del gennaio 2005 consente anche di trattare sinteticamente il problema relativo alla valutazione giuridica da dare a quelle condotte, accertate anche in recenti indagini nel nostro Paese, di persone che organizzavano la spedizione di interi gruppi di combattenti per supportare l’esercito iracheno nel recente conflitto del marzo 2003.
Nella sentenza tali condotte vengono ritenute non penalmente rilevanti perché troverebbero un’esimente nella definizione – utile ai meri fini ermeneutici utilizzati dal giudice – desumibile dal progetto di convenzione sul Global Terrorism Act in seno alle Nazioni Unite, i cui lavori, iniziati nel 1999, non hanno ancora oggi trovato soluzione conclusiva perché risulta assai arduo raggiungere il consenso sulla definizione di atto terroristico.
Sinteticamente il dibattito verte intorno alle seguenti tre possibili definizioni di ‘terrorismo’:
- seminare il terrore nella popolazione con atti violenti indiscriminati senza avere un obiettivo eversivo (finalità esclusivamente terroristica);
- agire con finalità eversive mediante atti violenti che colpiscano, ad esempio, una persona per la sua funzione sociale, per quello che rappresenta nelle istituzioni, senza spargere terrore (finalità esclusivamente eversiva);
- agire con entrambe le finalità, allorché la violenza indiscriminata sia finalizzata a minare la fiducia della popolazione nelle istituzioni e nei principi fondamentali dell’ordinamento (finalità terroristico-eversiva).
In seno all’ONU si è deciso allora – per superare il blocco dei lavori – di istituire una commissione di esperti (HIGH Level Panel) per giungere ad una definizione condivisa di atto terroristico.
Secondo il Panel la definizione di terrorismo deve essere articolata attorno ai seguenti elementi:
- le condotte contemplate dalle 12 convenzioni contro il terrorismo;
- la definizione di atto terroristico contenuta nella risoluzione 1566 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU;
- la definizione di terrorismo contenuta nelle convenzioni e protocolli di Ginevra;
- ogni altro atto destinato a causare morte o lesione grave ai civili o non combattenti, quando il fine di tali atti per natura o contesto è quello di intimidire una popolazione o di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a fare o omettere qualcosa;
- la definizione contenuta nella Convenzione contro il finanziamento del terrorismo.


foto ansa

Oggi il dibattito è ancora vivo sui seguenti punti: l’inclusione o meno nella definizione di atto terroristico, delle attività commesse da Forze Armate di stati sovrani; il rapporto fra gli stessi atti terroristici e le azioni volte ad affermare il diritto di autodeterminazione dei popoli.
Sulla base di una definizione ancora in fase elaborativa il GUP milanese ha ritenuto gli indagati non terroristi ma guerriglieri, come se appartenenti ad un movimento di liberazione di territori attualmente occupati da uno stato/ coalizione invasore.
La mera attività di adesione ad una guerra, con propria partecipazione, non è in sé - a mio parere - punibile ai sensi dell’art. 270 bis c.p.. Ma se tale condotta viene realizzata da gruppi fondamentalisti islamici già attivi in Italia e che, contestualmente ad altre attività illegali necessarie a supportare finanziariamente e materialmente la propria associazione (raccolta di denaro come provento di spaccio, raccolta di documenti falsi, etc.), abbiano anche svolto l’attività di reclutamento di mujahiddin/kamikaze da spedire in Iraq, allora ritengo che anche questa specifica condotta rientri nella nozione di terrorismo internazionale punita dall’art. 270 bis c.p.: la metodologia kamikaze infatti è diretta indiscriminatamente contro obiettivi anche civili o organizzazioni internazionali (si pensi agli attentati alle sedi delle Nazioni Unite e della Croce Rossa di Bagdad). Né si può sostenere che la ‘guerra santa’ – ‘la loro’ – sia automaticamente rappresentativa di interessi alla liberazione di uno Stato dove la stessa - intesa anche come supporto ad un esercito di un ex governo laico quale quello iracheno di Saddam oggi (ma in un recente passato quello talebano in Afghanistan, ed ancor prima nei Balcani) - venga realizzata. La diversa etnia dei soggetti appartenenti a queste cellule fortemente caratterizzate dal profilo del radicalismo religioso induce ancora ad escludere una co-rappresentatività nell’asserita attività di resistenza.
Ma anche le tecniche normative divergono da Stato a Stato. In Europa, alcuni Stati non hanno neppure norme specifiche in materia di terrorismo e gli atti terroristici sono sanzionati come reati comuni; altri hanno leggi o strumenti giuridici specifici in materia di terrorismo nei quali i termini ‘terrorismo’ o ‘terrorista’ compaiono esplicitamente, senza definizioni. Tale è il caso della Francia, della Germania, dell’Italia (ove, peraltro, si fa anche riferimento alla ‘eversione dell’ordine democratico’), del Portogallo, della Spagna e del Regno Unito. In altri casi si utilizzano, per indicare il fenomeno terrorismo o la finalità terroristica, circonlocuzioni di vario tipo: il codice penale francese fa riferimento ad atti che turbano gravemente l’ordine pubblico con l’intimidazione o il terrore; il codice penale portoghese parla di pregiudizio agli interessi nazionali, di alterazione o sovvertimento del funzionamento delle istituzioni di Stato, di costrizioni nei confronti delle pubbliche autorità e di intimidazioni alle persone o alla popolazione. Il codice penale spagnolo, similmente a quelli francese e portoghese, allude alla finalità di sovvertire l’ordine costituzionale e di turbare gravemente la pace pubblica.
La legislazione del Regno Unito in materia, il Terrorism Act 2000, è probabilmente quella che affronta il tema in modo più esteso e sistematico. Il terrorismo vi è definito come un’azione o una minaccia d’azione mirata a ‘influire sul governo o a intimidire la popolazione o una parte di essa’, come “l’azione o la minaccia d’azione compiuta allo scopo di promuovere una causa politica, religiosa o ideologica”. Tale azione deve comportare ‘violenze gravi contro una persona’, ‘gravi danni ai beni’ o determinare un “grave rischio per la salute e la sicurezza della popolazione o di una parte della popolazione”.
In occasione di pronunce come quelle sopra citate, da alcuni viene rilanciato il dibattito sulla necessità di specializzazioni non solo nella Magistratura inquirente, con la conseguenza della possibile creazione di quel ‘doppio binario’, che oggi rappresenta un’ipotesi ‘de iure condendo’ contrastata tra gli operatori giuridici (il giudice sia specializzato ma non speciale).
Anche per quanto sopra detto appare davvero urgente un’attività legislativa in sede comunitaria che miri ad armonizzare le leggi dei vari paesi dell’Unione Europea al fine di un più efficace contrasto di questo fenomeno criminale. Dalle diverse legislazioni infatti derivano anche diversità nelle opzioni investigative che accrescono ulteriormente le difficoltà nella cooperazione giudiziaria. E’ il caso, per mera esemplificazione, dei rapporti di cooperazione riscontrati con i paesi di tradizione anglosassone (Gran Bretagna) dove, grazie alla possibilità di arrestare per terrorismo sulla base di meri ‘sospetti’, la strategia di prevenzione adottata dalle autorità di polizia è quella di procedere a varie ‘operazioni lampo’ con arresti che però hanno il limite temporale dei quattro mesi, entro i quali, pena la decorrenza dei termini massimi dell’arresto, deve necessariamente iniziare la fase processuale. Orbene, in questi quattro mesi, proprio perché in mano agli investigatori esistono solo ‘sospetti’, si attiva da parte di quei paesi una frenetica attività di richieste rogatoriali per acquisire il materiale probatorio (relativo all’accusa di terrorismo internazionale) nella disponibilità di altre autorità giudiziarie o di polizia di altri paesi al fine di corroborare l’accusa di terrorismo. Nel caso in cui il Paese ‘richiesto’ sia l’Italia, dove invece per ‘tradizione investigativa’ si predilige, in materia di criminalità organizzata, l’indagine di lunga durata prima di intervenire con misure cautelari, e tanto per consentire una conoscenza la più ampia possibile dell’attività del gruppo criminale e dei soggetti appartenenti all’associazione, accade che non sempre appare possibile trasmettere in via rogatoriale atti ancora coperti dal segreto investigativo e destinati ad essere contestati agli arrestati innanzi al giudice inglese. In definitiva la cooperazione non si concretizza in attività di scambio di atti, tanto a prescindere dalla volontà degli organi preposti alla stessa.


Scambio di informazioni/prove,
non solo con rogatoria, e loro utilizzabilità


Nel corso dello scambio di informazioni e/o di prove attraverso lo strumento rogatoriale si è immediatamente evidenziato un serio e ricorrente problema che affligge la cooperazione giudiziaria, con particolare riferimento ai rapporti con i paesi dell’area culturale anglosassone (e per quanto interessa in questa sede con gli USA, GB e Canada). In questi paesi, infatti, buona parte dell’attività investigativa si svolge nell’ambito di quella fase definita intelligence che si distingue dall’attività dell’acquisizione probatoria – evidence – non solo per i soggetti istituzionali rispettivamente ad esse preposti (normalmente ma non necessariamente servizi segreti per l’intelligence e polizia giudiziaria per l’evidence), ma soprattutto per la loro utilizzabilità in sede dibattimentale, o ancor prima in fase investigativa .
Uno dei problemi più frequenti che si incontrano in indagini su criminalità organizzata transnazionale - non solo di tipo terroristico - è quello dello scambio di prove relative ad un procedimento da acquisirsi in via rogatoriale. Come è noto ai sensi degli artt. 723-729 c.p.p. possono essere utilizzate solo quelle prove che potranno avere accesso al fascicolo dibattimentale. Possono essere oggetto di una rogatoria i mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova elencati, rispettivamente, nei titoli II e III del libro del codice di procedura penale. I mezzi di ricerca della prova sono le ispezioni, le perquisizioni, i sequestri, l’acquisizione di documenti e le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, mentre i mezzi di prova sono le testimonianze, l’esame delle parti, i confronti, le ricognizioni, gli esperimenti giudiziari, le perizie. Oggetto di rogatoria può essere altresì ogni prova, anche se non espressamente prevista dal codice di procedura penale, che risponda ai requisiti indicati nell’articolo 189 c.p.p.. Inoltre la rogatoria può avere ad oggetto la trasmissione di corpi di reato e di prove documentali, così come, anche se non specificamente indicato, l’interrogatorio di un indagato o di un imputato.
Orbene, limiti all’utilizzazione di atti assunti all’estero possono essere esclusivamente previsti in convenzioni o accordi internazionali. Nel caso di violazione di uno di essi, l’inutilizzabilità degli atti irregolarmente acquisiti può essere eccepita in ogni stato e grado del procedimento (ex art. 729, co. 2°, c.p.p.). Altro profilo del medesimo problema attiene invece all’applicabilità della disciplina processuale interna in tema di utilizzabilità degli atti. In particolare – senza qui ripercorrere il percorso giurisprudenziale svoltosi sino ai nostri giorni – si può affermare che per il nostro ordinamento anche la prova formata all’estero, se per essa è previsto il contraddittorio nel codice di procedura, deve appunto essere formata avendo assicurato al difensore le stesse facoltà previste dall’ordinamento italiano.
Fissato preliminarmente il quadro normativo di riferimento si pone frequentemente il problema delle dichiarazioni rese da soggetti detenuti all’estero in assenza del difensore anche se regolarmente trasmesse attraverso l’attività di cooperazione tra polizie (e quindi trasfuse in informative trasmesse poi all’A.G., opportunamente riscontrate).
L’esigenza di acquisire prove al di fuori dei confini nazionali secondo modalità che ne consentano l’utilizzazione ai fini del giudizio è obbligatoria alla luce del novellato art. 431, par.1, lett. f), c.p.p.; infatti nel fascicolo per il dibattimento sono raccolti i verbali degli atti assunti all’estero a seguito di rogatoria internazionale soltanto se ad essi “i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana”. Ciò salvo che si tratti di atti non ripetibili, i quali possono in ogni caso essere acquisiti ai sensi dell’art. 431, lett. d).
Un recente orientamento della giurisprudenza ha anche ribadito, al riguardo, l’inutilizzabilità assoluta (e cioè anche in fase di indagini preliminari) di quanto acquisito in presenza di uno dei vizi di nullità assoluta previsti dal nostro codice di procedura penale.
Un ulteriore aspetto dello stesso problema è poi quello rappresentato dalla trasmissione di utilissime informazioni (a volte fondamentali per il progressivo svolgimento ed il buon esito del procedimento) utilizzando i canali della cooperazione tra polizie, di cui però viene preventivamente richiesta una rigorosa segretazione da parte dell’organo di polizia o organo giurisdizionale estero che le trasmette. Orbene in questi casi la Polizia giudiziaria italiana non ha potuto utilizzarle come attività proveniente da “organo collaterale estero” e quindi si è persa - nel corso del procedimento - gran parte della potenziale utilizzabilità di quelle informazioni. Infatti nei paesi (Francia, Inghilterra) dove esistono sezioni dello stesso corpo di polizia che svolgono però attività ontologicamente diverse - a volte intelligence ed a volte polizia giudiziaria - la trasfusione dei risultati della prima nell’ambito delle attività della seconda è fisiologica, purché non venga mai disvelata la procedura di acquisizione dell’informazione, che si intende tutelare ed assicurare (la fonte) più della necessità di acquisire il risultato sul piano giudiziario.
In questi casi la cooperazione giudiziaria evidentemente segna il passo e paradossalmente la verità processuale non riesce a riprodurre anche la più incontestabile delle verità storiche. Altro problema profilatosi nei rapporti tra intelligence ed evidence è quello dell’impossibilità di ricevere per rogatoria i risultati di un’attività di raccolta di informazioni in territorio di guerra, posta in essere dall’intelligence militare. Anche a voler tentare di attivare una procedura rogatoriale è assai difficile individuare - laddove originariamente esistente - una Autorità Giudiziaria di riferimento cui trasmettere la richiesta rogatoriale. E’ capitato – nel corso del recente conflitto iracheno – di aver avuto notizia del ritrovamento di decine di documenti emessi da comuni italiani (perlopiù ma non necessariamente falsi) nella disponibilità di mujahiddin provenienti dall’Europa ed arrestati in Iraq. Prova fondamentale per dimostrare l’utilizzo fatto dei documenti reperiti dalle cellule terroristiche in Europa e di cui si può dare prova della definitiva utilizzazione solo a seguito del loro utilizzo, appunto, e non prima (anche se al riguardo esistessero centinaia di conversazioni telefoniche regolarmente intercettate).


Collaboratori

Solo per completezza si rappresenta che con la legge 13.2.2001, n. 45, è stata estesa l’applicabilità delle norme in tema di protezione e trattamento dei collaboratori e testimoni di giustizia anche ai reati di terrorismo ed eversione. Ad oggi rarissime sono le collaborazioni maturate in questo settore, forse anche in considerazione del livello basso di pene sino ad oggi inflitte (perché collaborare?). E’ però fortemente avvertito da parte dei condannati, in realtà, il timore di essere estradati a pena espiata verso i paesi d’origine, e questa circostanza, per alcuni, potrebbe rappresentare uno stimolo alla collaborazione pur di vedersi protetto nel nostro Paese. Val la pena segnalare che la normativa attuale non consente di attribuire benefici nel nostro ordinamento a chi, arrestato in Italia, si scopre essere una ‘fonte informativa’ degli organi investigativi di altro paese europeo (e tanto vale anche per l’eventuale causa di non punibilità laddove fosse un agente sotto copertura di altro paese).
Va segnalata anche una difficoltà spesso riscontrata nell’ambito della cooperazione tra Autorità Giudiziarie di diversi paesi europei: con riferimento alla gestione dei rari collaboratori di giustizia c’è una sorta di resistenza a ‘condividere’ il patrimonio conoscitivo di questi, nel senso che è consentito interrogarli solo dopo che si sono conclusi i processi (dibattimenti) dove dovranno deporre, per non introdurre eventuali elementi di disturbo nella non semplice gestione degli stessi. Il problema ovviamente è che attendere anni prima della conclusione di dibattimenti non consente di contrastare questo fenomeno criminale transnazionale in termini adeguati alla gravità ed alla pericolosità dello stesso. Si perdono così importanti occasioni di interventi repressivi contestuali che davvero potrebbero incidere sulla struttura transnazionale delle associazioni terroristiche.


Il problema del coordinamento
interno


La recente novella legislativa del dicembre 2001 ha parzialmente riordinato la competenza su questi reati attribuendoli all’Ufficio del Pubblico Ministero del capoluogo ove ha sede una Procura distrettuale, con la conseguente competenza del ‘GIP distrettuale’. Non sono però stati attribuiti i poteri di coordinamento ed impulso alla Direzione Nazionale Antimafia (previsto esclusivamente per i reati di cui al comma 3 bis dell’art. 51 c.p.p.), essendo tali poteri rimasti di competenza delle Procure generali presso le singole Corti d’Appello (art. 118 bis disp. att. c.p.p.). Sono rimasti in parte irrisolti i problemi di ‘leale concorrenza’ nel caso di indagini che hanno natura transnazionale e che vedono, sul territorio italiano, un frazionamento delle presenze di membri dell’associazione in varie regioni.
Tanto ovviamente ha complicato, e continua a rendere più difficile, l’attività investigativa in un settore dove non appare più tollerabile alcuna sottovalutazione o inutile intoppo investigativo. Appare pertanto davvero urgente l’attribuzione di poteri di coordinamento ad un organismo centrale, quale la DNA (opportunamente rafforzata), ed in particolare ad una sezione specializzata della stessa, utilizzando cioè la struttura e la logistica (si pensi alla banca dati) già esistente presso di essa, anche per non intralciarne l’importante attività di coordinamento in materia di ‘mafia’. Tanto consentirebbe di raggiungere l’obiettivo del coordinamento in tempi concretamente più rapidi rispetto a quelli necessari per la creazione di una Procura Nazionale Antiterrorismo per la quale dovrebbero essere stabiliti fondi e risorse al fine di dotarla della logistica necessaria per il suo effettivo funzionamento.


Le attività sotto copertura

L’art. 4 della legge n. 438/2001 ha introdotto anche per i delitti commessi con finalità di terrorismo operazioni sotto copertura, finalizzate all’acquisizione di elementi di prova (strumento investigativo già peraltro previsto dal nostro ordinamento in materia di acquisto di sostanze stupefacenti, riciclaggio, traffico di armi, pornografia infantile). Fra le novità appare sicuramente importante il riferimento ‘all’interposta persona’ cui è possibile estendere la speciale causa di non punibilità. Ed infatti è previsto che gli Ufficiali di Polizia Giudiziaria che “anche per interposta persona acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato, o, altrimenti ostacolano l’individuazione della provenienza o ne consentono l’impiego” siano esenti da responsabilità penale. Inoltre sarà consentito all’ufficiale infiltrato anche agire ‘per interposta persona’, coinvolgendo, quindi, anche terzi estranei alla polizia giudiziaria.
Così come è previsto l’impiego, come infiltrati, di ausiliari di p.g., perlopiù muniti di particolare e specialistica formazione tecnica.
Si prevede che il Pubblico Ministero, senza ritardo e nel corso delle operazioni, debba essere informato delle modalità dell’operazione stessa e dei soggetti che vi abbiano partecipato, nonché dei risultati della stessa: il legislatore ha così voluto precisare che il P.M. debba essere costantemente informato dello svolgimento delle operazioni, dal momento iniziale fino a quello finale. Il P.M. potrà anche richiedere che gli venga comunicato, per necessità attinenti alle indagini, anche il nominativo dell’ufficiale di polizia giudiziaria che si infiltrerà, nonché degli eventuali ausiliari impiegati.
Il P.M., inoltre, deve valutare per primo se il comportamento dell’infiltrato e dei suoi ausiliari rispetti tutti i presupposti dell’art. 4 (che fa salva l’applicazione dell’art. 51 c.p.) e, pertanto, vada esente da pena anche laddove vengano compiuti reati.
E’ evidentemente previsto l’utilizzo di false generalità e documenti d’identità durante l’attività sotto copertura.


foto ansa

Non si prevede, invece, che i predetti ufficiali ed agenti mantengano segreta la loro vera identità, utilizzando quella di copertura anche in un momento successivo al termine delle operazioni, magari fino al processo, con i vantaggi che ne deriverebbero per l’organismo investigativo di appartenenza che potrebbe impiegarli in altre operazioni e, soprattutto, con enormi vantaggi per la loro incolumità personale.
Questa, evidentemente, è una delle ragioni di scarsa applicazione, sino ad oggi, della norma, unitamente alla difficoltà oggettiva di trovare soggetti idonei ad infiltrarsi in settori, quali quelli del terrorismo islamico, caratterizzati da estrema diffidenza reciproca fra i membri stessi del gruppo.


Carenza di interpreti

Uno dei problemi irrisolti in questi ultimi due anni, e cioè a seguito dell’incremento investigativo causato dai fatti dell’11 settembre nello specifico settore del terrorismo islamico, è quello della cronica carenza di interpreti. Una delle cause principali è quella del timore di rappresaglie per la collaborazione prestata alle forze di polizia. Per risolvere questo serio problema non appare peregrino proporre forme di garanzie concrete per l’anonimato di questi ‘consulenti’ del P.M., oltre ad una rivisitazione delle tariffe professionali, solo per determinati settori investigativi.


Conclusioni


I recenti attentati da parte del terrorismo internazionale e della criminalità organizzata evidenziano la necessità e l’urgenza della creazione di nuovi strumenti per indagini a livello sovranazionale.
Le strade percorse sino ad oggi, della cooperazione e dell’assistenza giudiziaria e di polizia in materia penale per raggiungere l’obiettivo della creazione di uno spazio giuridico comune, non sono riuscite a dare i risultati auspicati in termini di efficacia e di celerità all’azione di contrasto delle gravi forme di criminalità internazionale.
Dopo i recenti gravissimi fatti di terrorismo internazionale si impone anche a livello europeo la scelta di una via più rapida ed efficiente per fronteggiare tali inquietanti forme di criminalità.
Ed allora vanno segnalate le seguenti iniziative sul piano della cooperazione che mirano al raggiungimento di una prevenzione più efficace.
Con l’adozione della legge 15 dicembre 2001, n. 438, nonché con l’adozione della legge 27 novembre 2001, n. 415 (recante disposizioni sanzionatorie per le violazioni delle misure adottate nei confronti della fazione afgana dei ‘talibani’), l’Italia ha raccolto le raccomandazioni del Consiglio Europeo, adeguandosi alle sue conclusioni.
Il Consiglio ‘Giustizia e affari interni, protezione civile’ con seduta del 20.9.2001, ha preso iniziative “per adottare le misure necessarie al mantenimento del più elevato grado di sicurezza nonché tutti i provvedimenti appropriati per combattere il terrorismo”, sollecitando un maggiore utilizzo degli strumenti di cooperazione oggi disponibili in seno all’Unione Europea, quali: la Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale del 29 maggio 2000; Europol istituita nel 1995, con specialisti nella lotta al terrorismo (ed al proprio interno un organismo interstatuale di Capi delle Polizie); l’istituzione di Eurojust, divenuto definitivo nel 2002. Sia Europol che Eurojust sono stati sollecitati ad instaurare una cooperazione informale con gli Stati Uniti, in attesa della conclusione di un accordo formale che ha avuto una sua prima formalizzazione nel giugno 2003 (in particolare, uno scambio di ufficiali di collegamento tra l’Europol e le agenzie americane attive nel settore di polizia - per Europol - e la presenza non ufficiosa del rappresentante degli USA in Eurojust nelle riunioni di lavoro relative al terrorismo islamico - per Eurojust). Di interesse per l’immediato futuro appare anche la previsione della creazione di squadre investigative comuni formate da magistrati e funzionari di polizia (al riguardo può dirsi che ad oggi l’unico progetto di realizzazione delle squadre è quello fatto dai rappresentanti delle Procure di Milano e di Roma, unitamente agli omologhi colleghi di Madrid e Atene - in seno ad Eurojust - durante la Presidenza spagnola, nella primavera del 2002, nell’ambito di indagini su un gruppo eversivo anarco-insurrezionalista attivo nei tre paesi). Anche per l’estradizione, dopo le convenzioni del 1995 e del 1996 tra gli Stati membri, va segnalato l’obiettivo di sostituire l’estradizione con una procedura di consegna degli autori degli attentati terroristici, basata su un mandato di arresto europeo. Perché possa giungersi a ciò, tuttavia, appare determinante il raggiungimento di un accordo sulla definizione di terrorismo.
Va riferito anche dell’azione comune del 22 aprile 1996 per lo scambio tra gli Stati membri di ‘magistrati di collegamento’ che svolgono funzioni nel campo dell’assistenza giudiziaria, dell’estradizione, e della circolazione dell’informazione. Successivamente, con l’azione comune del 29 giugno 1998, è stata istituita una ‘Rete giudiziaria europea’ costituita da una serie di punti di contatto diretti a garantire lo scambio di informazioni e dati statistici tra i rispettivi sistemi giuridici, nella prospettiva di migliorare la preparazione delle domande di cooperazione e la loro materiale esecuzione.
Ma la cooperazione evidentemente passa attraverso chi concretamente la svolge e non sempre, ancora di recente, è stato possibile apprezzare quel salto di qualità nell’approccio con la materia da parte degli operatori (magistrati e funzionari di polizia), ancora fortemente condizionati da una formazione dove il confine territoriale spesso consente di dare libero sfogo ad una naturale tendenza verso forme chiuse e gelose d’investigazione. Ancora oggi spesso accade che la cooperazione funzioni perché v’è reciproco interesse fra gli Stati membri a quella determinata indagine, mentre tanto non accade allorché vi sia una richiesta da parte di uno Stato membro che miri ad un risultato investigativo ‘unilaterale’, non necessariamente, cioè, d’interesse anche per lo Stato ‘richiesto’.
E tanto, unitamente alla tradizionale difficoltà a rinunciare, da parte degli Stati, alla propria ed esclusiva sovranità nell’amministrazione della giustizia penale, rappresenta un aspetto di debolezza che nella lotta al terrorismo globale non possiamo più permetterci.



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