GNOSIS 4/2010
APPENDICE Le modifiche 'di rigore' al codice della strada |
Giuseppe AMATO |
La legge di modifica del codice della strada La recente legge 29 luglio 2010 n. 120 ha fortemente innovato la disciplina sanzionatoria in materia di sicurezza stradale, specialmente con riguardo alle condotte di guida caratterizzate dall’abuso di alcool o di droghe (cfr., rispettivamente, le contravvenzioni previste dagli articoli 186 e 187 del codice della strada). Merita spendere qualche riflessione sulle modifiche di maggiore spessore, limitando la disamina a quelle che riverberano le loro conseguenze sull’apparato sanzionatorio penale. La confisca del veicolo La tematica “innovata” che ci sembra più rilevante riguarda la confisca del veicolo condotto dal trasgressore. Come è noto, infatti, una delle innovazioni più importanti [già] contenute nel cosiddetto “decreto sicurezza” di cui al decreto legge 23 maggio 2008 n. 92, convertito dalla legge 24 luglio 2008 n. 125, ha riguardato l’introduzione, in caso di sentenza di condanna o di “patteggiamento”, della “confisca obbligatoria del veicolo”, prevista, tra le altre, nelle ipotesi più gravi di guida in stato di ebbrezza (articolo 186, comma 2, lettera c), del codice della strada: tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro) e nell’ipotesi di guida in stato di alterazione psico-fisica derivante dall’assunzione di sostanze stupefacenti (articolo 187 del codice della strada). Analoga confisca è stata prevista nel caso in cui il trasgressore rifiuti di sottoporsi agli accertamenti tecnici per la verifica della condizione di abuso, vuoi di alcool vuoi di sostanze stupefacenti. Come è altrettanto noto, sia la Corte costituzionale (1) che le Sezioni unite della Cassazione (2) , di recente, avevano preso inequivoca posizione sulla natura giuridica di tale confisca, concludendo nel senso che non si trattava di una “misura di sicurezza patrimoniale”, bensì di una vera e propria “sanzione penale”. Per l’effetto, alla confisca obbligatoria prevista dal codice della strada dovevano riconoscersi i caratteri e le finalità di una vera e propria “sanzione”, dove la privazione della res prescinde dalla pericolosità [come invece imposto dall’articolo 203 c.p. per le misure di sicurezza] e si ispira piuttosto all’esigenza che il legislatore vuole perseguire di punire [in uno con l’irrogazione della vera e propria sanzione criminale] il comportamento violativo del trasgressore privandolo dello “strumento” [il veicolo] di cui questi ha abusato utilizzandolo pur essendo in stato di ebbrezza o di alterazione da abuso di sostanze stupefacenti. Nulla quaestio, allora, sulla possibilità di procedere al sequestro preventivo finalizzato proprio alla successiva adozione del provvedimento ablativo della confisca (articolo 321, comma 2, c.p.p.). E, parimenti, nulla quaestio sulla possibilità, in relazione al veicolo sotto sequestro, di procedere all’immediata vendita secondo il disposto dell’articolo 260 c.p.p., trattandosi di res deperibile, rispetto alla quale il mantenimento del vincolo in attesa della confisca avrebbe reso poi l’esito di questa improduttivo per l’Erario: come è noto, è stata ispirata alla applicazione di questa normativa l’attività di alcuni uffici giudiziari, che, nel tempo, hanno proceduto a vendere numerosi veicoli, con vantaggi per l’Erario, ma anche per lo stesso trasgressore (3) . Ora, con la ricordata modifica, cambiano i termini della questione. In particolare, l’articolo 33 della legge n. 120/2010, intervenendo sull’articolo 186 del codice della strada, ha incisivamente innovato la disciplina della confisca. Rimane fermo che la misura debba essere obbligatoriamente disposta in caso di condanna ovvero di patteggiamento per la contravvenzione di cui all’ articolo 186, comma 2, lettera c) [e per tutte le altre ipotesi in cui, in forza del richiamo per relationem a tale disposizione, la misura ablativa è stata configurata con il citato intervento normativo del 2008], e ciò anche nel caso in cui venga concessa la sospensione condizionale della pena e salvo che il veicolo appartenga a persona estranea al reato. Il legislatore, peraltro, ha innovato decisamente sulla qualificazione giuridica della confisca che, come si è visto, la Corte costituzionale e le Sezioni unite avevano classificato come sanzione penale accessoria. Vale, al riguardo, il fatto che il nuovo testo dell’articolo 186, comma 2, lettera c), per la disciplina del “sequestro” del veicolo destinato alla confisca, rinvia a quanto disposto dell’articolo 224 ter, del codice della strada, introdotto dalla stessa legge n. 120/2010. Il comma 1 di quest’ultimo articolo detta per l’appunto l’inedita disciplina del sequestro in questione, e, per quanto qui di interesse, precisa che tale disciplina si applica nelle ipotesi di reato per cui è prevista la “sanzione amministrativa accessoria della confisca del veicolo”. Ed è proprio attraverso questo rinvio che l’articolo 186 sembra dunque identificare la confisca prevista per la più grave ipotesi di guida in stato di ebbrezza [e per le altre per le quali la confisca è parimenti prevista] con quella descritta nell’articolo 224 ter. In tal modo sembra corretto ritenere, secondo un’indicazione letterale non equivoca, che il legislatore ha sì ribadito che la confisca è una sanzione, ma per la prima volta ha anche affermato che si tratta di una sanzione amministrativa e non penale. La qualificazione della confisca come sanzione amministrativa accessoria porta come effetto importante che in vista dell’applicazione della misura ablativa non può più procedersi al sequestro preventivo del veicolo ai sensi dell’articolo 321, comma 2, c.p.p., applicabile solo alla confisca “penale”. Ciò che è del resto chiaramente confermato proprio dal citato articolo 224 ter, che, appunto, pertinentemente, detta una disciplina della confisca de qua, che attribuisce la relativa competenza non più alla autorità giudiziaria, ma esclusivamente dall’autorità amministrativa cui la norma citata demanda l’adozione del provvedimento cautelare reale, il quale dunque assume valenza esclusivamente amministrativa. Non a caso il successivo comma 6 dell’articolo 224 ter prevede per l’ impugnazione del sequestro lo strumento dell’opposizione ai sensi dell’articolo 205 del codice della strada, con evidente esclusione dello strumentario di cui agli articoli 324 e segg. c.p.p.. Non a caso, poi, diversamente da quanto previsto per le sanzioni amministrative accessorie della sospensione e della revoca della patente, alla cui irrogazione deve provvedere il giudice penale con la sentenza o con il decreto di condanna, il comma 2 dell’articolo 224 ter riserva l’applicazione della confisca al prefetto, disponendo in tal senso la trasmissione al medesimo di copia della sentenza o del decreto di condanna divenuti irrevocabili. Alla luce della richiamata normativa, nessun problema si può porre per il futuro. Cessa tout court ogni competenza dell’autorità giudiziaria, vuoi per il sequestro preventivo, vuoi per la confisca. Resta da affrontare il tema dei veicoli sequestrati e confiscati nella vigenza della disciplina ora modificata. Nel caso in cui la confisca sia stata disposta con provvedimento ormai definitivo, l’introduzione della nuova disposizione non dovrebbe comportare alcuna conseguenza. La nuova norma troverà, invece, applicazione nei procedimenti pendenti in cui non sia ancora stato adottato, da parte del giudice, alcun provvedimento definitivo: è fin troppo evidente che dovrà revocarsi il sequestro preventivo adottato e/o il provvedimento di confisca se non ancora coperto da giudicato. Competerà nel caso all’autorità di polizia che ha accertato il reato di procedere alla conversione del sequestro penale in sequestro amministrativo: rectius, di adottare il provvedimento di sequestro ex articolo 224 ter del codice della strada ai fini della confisca che sarà poi adottata dal prefetto. Resta da dire che all’esposta interpretazione non si potrebbe obiettare che si finirebbe con l’applicare una misura sanzionatoria [il sequestro e la confisca ex articolo 224 ter ] a fatti commessi precedentemente alla relativa previsione normativa. Vale il rilievo che, comunque, la detta lettura interpretativa costituisce un coerente portato applicativo del favor rei espresso dall’articolo 2 c.p. e, soprattutto, dall’articolo 25 della Costituzione, e ciò con il conforto della applicazione piena, nella subiecta materia, in assenza di apposita disciplina transitoria, dei principi sottesi dall’articolo 40 della legge 24 novembre 1981 n. 689. La depenalizzazione dell’abuso meno grave Venendo ad esaminare le altre modifiche di interesse nel settore penale, vi è però da rilevare che, per vero in controtendenza rispetto alla rilevata finalità di rigore, si è depenalizzata l’ipotesi meno grave di guida in stato di ebbrezza (articolo 186, comma 2, lettera a), del codice della strada), in caso, cioè, di tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro (4) . La depenalizzazione è a far data dal 30 luglio 2010 [cfr. articolo 33, comma 4, della legge n. 120 del 2010]. Ciò implica che, se il procedimento penale è ancora pendente, a seconda delle fasi, il contravventore ha diritto all’archiviazione ovvero alla sentenza liberatoria per non essere il fatto più previsto come reato. Mentre se vi è stata condanna definitiva, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali (articolo 2, comma 2, c.p.). È da ritenere che l’autorità giudiziaria non debba trasmettere gli atti all’autorità amministrativa per quanto di competenza. A tale trasmissione osterebbe, infatti, il principio di legalità/irretroattività dell’illecito amministrativo (articolo 1 della legge 24 novembre 1981 n. 689), non espressamente derogato dal legislatore come, invece, di recente, nella subiecta materia, in occasione della depenalizzazione del rifiuto a sottoporsi all’esame alcolimetrico avvenuta con il decreto legge n. 117 del 2007, convertito nella legge 160 del 2007, allorquando l’articolo 7 della citata normativa ebbe ad introdurre un’esplicita deroga al principio di irretroattività (5) . Del resto, in senso contrario, a favore cioè della doverosità della trasmissione degli atti al prefetto, non potrebbe evocarsi neppure il principio della retroattività della norma più favorevole, giacchè, come puntualizzato dalle Sezioni unite (6) , tale principio, posto ora dall’articolo 2, comma 4, c.p., che assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge penale vigente al momento del fatto e quello previsto dalle leggi successive, purché precedenti la sentenza definitiva di condanna, opera solo con riferimento all’ipotesi della successione tra fattispecie incriminatrici, accertabile in base al criterio della continenza, e non è estensibile al caso della successione di norma che degradi un fatto previsto come illecito penale a illecito amministrativo. Va osservato che la “depenalizzazione” della lettera a) fa venire meno la fondatezza [e la conseguente applicabilità] di quella interpretazione giurisprudenziale che riteneva possibile dimostrare la guida in stato di ebbrezza alcolica anche in assenza di esame alcolemico, sulla base di elementi oggettivi esterni. Si tratta, come è noto, di quell’orientamento secondo cui, ai fini della configurabilità della contravvenzione de qua, per accertare lo stato di ebbrezza del conducente del veicolo non è indispensabile l’utilizzazione degli strumenti tecnici di accertamento previsti dal codice della strada e dal regolamento (“etilometro”), ben potendo il giudice di merito - in un sistema che non prevede l’utilizzazione di prove legali - ricavare l’esistenza di tale stato da elementi sintomatici quali l’alito vinoso, l’eloquio sconnesso, l’andatura barcollante, le modalità di guida o altre circostanze che possano far fondatamente presumere l’esistenza dello stato indicato; anzi, in questa prospettiva, essendo consentito al giudice finanche di disattendere l’esito dell’esame alcolimetrico, purchè del suo convincimento fornisca una motivazione logica ed esauriente. Tale orientamento, come è altrettanto noto, è stato ribadito dalla giurisprudenza anche a seguito della novella riformatrice di cui al decreto legge 7 agosto 2007 n. 117, convertito in legge 2 ottobre 2007 n. 160, che, sostituendo il comma 2 della suddetta norma incriminatrice, ha determinato un differenziato trattamento sanzionatorio a seconda del valore del tasso alcolemico riscontrato, configurando in proposito tre distinte fattispecie incriminatici, precisandosi, al riguardo, che, pur dopo tale novum normativo, il giudice ben può formare il suo libero convincimento anche in base alle sole circostanze sintomatiche riferite dagli agenti accertatori, con l’unica [ovvia] precisazione che tale possibilità deve circoscriversi alla sola fattispecie meno grave prevista dalla lettera a), del comma 2 dell’articolo 186, imponendosi, invece, per le ipotesi più gravi (lettere b) e c) del citato comma 2) l’accertamento tecnico del livello effettivo di alcool (7) . Orbene, proprio la “depenalizzazione” dell’ipotesi meno grave e più favorevole ci sembra non consentire più questo ragionamento. Per l’effetto, oggi, l’accertamento di rilevanza penale deve passare inderogabilmente attraverso un accertamento tecnico sul tasso alcolemico, mentre gli elementi esterni solo elementi valutativi di conforto. A tal riguardo, allora, pur non essendo tematica su cui ha inciso la legge del 2010, merita di essere ricordato che quando l’esame alcolimetrico portasse a due diversi risultati [uno superiore a 1,5 g/l, l’altro inferiore, ma superiore ovviamente al valore 0,8 g/l] in base al principio del favor rei dovrà farsi applicazione dell’ipotesi contravvenzionale di cui al comma 2, lettera b) (8) . L’aggravamento sanzionatorio per l’ipotesi più grave Coerentemente stavolta con il professato intento di rigore, si è accentuato il trattamento sanzionatorio della contravvenzione più grave prevista dall’articolo 186, comma 2, lettera c): tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, con l’introdotto aumento del minimo edittale della pena detentiva, che passa da tre a sei mesi di arresto [sono rimasti immutati il limite massimo di un anno di arresto e la misura dell’ammenda, fissata da 1500 a 6000 euro]. Ciò significa che la pena detentiva minima, su cui operare la conversione in caso di decreto penale di condanna, è quella di due mesi [con la diminuzione ex articolo 459, comma 2, c.p.p. e la concessione delle attenuanti generiche, rispetto al minimo edittale di sei mesi]: ergo, due mesi sono equivalenti alla somma di euro 15.000. Ne deriva, di fatto, l’impraticabilità del ricorso al rito alternativo del decreto penale di condanna: la importanza quantitativa della sanzione, infatti, rende pressoché certa l’”opposizione” da parte dell’imputato e, indubbiamente, ciò fa perdere i vantaggi acceleratori e definitori di tale modalità semplificata di esercizio dell’azione penale. L’incidente stradale Con altro intervento di notevole rilievo pratico, si è accentuato il trattamento sanzionatorio per il conducente in stato di ebbrezza nei cui confronti sia ravvisabile la circostanza aggravante dell’incidente stradale (articolo 186, comma 2 bis). L’aumento della pena principale discende dal già richiamato aumento per l’ipotesi di cui al comma 2, lettera c). È poi prevista la sanzione accessoria della revoca della patente in caso di tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l. Non interessa l’autorità giudiziaria, ma solo quella di polizia, la parimenti introdotta elevazione del fermo amministrativo. I neopatentati e i “professionisti del volante” Impatto operativo notevole ha, poi, l’aggravamento del regime sanzionatorio nei confronti dei trasgressori che abbiano meno di ventuno anni, siano “neopatentati” o esercitino professionalmente l’attività di trasporto di persone o di cose. Per tali soggetti, per quanto qui direttamente interessa, le pene stabilite dagli articoli 186 e 187 sono aumentate da un terzo alla metà (cfr. articoli 186 bis e 187, comma 1). Inoltre, è accentuato il ricorso alla sanzione accessoria della revoca della patente: applicabile a carico dei conducenti che incorrano nella contravvenzione di cui all’articolo 186, comma 2, lettera c), ovvero a carico degli altri conducenti nel caso di “recidiva nel triennio” (cfr. articolo 186 bis, comma 5); ed altresì applicabile in caso di violazione dell’articolo 187 ovvero nel caso di “recidiva nel triennio” (cfr. articolo 187, comma 1). È stato aggravato il trattamento sanzionatorio in caso di rifiuto a sottoporsi agli accertamenti alcolemici o finalizzati alla ricerca di sostanze stupefacenti, con la previsione dell’aumento della pena da un terzo alla metà (articoli 186 bis, comma 6, e 187). Si tratta di ipotesi di circostanze aggravanti “vincolate” o “protette”, essendo assoggettato il relativo computo in caso di comparazione con le attenuanti eventualmente concorrenti alla speciale e “protetta” disciplina tratteggiata dall’articolo 186 bis, comma 4: quindi, l’aggravante de qua, se ritenuta e in concreto applicata, importa l’aumento della pena base, non potendo essere neutralizzata dal giudizio di comparazione con le attenuanti; queste ultime, piuttosto, possono essere applicate “dopo”, con la conseguenza che le diminuzioni della pena conseguenti alle attenuanti saranno operate sulla pena risultante dopo l’aumento indotto dall’aggravante “protetta”. Il lavoro di pubblica utilità Una modifica di cui è presto per apprezzare la rilevanza concreta, ma che, indubbiamente, ha una notevole valenza di principio, ha riguardato l’introduzione, salvo che ricorra l’aggravante dell’incidente stradale, della sanzione del “lavoro di pubblica utilità” per la guida sotto l’influenza dell’alcool e per la guida in stato di alterazione da assunzione di sostanze stupefacenti; sanzione irrogabile già anche con il decreto penale di condanna (articoli 186, comma 9 bis, e 187, comma 8 bis). Il lavoro di pubblica utilità trova la sua disciplina generale nell’articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, contenente le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace: a tale disciplina, laddove non diversamente disposto nella disciplina qui in esame, occorre fare riferimento per ricostruire il meccanismo che va seguito per la “sostituzione” delle pene detentiva e pecuniaria. In realtà, le deroghe rispetto alla disciplina tratteggiata nel richiamato articolo 54 sono plurime e significative. Tre i profili di maggiore interesse, che riguardano le modalità del lavoro sostitutivo, le condizioni di attivazione della sostituzione e la durata della misura sostitutiva. Intanto, con riferimento al primo profilo, quanto agli enti presso cui la pena sostitutiva deve essere scontata, all’indicazione contenuta nell’articolo 54 (Stato, Regioni, Province, Comuni, enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato), vengono aggiunti i “centri specializzati di lotta alle dipendenze”, precisandosi, poi, che il lavoro sostitutivo, “in via prioritaria”, deve essere svolto “nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale”. Poi, con riferimento all’attivazione del meccanismo di sostituzione, qui è necessaria richiesta del pubblico ministero solo in caso di decreto penale, perché, come è noto, il giudice richiesto del decreto penale può accogliere o rigettare la richiesta, mentre non può modificarla. Nelle altre ipotesi, il giudice può procedere, invece, evidentemente, anche di ufficio. Non è espressamente prevista la richiesta dell’imputato quale presupposto essenziale della “sostituzione”, come invece previsto dall’articolo 54, comma 1, citato, giacchè qui si prevede solo la condizione “negativa” della “non opposizione” da parte dell’imputato. Pur nel silenzio della legge, però, nulla esclude che [in disparte, come è ovvio, l’ipotesi del decreto penale] possa esservi una esplicita richiesta dell’imputato [ad esempio, in dibattimento o in sede di opposizione a decreto penale di condanna]: in tal caso, l’eventuale diniego di sostituzione va motivato, trattandosi di provvedimento certamente impugnabile. Infine, quanto alla “durata” del lavoro di pubblica utilità dispone espressamente l’articolo 186, comma 9 bis, che, in espressa deroga a quanto previsto dall’articolo 54 (laddove si fissa una durata non inferiore a dieci giorni ma non superiore a sei mesi), la determina per relationem in misura corrispondente alla durata della pena detentiva e di quella pecuniaria sostituite, configurandosi in proposito un autonomo tasso di conversione di quest’ultima (250 euro di ammenda corrispondono ad un giorno di lavoro sostitutivo). Per il resto, vale la disciplina dell’articolo 54. Per l’effetto, giusta il criterio dettato dal comma 5 del citato articolo 54, “un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro”; mentre, con specifico riguardo alle modalità di prestazione dell’attività lavorativa, giusta il comma 3 dell’articolo 54, è normalmente fissato il limite di sei ore settimanali; mentre, su richiesta del condannato, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro per un tempo superiore alle sei ore settimanali, peraltro con il limite, fissato dal successivo comma 4, che la durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore. La condanna deve prevedere la misura della pena principale, poi sostituita, imponendolo la disciplina della revoca in caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. Con riferimento alla determinazione del lavoro di pubblica utilità, proprio il collegamento con la sanzione “principale”, rende evidente che le eventuali riduzioni [per le attenuanti concesse; per la scelta del rito: cfr. articoli 444 e 459, comma 2, c.p.p.] dovranno operare sulla pena principale, prima del computo della durata del lavoro di pubblica utilità. Da ciò deriva, in ogni caso, che l’eventuale richiesta di “patteggiamento” con sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità dovrà essere formulata previa indicazione della pena principale “patteggiata” e successiva indicazione di quella sostitutiva. Sembra corretto ritenere, nonostante il silenzio della disciplina, che la [a nostro avviso, consentita: v. supra] eventuale richiesta, oltre che personalmente dall’imputato, possa essere presentata anche dal difensore, purchè munito di procura speciale (arg. ex articolo 33, comma 1, del decreto legislativo n. 274 del 2000). Tale conclusione è confortata da un duplice ordine di considerazioni: da un lato, la considerazione che la disciplina generale sul lavoro di pubblica utilità contenuta dalla normativa sul giudice di pace non è, sul punto, incompatibile con il disposto della disciplina de qua [che pur prevedendo l’iniziativa officiosa del giudice, non esclude che possa esservi spazio per la “richiesta” dell’imputato]; dall’altro, l’ulteriore considerazione logico sistematica in forza della quale, poiché la richiesta di sostituzione può essere formulata in occasione della presentazione dell’istanza di patteggiamento [nulla osta al riguardo], incomprensibile sarebbe il consentire la presentazione da parte del difensore munito di procura speciale della seconda (cfr. articolo 446, comma 3, c.p.p.), ma non anche della prima. Piuttosto, ammessa la possibilità della “richiesta” dell’imputato, vi è da chiedersi, quanto al “tipo” di lavoro di pubblica utilità, se questa possa essere avanzata genericamente, rimettendo cioè al giudice la relativa scelta determinativa, e se, in caso di richiesta specifica avente ad oggetto un particolare “tipo” di lavoro, il giudice ne risulti in qualche modo vincolato. Per una corretta soluzione di queste questioni non riteniamo possa essere utilmente invocata la peculiare disciplina relativa al processo penale davanti al giudice di pace, che pare strutturalmente incompatibile con quella dettagliata in materiali circolazione stradale, prevedendo un’articolata formazione “progressiva” della decisione di cui qui non vi è traccia (cfr. articolo 33 del decreto legislativo n. 274 del 2000). Inoltre, come si è accennato, il sistema in esame è basato, in linea generale, sul potere officioso del giudice [salva la ricordata ipotesi della richiesta di decreto penale di condanna]. Ciò consente di ritenere, anche perché la lettera della norma non autorizza interpretazioni restrittive, la possibilità di una richiesta indeterminata nell’oggetto, che rimetta cioè al giudice l’individuazione del tipo di lavoro di pubblica utilità. Una richiesta di tal genere, astrattamente ammissibile, presenta però il rischio di essere rigettata, ove il giudice ritenga di non poterla accogliere proprio per la genericità e per la conseguente impossibilità di individuare un lavoro di pubblica utilità concretamente applicabile al caso di specie. Per converso, laddove l’interessato abbia articolata una richiesta avente uno specifico oggetto (ergo, avente ad oggetto un determinato “tipo” di lavoro di pubblica utilità), è da ritenere che il giudice, laddove l’ accolga, non possa che accedere al tipo di lavoro di pubblica utilità richiesto, dovendosi ritenere formalizzata, in tal caso, anche solo per implicito, l’”opposizione” dell’imputato che (cfr. articolo 186, comma 9 bis: “ se non vi è opposizione da parte dell’imputato”) osta alla sostituzione [l’opposizione può e deve ritenersi ammissibile non solo in via generale nei confronti della sostituzione, ma anche, in particolare, nei confronti di uno specifico lavoro di pubblica utilità, magari diverso da quello proposto]. Va ricordato che, ai sensi dell’art. 58 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubblica utilità deve considerarsi, “per ogni effetto giuridico”, come pena detentiva della specie corrispondente a quella originaria: e tra gli effetti giuridici evocati dalla norma deve annoverarsi anche quello relativo al computo della prescrizione. Va ancora ricordato che il beneficio della sostituzione può essere concesso “non piu’ di una volta” (articolo 186, comma 9 bis), a differenza di quanto previsto per l’assimilabile disciplina introdotta in materia di sostanze stupefacenti, dove, a conferma della finalità di recupero posta alla base della sostituzione, è previsto (v. articolo 73 comma 5 bis, ultimo periodo, del d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309) che questo possa essere concesso fino a due volte. Sempre a differenza di quanto previsto per l’analoga sostituzione in materia di sostanze stupefacenti (cfr. articolo 73, comma 5 bis, del dr n. 309 del 1990), dove l’applicazione del lavoro di pubblica utilità presuppone, tra l’altro, che il giudice non abbia ritenuto di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena, qui il legislatore non si perita di precisare quali rapporti vi siano tra la sostituzione e il beneficio della sospensione condizionale della pena. In linea generale, potrebbe affermarsi la compatibilità tra i due istituti, anche se la sospensione della sanzione sostitutiva sembra, sostanzialmente, priva di senso. Si è detto supra che la condanna deve prevedere la misura della pena principale, poi sostituita, imponendolo la disciplina della revoca in caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. A tal proposito, merita di osservarsi quanto segue. È prevista la revoca della pena sostitutiva con conseguente ripristino di quella sostituita ”in caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità” (articolo 186, comma 9 bis). Competente, su richiesta del pubblico ministero o anche d’ufficio, è il giudice che procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’articolo 666 c.p.p., il quale, a tal fine, deve tenere conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione. Nel silenzio della norma, vi è da chiedersi quali siano gli effetti della revoca. È da ritenere che il lavoro di pubblica utilità, pur importando il non ingresso in carcere del condannato, rappresenti pur sempre una pena, con l’importante conseguenza che, in caso di revoca anche per comportamento incompatibile, il periodo di tempo trascorso positivamente a svolgere il lavoro di pubblica utilità deve essere considerato come pena regolarmente eseguita e, quindi, va computato nella pena complessiva da scontare: conforto in tal senso sembra trovarsi anche nel riferimento, operato nell’articolo 186, comma 9 bis, al “ripristino” della pena sostituita, che lascia propendere per l’efficacia ex nunc del relativo provvedimento del giudice, il quale, quindi, nella determinazione della pena da espiare dovrà detrarre il periodo di tempo in cui il condannato ha effettivamente e proficuamente svolto l’attività lavorativa. Va ancora precisato, con riguardo ai provvedimenti che il giudice può adottare a fronte dell’accertata violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, che la revoca della misura sostitutiva è solo una delle opzioni possibili (quella massima, conseguente alle violazioni più gravi, dimostrative dell’inefficacia della misura sostitutiva): il giudice, infatti, a tal fine deve tenere conto “dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione” e, all’esito, può anche non procedere alla revoca, limitandosi, piuttosto, ad adottare nuove e diverse prescrizioni più idonee a corrispondere alle esigenze del caso concreto (anche nella prospettiva della prevenzione del rischio di ulteriori inosservanze). In tale occasione, riteniamo che il giudice non possa mancare di “rideterminare” la pena residua ancora da scontare, scorporando dal periodo di tempo relativo al “presofferto” quello in realtà sostanzialmente non scontato in ragione dell’accertato comportamento violativo. Va ancora soffermata l’attenzione su alcuni problemi interpretativi in materia di successione nel tempo di leggi penali. Non è infatti dubitabile che l’applicazione del lavoro di pubblica utilità si risolve in una disposizione di favore per il reo, che quindi dovrebbe trovare applicazione, ai sensi dell’articolo 2, comma 4, c.p., anche ai fatti commessi sotto il vigore della previgente disciplina, laddove non definiti con sentenza irrevocabile. È peraltro da evidenziare che, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole, il giudice deve applicare questa nella sua integralità, ma non può combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo dell’altra legge secondo il criterio del favor rei, perchè in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando così il principio di legalità: da ciò discende che, laddove il giudice ritenga di accedere alla richiesta di applicazione del lavoro di pubblica utilità, per i limiti edittali della pena detentiva da sostituire dovrà avere riguardo a quelli [anche più gravi: cfr., ad esempio, il nuovo limite edittale previsto per l’articolo 186, comma 2, lettera c)] attualmente vigenti. La guida sotto l’influenza di droghe e la disciplina dei “prelievi” Importanti modifiche sono state introdotte anche relativamente alla contravvenzione di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti (articolo 187 del codice della strada). È stata elevata la soglia minima edittale della pena detentiva, fissata in sei mesi di arresto, parallelamente alla già esaminata modica peggiorativa dell’articolo 186, comma 2, lettera c). Si sono già visti gli aggravamenti sanzionatori in caso di fatto commesso da trasgressori che abbiano meno di ventuno anni, siano “neopatentati” o esercitino professionalmente l’attività di trasporto di persone o di cose. Merita di essere piuttosto segnalata, con particolare evidenza, l’innovativa disciplina degli accertamenti finalizzati a verificare lo stato di alterazione dovuto all’assunzione di sostanze stupefacenti. È stata affermazione finora pacifica in giurisprudenza che, ai fini della configurabilità della contravvenzione di guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti (articolo 187 del codice della strada), è necessario che l’“assunzione di sostanze stupefacenti” venga accertata attraverso un esame tecnico su campioni di liquidi biologici. Deve escludersi, pertanto, la possibilità che di utilizzare a tal fine esclusivamente elementi sintomatici esterni, come è invece ammesso per l’ipotesi di guida in stato di ebbrezza [come si è visto supra, ora, a nostro avviso, neppure per la contravvenzione ex articolo 186 potrebbe farsi a meno del riscontro dell’alcooltest] in quanto l’accertamento richiede conoscenze tecniche specialistiche in relazione alla individuazione ed alla quantificazione delle sostanze. Gli elementi sintomatici esterni, come apprezzati dal personale operante, piuttosto, possono solo giustificare la decisione dello stesso personale di invitare il soggetto a sottoporsi all’esame, ma non possono sostituirsi, sotto il profilo della prova, all’accertamento suddetto (9) . È affermazione che va ribadita anche alla luce del novum normativo, che ha meglio disciplinate le modalità degli accertamenti sui liquidi biologici. Alla previsione già contenuta nel comma 2 dell’articolo 187, che facoltizza gli operanti a sottoporre il conducente ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili, finalizzati ad acquisire elementi utili a riscontrare l’abuso di sostanze stupefacenti, si aggiunge l’innovativa previsione contenuta nel comma 2 bis, che [“quando gli accertamenti di cui al comma 2 forniscono esito positivo ovvero quando si ha altrimenti ragionevole motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l’effetto conseguente all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope”] autorizza il personale di polizia a sottoporre il conducente ad accertamenti clinico-tossicologici e strumentali ovvero analitici su campioni di mucosa del cavo orale ovvero su campioni di fluido del cavo orale. Tale attività deve però essere compiuta obbligatoriamente dal personale sanitario ausiliario delle forze di polizia e non più, come nel precedente comma 3 dell’articolo 187, anche presso le strutture sanitarie, alle quali, ora, giusta il nuovo testo del comma 3, è possibile ricorrere esclusivamente nell’ipotesi in cui l’intervento del personale ausiliario non sia possibile ovvero qualora il conducente si rifiuti di sottoporsi al prelievo. Evidente è la finalità che si vuole soddisfare con la metodica di cui al comma 2 bis: quella di rendere più rapidi gli accertamenti [da effettuare “su strada”, nell’immediato, senza attendere il trasferimento nelle strutture sanitarie], così da contrastare il notorio rischio della metabolizzazione delle sostanze e la conseguente perdita di efficacia dimostrativa dell’esame [ciò in relazione all’empirica considerazione che molte sostanze lasciano tracce della propria presenza per un arco temporale piuttosto lungo, sì che l’esame sul liquido biologico, ex se considerato, potrebbe non dare risposte decisive circa l’attualità dell’alterazione, che costituisce il proprium della fattispecie contravvenzionale]. L’accertamento immediato sul posto [di cui con decreto interministeriale, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della disposizione, dovranno essere dettagliate le modalità operative, comprensive delle caratteristiche degli strumenti da impiegare] dovrebbe essere in grado di risolvere i problemi di prova, giacchè, grazie alla presenza del personale sanitario, all’accertamento sulla mucosa e/o su campioni di fluido del cavo orale [di per sé equivoco, per quanto detto], sarebbe possibile far seguire un riscontro diretto [“clinico”], da parte, appunto, del sanitario, in grado di leggere il dato tecnico e di riferire sull’attualità dello stato di alterazione. È in questa ottica ricostruttiva, che va letto il disposto del successivo comma 3, innovato rispetto al testo originario, laddove si prevede, come ipotesi residuale, l’accompagnamento del soggetto presso una struttura sanitaria “per il prelievo di campioni di liquidi biologici” ai fini dell’effettuazione degli esami necessari ad accertare la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope. Tale ipotesi residuale, ovviamente, fino alla regolamentazione delle modalità di svolgimento dell’accertamento immediato sul posto, costituisce la metodica ordinaria di accertamento. Resta inteso che la “prova” del reato non è desumibile dagli”accertamenti qualitativi non invasivi”, né dagli esiti degli “apparecchi portatili” in uso alle Forze di polizia di cui parla il comma 2 dell’articolo 187, trattandosi di strumentario esclusivamente finalizzato, per esplicita indicazione normativa, a legittimare gli Organi di polizia a sottoporre il soggetto agli accertamenti di cui ai successivi commi 2 bis e 3. Saranno poi questi, nel caso risultino positivi e correttamente svolti, a fondare la prova del reato. Così come, analogamente, la “prova” del reato potrà essere desunta sempre dagli accertamenti medici previsti nel comma 4 dell’articolo 187 [non toccato dalla modifica del 20], laddove si prevede l’ennesima ipotesi [che si aggiunge a quelle dettagliate nei commi 2 bis e 3] in cui gli operatori di polizia possono procedere a far controllare il soggetto: è, come è noto, l’ipotesi in cui questi sia rimasto coinvolto in un incidente stradale, nella ricorrenza della quale, pur in assenza di un ragionevole motivo di ritenere che il conducente si trovasse sotto l’effetto di droghe [cfr.comma 2 bis], gli organi di polizia richiedono alle strutture sanitarie, ove il soggetto sia stato condotto per essere sottoposto alle cure mediche, di svolgere i necessari accertamenti per acclarare l’uso di droghe e di alcool. È questa ultima una situazione del tutto particolare quanto al tipo di riscontro utilizzabile a fine di prova dell’assunzione di droga. Infatti, i reperti biologici che possono essere prelevati lo sono dalla mucosa del cavo orale o dai fluidi del cavo orale, quando si tratti degli accertamenti sul posto ex comma 2 bis. Mentre i liquidi biologici di cui al successivo comma 3 possono ricomprendere le urine, ma, a nostro avviso, nell’assenza di esplicita indicazione normativa, né nell’uno, né nell’altro caso potrebbe procedersi ai prelievi coattivi del sangue, giacchè a tali prelievi potrebbe procedersi solo con il consenso dell’interessato [diversamente opinando, a fronte dell’invasità dell’accertamento, si eluderebbero i principi a chiare lettere affermati dalla nota sentenza della Corte costituzionale 9 luglio 1996 n. 238, intervenuta sull’articolo 224 c.p.p.; del resto, e non a caso, l’innovato articolo 224 bis c.p.p., dedicato alle perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, ai fini della determinazione del profilo del DNA facoltizza il solo prelievo coattivo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale]. Il prelievo ematico [non consentito dall’interessato], in vero, sarebbe ammesso e utilizzabile solo in un caso: quando, appunto, si verta in ipotesi di prelievo ematico effettuato a fini diagnostici, in ospedale, in occasione delle cure prestate al trasgressore dopo l’incidente stradale in cui questi sia rimasto coinvolto, senza che a tal fine abbia rilievo l’eventuale assenza di consenso dell’interessato (10) . È, a ben vedere, l’ipotesi tratteggiata nel comma 4 dell’articolo 187, laddove il prelievo del sangue rientri nelle metodiche diagnostiche finalizzate alla cura degli esiti dell’incidente. In tutte le altre ipotesi, il prelievo ematico coattivo sarebbe vietato e, come tale, inutilizzabile. La nuova disciplina dei prelievi [soprattutto la previsione di cui al comma 2 bis, che impone la presenza di personale sanitario ausiliario] dovrebbe consentire il superamento di quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui per la prova del reato non sarebbe bastevole l’accertamento sulle urine [a fortiori, quello sulla saliva] perché non in grado di attestare l’attualità dello stato di alterazione (11) . Tale tesi negativa, in sostanza, si basa sul rilievo che, secondo quanto scientificamente dimostrato, la presenza di residui di principio attivo stupefacente nelle urine persiste per un certo arco temporale (anche alcune settimane, specie con riferimento ai cannabinoidi), dopo l’assunzione dello stupefacente, sicchè non sempre può costituire da solo prova certa [al di là di ogni ragionevole dubbio] dello stato attuale di “alterazione” da stupefacenti che costituisce il proprium del reato di cui all’articolo 187 del codice della strada. La tesi negativa argomenta anche dal rilievo critico su analisi genericamente “qualitative” che sono in grado di dimostrare la presenza di metaboliti di cannabinoidi nelle urine, ma che non essendo anche “quantitative” non sono in grado di dimostrare né il momento dell’assunzione, né l’attualità dell’alterazione (12) . Infatti, la presenza del medico ausiliario consentirebbe di superare i dubbi, potendo coniugare gli esiti dell’accertamento tossicologico, con il riscontro clinico sulle condizioni del trasgressore, sì da attestare, nel caso, l’attualità dello stato di alterazione indotto dall’assunzione della droga. Del resto, non va dimenticato di considerare che la “tipicità” dell’accertamento richiesto ai fini della configurabilità della contravvenzione riguarda solo il dato dell’assunzione della sostanza stupefacente [che va riscontrato, per indicazione normativa, appunto, sui e con i liquidi biologici], non, invece, il presupposto dell’attualità dell’alterazione, che può essere dimostrato aliunde secondo le regole probatorie ordinarie, ispirate al principio del libero convincimento. Può infatti coltivarsi la strada di coniugare il disposto normativo [che impone il riscontro sui liquidi biologici per dimostrare l’assunzione] e l’insufficienza del dato ricavabile dalle urine per dimostrare l’alterazione attuale (13) , con il principio del libero convincimento del giudice che vige in materia penale e con l’altro principio dell’assenza di prove legale, con la conseguenza che, a fronte di un accertamento sui liquidi biologici positivo, lo stato “attuale” di alterazione ben può e deve essere ritenuto sussistente valorizzando altri elementi sintomatici esterni [non solo la confessione del prevenuto (14) ; ma, soprattutto, la deposizione degli operanti che attestino di una condizione alterata, della presenza di droga sull’autovettura immediatamente riconducibile al guidatore, ecc.] utili per neutralizzare quella valenza dimostrativa equivoca che si è ritenuto essere propria dell’esame sulle urine. Tale conclusione ha trovato il conforto decisivo di una recente [e tuttora attuale] presa di posizione della Cassazione: ai fini della configurabilità della contravvenzione di guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti (articolo 187 del codice della strada), una volta dimostrata l’”assunzione” della droga con l’esame sui liquidi biologici, lo “stato di alterazione” può essere provato anche attraverso indici sintomatici (15) . La Corte ha in tale occasione sviluppato importanti precisazioni della Cassazione sulla contravvenzione di guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti (articolo 187 del codice della strada), ribadendo che per potere ritenere il reato è necessario dimostrare non solo che il conducente, precedentemente al momento in cui si è posto alla guida, abbia “assunto sostanze stupefacenti”, ma anche che egli, al momento dell’accertamento, guidava “in stato di alterazione” causato da tale assunzione, giacchè tale stato di alterazione costituisce un “elemento costitutivo” della fattispecie incriminatrice. Al riguardo, per la dimostrazione dell’avvenuta “assunzione” delle sostanze stupefacenti, la norma indica esplicitamente come necessario un accertamento tecnico-biologico, a differenza di quanto previsto per lo stato di ebbrezza rilevante ex articolo 186 del codice della strada, che può essere desunto anche da elementi sintomatici esterni: ciò in quanto l’accertamento relativo all’assunzione di droghe richiede conoscenze specialistiche in relazione alla individuazione ed alla quantificazione delle sostanze. Per la dimostrazione dell’attualità dell’alterazione, invece, puntualizza esattamente la Corte, non è richiesto necessariamente l’espletamento di una specifica analisi medica, ben potendo il giudice desumerla dagli accertamenti biologici dimostrativi dell’avvenuta precedente assunzione della droga, unitamente all’ apprezzamento delle deposizioni raccolte e del contesto in cui il fatto si è verificato. In altri termini, se la fattispecie risulta integrata dalla concorrenza di due elementi [l’assunzione della droga e lo stato di alterazione], si tratta di elementi che possono essere dimostrati in modo diverso. Quanto al primo, per espressa indicazione normativa, è necessario l’accertamento sui liquidi biologici del conducente. Quanto al secondo, invece, trattandosi di un elemento obiettivamente rilevabile dagli operatori della polizia giudiziaria, per la dimostrazione possono valere anche indici sintomatici. Da queste premesse, la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore della Repubblica, ha annullato con rinvio la sentenza di merito che, pur a fronte degli esiti positivi delle indagini biologiche [sull’assunzione delle sostanze stupefacenti] e delle deposizioni dei verbalizzanti [sullo stato di alterazione: rilevamento occhi lucidi ed arrossati del conducente], aveva giustificato l’assoluzione sulla base dell’assenza di una pretesa analisi medica sull’alterazione, senza dare un’adeguata motivazione sulla ritenuta irrilevanza dei dati probatori acquisiti. È quindi essenziale il rispetto delle procedure normative, ponendo attenzione, non solo al momento dell’accertamento dell’assunzione [che dovrà essere dimostrata necessariamente con il ricorso alle procedure tipiche di cui ai commi 2 bis, 3 o 4 dell’articolo 187], ma anche al momento dell’accertamento dell’attualità dello stato di alterazione conseguente alla acclarata assunzione della sostanza stupefacente [a tal riguardo, valendo il principio del libero convincimento, potranno essere utilizzati gli accertamenti clinici dei sanitari che hanno proceduto ai controlli ex comma 2 bis; gli elementi riscontrati direttamente dagli operanti: condizioni psicofisiche del contravventore; la presenza della sostanza stupefacente nell’immediata disponibilità di questi; le dichiarazioni spontanee ammissive dell’assunzione; i segni obiettivi di un’assunzione coeva all’accertamento; la diagnosi del sanitario in occasione delle cure prestate in occasione dei controlli ex comma 4, ecc.]. A tale ultimo riguardo, sarebbe opportuno, quando si proceda con gli accertamenti ex comma 3, che gli “esami necessari ad accertare la presenza di sostanze stupefacenti” ricomprendano, oltre al prelievo di campioni biologici [necessario a fini di prova dell’assunzione], anche un accertamento clinico sull’attualità dell’assunzione e, quindi, dello stato di alterazione. La disciplina del rifiuto Resta da dire sul rifiuto di sottoposizione ai prelievi opposto dall’interessato ai fini dell’integrazione della fattispecie incriminatrice di cui al comma 8 dell’articolo 187. Il reato sarà integrato da ogni tipologia di rifiuto ingiustificato agli accertamenti di cui ai commi 2, 2 bis, 3 e 4, finalizzati al riscontro dell’assunzione della droga. Il rifiuto, per essere penalmente rilevante, deve essere ingiustificato e, quindi, deve riguardare gli accertamenti previsti dalla legge. Ne deriva che, di norma, non potrà fondarsi il rifiuto a fronte del diniego della richiesta di sottoporsi ai controlli ematici, perché questi, come si è visto, presuppongono il consenso. In un solo caso, il rifiuto a sottoporsi a prelievo ematico potrà rilevare come reato: in quello del rifiuto opposto in presenza di una richiesta anche finalizzata a fini diagnostici ospedalieri [cfr. articolo 187, comma 4]. Per converso, sembra difficile possa ipotizzarsi il reato di rifiuto a fronte del diniego di sottoporsi all’esame del sangue [non richiesto dai sanitari per finalità diagnostiche o terapeutiche, in occasione dei controlli ex articolo 187, comma 4] perché – diversamente- si aggirerebbe [neutralizzandone la valenza] il necessario consenso dell’interessato che si basa sulla ritenuta invasità dell’esame [come ribadito dalla richiamata sentenza della Corte costituzionale 9 luglio 1996 n. 238]. Le misure alternative Una conclusiva riflessione su una modifica di poco rilievo pratico, ma, probabilmente, di spessore a livello di principio. È stato previsto, con l’articolo 57 della legge 120 del 2010, che il condannato alla pena dell’arresto per i reati di cui agli articoli 116, 186, 186 bis e 187 del codice della strada possa accedere su richiesta alla misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali ex articolo 47 dell’ordinamento penitenziario. È disposizione, come anticipato, per certi versi superflua, giacchè trattasi di reati i cui limiti edittali già consentono, ampiamente, il ricorso alla misura alternativa. La disposizione ha, però, un senso perché viene dettata un specifica disciplina per l’individuazione dei servizi sociali ai quali il condannato deve essere affidato, i quali vanno individuati con decreto del Ministero del lavoro, di concerto con quello della giustizia, “preferibilmente tra i servizi sociali che esercitano l’attività nel settore dell’assistenza alle vittime di sinistri stradali ed alle loro famiglie”. È indicazione di cui la magistratura di sorveglianza dovrebbe tenere conto anche in caso di pene “cumulate”. |
(1) Sentenza 4 giugno 2010 n. 196
(2) Sentenza 25 febbraio 2010, PM in proc. Caligo. (3) Volendo esemplificare, la Procura della Repubblica di Pinerolo, la prima a provvedere direttamente alla vendita dei veicoli, dal 23 febbraio 2009 al 10 giugno 2010, ha proceduto a diverse vendite all’incanto, alle quali sono stati ricavati, al lordo delle spese, complessivamente ben euro 129.946, versati sul Fondo unico giustizia. (4) Come si ricorderà, con la novella riformatrice di cui al decreto legge 7 agosto 2007 n. 117, convertito dalla legge 2 ottobre 2007 n. 160, attraverso la riformulazione del comma 2 dell’articolo 186, si era intervenuti significativamente sulla disciplina sanzionatoria. Infatti, mantenendosi, ai fini della configurabilità dell’illecito penale, la già prevista soglia di 0,5 grammi per litro, si erano costruite diverse fattispecie incriminatici ancorate a tre diversi livelli di gradazione del tasso alcolemico: a) tasso compreso tra 0,5 e 0,8 grammi per litro; b) tasso compreso tra 0,8 e 1,5 grammi per litro; c) tasso eccedente 1,5 grammi per litro. Ora, l’ipotesi di cui alla lettera a) [tasso compreso tra 0,5 e 0,8 grammi per litro] è stata “depenalizzata”, residuando la rilevanza penale delle solo fattispecie previste dalle lettere b) e c). (5) Cfr. Cassazione, Sezione IV, 13 febbraio 2008, Selmi: “la trasformazione della contravvenzione di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici in illecito amministrativo, ad opera dell’articolo 5 del decreto legge. 3 agosto 2007 n. 117, comporta che, in caso di annullamento senza rinvio della sentenza che ha applicato la sanzione penale, gli atti devono comunque essere trasmessi al prefetto, autorità competente all’irrogazione di quella amministrativa anche per le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del citato decreto legge in relazione alle quali il procedimento penale non è stato ancora definito con sentenza o decreto penale irrevocabili: in motivazione la Corte ha appunto precisato che l’articolo 7 del decreto legge n. 117 del 2007 impone la trasmissione anche in tal caso, derogando espressamente al principio di irretroattività di cui all’articolo 1 della legge 24 novembre 1981 n. 689”. (6) Sentenza 16 marzo 1994, PG in proc. Mazza. (7) Tra le tante, Cassazione, Sezione IV, 5 febbraio 2009, PG in proc. Quintini. (8) Cfr. Cassazione, Sezione IV, 19 novembre 2009, Proc. gen. App. Ancona in proc. Pesci. (9) Tra le tante, Cassazione, Sezione IV, 6 giugno 2007, Loffredo; Sezione IV, 7 febbraio 2007, Macchiarelli; Sezione IV, 1° marzo 2006, Orsini; nonché, Sezione IV, 28 aprile 2006, Verdi; Sezione IV, 11 aprile 2006, Marchetti; Sezione IV, 1° marzo 2006, Petillo. (10) Cfr. Cassazione, Sezione IV, 8 giugno 2006, Usai. (11) Cfr., tra le altre, Gip Tribunale Bologna, 16 giugno 2009 e Tribunale Milano, 22 ottobre 2009. (12) Tribunale Milano, 22 ottobre 2009. (13) Secondo l’orientamento giurisprudenziale “di rigore” ricordato alla nota 11. (14) Cfr., in tal senso, Cassazione, Sezione IV, 21 settembre 2007, De Rosa. (15) Cassazione, Sentenza IV,4 novembre 2009,PM in proc.Confortola. |