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GNOSIS 4/2010
LA STORIA

FATTI, ANEDDOTI e LEGGENDE

Papini: ladro per la Patria


Alain Charbonnier


Nei momenti cruciali si fa di necessità virtù. Nel pieno della guerra 1915-18 l’Italia era assillata dall’azione dell’Evidenzbureau austriaco che aveva messo a segno sabotaggi gravissimi, affondando addirittura due corazzate.
Il servizio informazione aveva individuato la base delle operazioni in Svizzera ed era indispensabile mettere le mani sui loro documenti. C’era una cassaforte da scassinare a Zurigo.
Chi meglio di un professionista del settore? Fu così che un ladro fu arruolato al servizio dell’Italia. Riuscì nell’impresa, fu pagato poco e morì povero.

Martedì grasso volgeva alla fine, il mercoledì delle ceneri non era ancora cominciato. Faceva freddo a Zurigo. All’ultimo piano dell’edificio fra la Seidengasse e Bahnofstrasse, Natale Papini sudava. La tensione era altissima, nella stanza con le finestre oscurate da pesanti drappi. Il cannello ossiacetilenico sibilava, mentre la fiamma attaccava la cassaforte dell’ufficio consolare austriaco.
Appena il metallo esterno cominciò a fondere, dal foro uscì con violenza un getto di gas che quasi soffocò lo scassinatore. Probabilmente era stato provocato dal materiale refrattario che imbottiva l’intercapedine, oppure da un’ulteriore quanto inutile misura di sicurezza antiscasso. Luci subito spente nella stanza e finestre aperte quel tanto per un rapido ricambio d’aria. Ma l’operazione doveva andare avanti. Appena l’atmosfera tornò respirabile, cannello acceso e avanti con il buco per aprire la cassaforte.
Con Papini nella stanza c’erano altri due “specialisti”: Remigio Bronzin, operaio della Stigler, irredentista giuliano, l’uomo delle chiavi, e Stenos Tanzini, sottufficiale di marina, addetto alle torpedini, passato al servizio di controspionaggio.
Occhiali scuri a proteggere gli occhi, la gola irritata dal fumo e dai vapori, un panno bagnato sulla bocca per respirare senza inalare gas, un fazzoletto intorno alla fronte, Papini forava e sudava. Ogni tanto Tanzini gli dava un sorso d’acqua, presa da un vaso di fiori. Era previsto che l’operazione durasse poco più di un’ora. Alla luce della lampada ad acetilene, che insieme con la fiamma ossidrica divoravano l’ossigeno della stanza, Papini lavorò fino all’esaurimento fisico. Per avere ragione dell’acciaio della cassaforte impiegò quattro ore.
Davanti ai tre uomini apparve il tesoro: documenti, codici di cifratura, l’elenco completo delle spie austriache in Italia, il numero dei conti correnti della banca di Lugano dove venivano depositate le somme pagate, il tariffario dei sabotaggi, le relazioni sugli affondamenti delle corazzate Benedetto Brin e Leonardo Da Vinci, l’attentato alle acciaierie di Terni, l’incendio di una calata del porto di Genova, l’esplosione di un treno carico di proiettili di artiglieria, i piani per il futuro attentato contro la corazzata Giulio Cesare nel porto di La Spezia. E poi denaro e preziosi: 650 sterline d’oro e 875 mila franchi svizzeri, gioielli, una preziosa collezione di francobolli.
Era il compendio dell’attività antitaliana, organizzata dal Capitano di Fregata della Marina Austroungarica Rudoplh Mayer, insediato a Zurigo con copertura consolare.
Era l’una passata del mattino quando, con tre valigie piene di materiale, gli scassinatori uscirono dal consolato austriaco, senza che nessuno si curasse di loro. Per lasciare un segno beffardo, Tanzini legò una corda al chiodo di uno specchio e all’altra estremità fece un nodo scorsoio con dentro una saponetta; poi coprì il foro della cassaforte con il cilindro da cerimonia di Mayer. Bronzin si curò di spezzare nelle serrature i pettini delle chiavi, in modo da ritardare la scoperta dello scasso.
Le conseguenze furono enormi. I documenti trafugati permisero di scoprire e arrestare circa quaranta informatori e sabotatori, residenti in Italia. Tra di essi, i tre responsabili dell’affondamento della corazzata Benedetto Brin: i marinai Achille Moschin e Guglielmo Bartolini e il caporale Giorgio Carpi, tre volte disertore del 25° reggimento cavalleggeri di Mantova. Bartolini venne condannato all’ergastolo, mentre Carpi e Moschin vennero condannati alla pena di morte, tramutata in ergastolo e graziata tra il 1937 e il 1942. Per il sabotaggio della “Leonardo da Vinci,” furono assolti, per insufficienza di prove, una decina di imputati. Delle due commissioni d’inchiesta nominate sull’affondamento delle corazzate, la prima (Brin) non riuscì a raccogliere neppure indizi, la seconda (Da Vinci) stava concludendo i propri lavori quando ricevette dal Ministero della marina un plico sigillato nel quale il Ministro dichiarava contenersi le prove delle colpevolezze e le cause dell’affondamento. La commissione, prima di aprire il plico, chiese i poteri giudiziari, ma il Ministro dell’interno requisì il plico, “non potendo il Governo, per ragioni di opportunità, concedere alla commissione i richiesti poteri”. Tutto si arenò. Il plico, in parte censurato, fu poi inviato dal Governo alla Magistratura, la quale emise le condanne di cui sopra.
Allo scoppio della guerra fra l’Italia e l’Austria, l’Evidenzbureau, al comando del generale Max Ronge, vantava professionalità ed esperienza secolari. Aveva efficienti sedi periferiche di spionaggio presso i consolati di Venezia, Napoli e Milano e nell’imminenza dell’inizio delle ostilità le potenziò tutte. Trasferì poi da Trieste a Zurigo l’“Ufficio di Descrizione Costiera,” che divenne “Sezione sabotaggio” dell’Evidenzbureau-Marina, con il compito di organizzare attentati alle navi da guerra e delle installazioni italiane, affidato alla direzione del Capitano di Fregata Rudolph Mayer, asso dello spionaggio con la copertura di Vice-Console a Zurigo.
A differenza dei nostri servizi, quello austriaco contemplava tra i suoi compiti quello di organizzare la sovversione, seminare il terrore nei territori alle spalle del nemico, mantenere i contatti con gli ambienti italiani contrari alla guerra, sostenendone l’attività di propaganda, per seminare sfiducia nell’opinione pubblica.
Il duello dunque iniziava impari.
A quattro mesi dall’inizio delle ostilità, il 27 settembre 1915, Mayer mise a segno il primo colpo: alle otto di mattina la corazzata “Benedetto Brin” saltò in aria nel porto di Brindisi. Persero la vita 456 uomini, tra cui il comandante della divisione navale e il comandante della nave.
Nonostante si fosse capito che gli ordini partivano dalla Svizzera, i sabotaggi continuarono a un ritmo impressionanete.
Nel febbraio 1916 saltò in aria la fabbrica di dinamite del Cengio, in provincia di Genova, alcune centrali idroelettriche, aviorimesse per dirigibili ad Ancona, magazzini viveri nel porto di Napoli e nella zona franca di Genova.
Nonostante il fallito tentativo di distruzione della centrale idroelettrica delle Marmore Alte e l’arresto di Giuseppe Larese, cittadino austriaco e agente di Mayer, che rivelò i piani dell’Evidenzbureau, le distruzioni continuarono.
A La Spezia esplose un carro ferroviario carico di proiettili navali, uccidendo 265 persone tra civili e militari, e alla polveriera di Vallegrande, sempre a La Spezia, saltò in aria un vagone contenente 500 granate cariche.
Il 2 agosto 1916 i sabotatori di Mayer collocarono bombe a orologeria a bordo della corazzata Leonardo da Vinci, all’ancora nel porto di Taranto. Le esplosioni spezzarono la carena della nave e la fecero capovolgere in soli cinque minuti.
Ce n’era abbastanza per passare all’azione diretta. Già all’indomani della distruzione della corazzata Brin, il servizio informazioni aveva cominciato a lavorare. La Marina inviò a Berna uno dei suoi migliori ufficiali, il barone Pompeo Aloisi, capitano di corvetta, transitato per la diplomazia. Nella capitale elvetica aveva una sede l’Ufficio I del Comando Supremo e c’era il sospetto che lì si trovasse la chiave dell’azione nemica. Aloisi prese contatto con gli ambienti diplomatici, i locali alla moda, i locali più infimi. Raccolse le voci, ascoltò le chiacchiere e risalì a Zurigo, al nome di Rudolph Mayer e a un fuoriuscito italiano, l’avvocato Livio Bini, al soldo proprio di Mayer.
Alla legazione italiana di Zurigo fu assegnato il tenente d’artiglieria Ugo Cappelletti, come viceconsole, e a quella di Berna il tenente del genio navale Salvatore Bonnes, come addetto commerciale. Entrambi ingegneri e conoscitori del tedesco.
Convinsero subito Livio Bini a collaborare e cominciarono a penetrare la rete austriaca.
Dopo la distruzione della Leonardo Da Vinci, era tempo di chiudere la partita.
Anche perché, promosso capitano di vascello, Mayer aveva trasferito i suoi uffici di Zurigo e progettava nuovi attentati alla Banca d’Italia, alla Camera dei Deputati e alle corazzate Giulio Cesare, per il 5 marzo 1917, e la gemella Conte di Cavour, una settimana dopo.
In quel periodo, Pompeo Aloisi sorveglia il via vai dall’ufficio di Mayer e si convince che è indispensabile entrare, aprire la cassaforte, portare via tutto quanto contiene e distruggere così l’intera rete austriaca. Un’operazione audace che si scontra però con la prudenza di Roma: condurre operazioni coperte in un paese neutrale significa l’espulsione immediata, come minimo, e complicazioni diplomatiche a non finire. Il via libera tarda ad arrivare e, quando arriva, molti danni sono stati già fatti.
Aloisi prepara uomini e mezzi. Il gruppo operativo è composto dall’avvocato Bini, definitivamente arruolato come doppiogiochista: come uomo di Mayer prende le impronte delle chiavi degli uffici dell’Ezidenzbureau; Remigio Bronzin, specialista in serrature, fa le copie; Stenos Tanzini, sottufficiale di marina, pronto a rimpiazzare Bini che ogni tanto sembra esitante; Natale Papini è lo specialista in casseforti.
Natale Papini era un “professionista” dello scasso. Era stato arrestato, dopo aver svaligiato una banca di Viareggio. E in carcere lo avevano “pescato” gli uomini del questore di Milano, Falcetano, su richiesta del servizio segreto. Natale Papini non era un patriota. Aveva accettato di partecipare al colpo di Zurigo, perché aveva ricevuto una di quelle proposte che non si possono rifiutare: partire subito per la Svizzera, oppure salire sulla prima tradotta per il fronte. Aveva posto soltanto una condizione: tenere per sé tutti i valori trovati nella cassaforte che avrebbe aperto.
Il colpo di Zurigo rimase avvolto nel mistero per anni. La polizia Svizzera, secondo i giornali, si convinse che si trattava di un normale scasso, individuò e arrestò l’avvocato Bini e denunciò due suoi presunti complici.
Aloisi nel dopoguerra tornò alla diplomazia.
Cappelletti, Bonnes e Tanzini tornarono alla Marina Militare.
Bronzin non aveva chiesto ricompense e non ne ebbe.
Papini ricevette 30.000 lire, ma non i gioielli e gli altri oggetti preziosi che gli avevano promesso. Erano di proprietà personale di Mayer e all’ex nemico furono cavallerescamente restituiti dopo la guerra.
Sono passati 37 anni dalla notte di Zurigo e nel parlamento repubblicano l’onorevole Viola propone di “ovviare a una ingiustizia subita da un benemerito cittadino di nome Natale Papini, nato e domiciliato a Livorno... Riuscì a mettere a disposizione del controspionaggio italiano 6 plichi di interessanti documenti, nonché una buona quantità di denaro e gioielli, che dovevano essere suoi e invece furono incamerati dallo Stato. Papini è vecchio, ammalato e ultimamente è stato anche vittima di un grave incidente. Trovasi in una condizione veramente disperata. Se non si dovesse far presto in suo favore, correremmo il rischio di arrivare troppo tardi”.
Nel 1954 di Natale Papini non si ricordava più nessuno.
Arrivarono tardi.


Bibliografia

- “Aloisi e l’operazione Zurigo”, articolo di Luigi Romersa su “Il Secolo d’Italia”.
- Giuseppe De Lutiis, “Storia dei Servizi Segreti in Italia”, 1991- Editori Riuniti.
- Thomas Baumgarthen, “Spionaggio”, Milano 1934
- Maximilian Ronge, “Spionaggio”, Napoli, 1930.



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