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GNOSIS 4/2010
Ritorno al futuro?

La NATO dopo Lisbona


Alessandro BARCA

 
L’aggettivo che ricorre più frequentemente in ogni evento internazionale di qualche spessore è “storico”. Non c’è incontro i cui risultati non vengano presentati come degni di essere scolpiti a futura memoria nei libri di testo. Naturalmente, se all’evento si guarda dall’interno, qualunque decisione è destinata a incidere sulla storia – con la “s” minuscola – dell’Organizzazione a cui si riferisce, fosse solo per certificare che le cose vanno per il meglio e che occorre procedere sul cammino già tracciato (dopo tutto, “no news, good news”). Se invece l’osservatore è all’esterno, sono ben pochi gli avvenimenti ufficiali in grado di influire sulla Storia (con la “S” maiuscola) modificandone il corso. Il Summit della NATO che si è svolto a Lisbona lo scorso novembre merita la “S” maiuscola o minuscola?


Lisbona è stato uno dei Vertici più densi degli ultimi anni, con un menu che comprendeva diversi piatti principali e sostanziosi contorni politici e organizzativi. Tra i “plats de resistance” figurava in primo piano il “Nuovo Concetto Strategico”.
Dalla caduta del Muro, la messa a punto di “Concetti” che ispirano l’azione dell’Alleanza e ne ridefiniscono la “mission” è divenuta una prassi costante per la NATO. Per tre volte dopo il 1989, a scadenze regolari, l’Organizzazione si è trovata ad approfondire metodi, strutture e obiettivi. Un processo non del tutto indolore, che spesso ha costretto l’Alleanza ad attraversare profonde crisi identitarie. La differenza, stavolta, è che il “Concetto” di Lisbona non nasce da sconvolgimenti epocali (come nel 1991, dopo il crollo dell’Unione Sovietica) o da drammi bellici (come nel 1999, a seguito dei massacri nell’ex-Yugoslavia). Lisbona è stato un piatto preparato a freddo, che viene da lontano.
Basato sul rapporto del Comitato di Saggi presieduto da Madeleine Albright (1) , il “Concetto” approvato dai Capi di Stato e di Governo a ­novembre è un abile esercizio di ­mediazione, impregnato di quella che i diplomatici amano definire “ambiguità costruttiva”. È forse per questo eccesso di equilibrismo che le ricette proposte risultano un po’ insipide e danno in qualche punto la sensazione che il risultato finale sia stato quello di legittimare realtà, prassi e procedure non scritte già in uso, piuttosto che di innovarle davvero (2) .
Un giudizio ingeneroso, però, se si tiene in conto l’identikit dell’Al­leanza che emerge dal “Concetto”. Il ritratto di un colosso politico-militare in bilico tra passato e futuro, in cui “core tasks” non troppo dissimili da quelli elencati oltre dieci anni fa convivono assieme a linee guida calibrate sui rischi emergenti di un mondo “unpredictable”. Un mondo nel quale attori vecchi e nuovi si muovono in scenari dai tempi accelerati e che la globalizzazione ha reso più che in passato sensibile all’“effetto farfalla” (3) .
E in questo contesto nebuloso anche le formulazioni del “Concetto” ispirate alla cultura storica della ­NATO acquistano un nuovo significato, come frutto di sofferte mediazioni tra le esigenze contrastanti dei singoli Alleati.
Il mix tra passato e futuro risalta nettamente nella parte dedicata alla gestione delle crisi, tema che abbraccia l’eterno dilemma tra il profilo regionale e quello globale dell’Alleanza e le dispute sul suo perimetro geopolitico.
Sulla vocazione della NATO come strumento per assicurare la difesa comune e la sicurezza indivisibile dei suoi membri, così come sul carattere “firm and binding” dell’art. 5 (il vero princìpio fondante dell’Alleanza) il “Concetto” è adamantino. Ma l’ottica ormai è più ampia: l’Alleanza dev’essere in grado di prevenire, gestire e stabilizzare ogni crisi che rappresenti una potenziale minaccia per la sicurezza dei membri e della NATO come tale. E, a tal fine, “sostenere contemporaneamente operazioni congiunte di rilievo e di minore impatto... incluse quelle a distanza strategica”.
Anche in questo caso un principio acquisito: le “expeditionary operations” sono entrate da tempo a far parte della fisiologia dell’Alleanza e neppure i “regionalisti” più ortodossi potrebbero obiettare oggi sulla ­necessità che la NATO fronteggi le sfide alla sicurezza “da dovunque vengano” (4) .
Le missioni esterne hanno consentito all’ultra-sessantenne NATO di restare un “major player” sulla scena internazionale, smentendo quanti (e sono molti, anche dall’altro lato dell’Atlantico (5) ) ne continuano a mettere in dubbio la rilevanza dopo la caduta del Muro. E, anche sul fronte interno, le operazioni “out of area” hanno svolto una funzione positiva di catalizzatore per accelerare l’integrazione dei nuovi membri (che hanno aderito allo sforzo militare con maggior entusiasmo dei membri originali) e di impulso alla revisione delle strutture e dei criteri organizzativi. Last but not least, è alle “expeditionary operations” che va il merito di aver rinnovato l’attenzione degli Stati Uniti nei confronti della NATO e di averli convinti a riportare l’accento sul quadro multilaterale, rinunciando – almeno per ora – alle “coalitions of the willing”.
Resta, semmai (6) , l’esigenza di approfondire il problema nei suoi aspetti politici e organizzativi. L’assioma dei “fronti multipli” è stato severamente scosso dalla contestualità di operazioni che hanno sottoposto le Forze armate degli Alleati a uno sforzo ai limiti del sostenibile. Quanto ai vincoli esterni, l’ostacolo principale ad una globalizzazione indiscriminata è costituito dalle opinioni pubbliche dei Paesi alleati, che guardano con crescente insofferenza a operazioni in Paesi lontani e poco conosciuti, con obiettivi non sempre chiaramente delineati e che impongono un tributo pesante di vittime tra le truppe combattenti e le popolazioni civili.
È nel definire il mutato quadro della sicurezza internazionale e le minacce emergenti, invece, che il “Concetto” si inoltra a fondo nelle mutate realtà mondiali. Proliferazione, terrorismo, guerre informatiche, Stati falliti, attacchi alla libertà dei trasporti e alla disponibilità delle risorse idriche ed energetiche, rischi tecnologici, catastrofi naturali, persino tutela ambientale si aggiungono (e in parte si sostituiscono) alla tradizionale minaccia militare, imponendo una trasformazione dei metodi e delle strutture della NATO. Un panorama multiforme a cui va opposta una difesa “multistrato” di cui il “Concetto” disegna i tratti con un affresco ampio e ambizioso, che delega all’Alleanza una gamma molto estesa, qualitativamente e quantitativamente, di interventi mirati a situazioni eterogenee.
Forse troppo ambizioso (7) , per una struttura la cui fisionomia resta essenzialmente militare: prima di disperdere le sue limitate risorse in incarichi per i quali non è preparata, l’Alleanza dovrà valutare caso per caso l’utilità marginale delle singole iniziative rispetto alla strategia complessiva, evitando rischi di “overstretching”. O, ancor meglio, esplorare a fondo tutte le possibilità di condividere la realizzazione degli interventi con Organizzazioni meglio attrezzate in alcuni settori specifici, in primis l’Unione Europea (costante convitato di pietra dei Vertici NATO. Ma questa – come direbbe un noto giornalista televisivo – è un’altra storia). Una spia indiretta di tali perplessità è venuta dall’interno della stessa NATO, con il controverso dibattito che ha preceduto Lisbona sull’opportunità per l’Alleanza di dotarsi di una ­propria forza “civile” per interfacciare altre entità nel corso di crisi che implicano aiuti alle popolazioni e interventi di ricostruzione. E ancora oscuri rimangono gli spazi effettivi della NATO nel compito di assicurare la sicurezza energetica e idrica.
Dove l’immagine del colosso a cavallo tra due epoche si staglia con maggior vigore è nelle intese strategico-militari concordate a Lisbona.
Da un lato la nuclear posture dell’Alleanza. La presenza in Europa di un arsenale nucleare ha avuto per decenni una duplice funzione: quella di componente centrale della forza dissuasiva della NATO e quella di testimonianza tangibile dell’impegno statunitense alla difesa dell’Europa fino (ed oltre) la soglia nucleare.
In realtà, dopo la caduta del Muro, gli stocks nucleari accumulati negli anni della Guerra Fredda sono stati drasticamente ridotti e, sotto il profilo militare, la validità operativa delle testate ancora schierate in Europa è molto bassa. Montate su aerei – come i Tornado – le obsolete bombe tattiche fanno parte di una strategia mirata su bersagli vicini e darebbero un contributo di scarso rilievo alla difesa dell’Alleanza in caso di crisi. Resta intatto, invece, il loro significato a supporto della credibilità della garanzia nucleare americana.
Come notano alcuni studiosi (8) , durante l’intero periodo dei contrasti con l’Unione Sovietica, la necessità di essere credibile implicava per Washington non solo il possesso di mezzi adeguati a dissuadere il principale nemico, ma anche l’esigenza di “riassicurare” gli Alleati sull’effettiva volontà di utilizzarli in un conflitto. Ancora nel 2001, la “reassurance” veniva definita dagli stessi Stati Uniti (Quadriennial Defense Review) come “funzione della capacità percepita di deterrenza”. Una capacità basata, da un lato, sul castigo (punishment) che avrebbe potuto essere inflitto all’avversario e spinto fino alla sua sconfitta totale (defeat). Dall’altro, sull’abilità di contrastare o impedire al nemico (denial) l’utilizzo dei propri mezzi offensivi.
Dopo la caduta del Muro, l’obiettivo della defeat – per il quale le armi nucleari rivestivano un ruolo primario – è scomparso dalla strategia della NATO e, come indica anche lo “Strategic Concept” del 1999, “le forze nucleari della NATO non sono più dirette contro alcun Paese specifico”.
Il progressivo attenuarsi dell’opzione nucleare nella strategia di deterrenza ha però creato una netta divisione all’interno dell’Alleanza tra “disarmisti illuminati” – guidati dalla Germania – favorevoli, per motivi di politica interna e di distensione con la Russia, alla prospettiva di una denuclearizzazione dell’interno dell’area NATO e “nuclearisti a oltranza” – come la maggior parte dei Paesi dell’Est europeo e la Turchia – per i quali l’arsenale tattico costituisce una garanzia imprescindibile contro la minaccia da Est e che sarebbero addirittura felici di ospitare o accrescere lo stock di bombe sul proprio territorio (incuranti del rischio di suscitare nuove allarmate reazioni di Mosca) (9) . E una tessera a parte, in questo intricato mosaico, è rappresentata dai Paesi europei che dispongono di un proprio arsenale nucleare, in particolare la Francia – ferocemente contraria a veder intaccato il ruolo privilegiato che le conferisce la sua “force de frappe”. Non a caso le dispute più accese nel dibattito pre-Lisbona sono state legate ai contrasti tra Parigi e Berlino.
Non stupisce, quindi, che il “Concetto” abbia privilegiato l’approccio tradizionale ricorrendo a formule salomoniche. “La deterrenza basata su un mix appropriato di capacità nucleari e convenzionali resta il fulcro della nostra strategia complessiva. Le circostanze in cui può essere contemplato l’uso del nucleare sono estremamente remote. Finché le armi nucleari esisteranno, la NATO resterà un’Al­leanza nucleare”. Con un’unica concessione ai “disarmisti”: “abbiamo drammaticamente ridotto il numero di armi nucleari basate in Europa e il ruolo delle armi nucleari nella strategia della NATO e cercheremo di creare le condizioni per ulteriori riduzioni in futuro” (10) .
Un linguaggio tiepido, che forse lo stesso Presidente Obama giudica in cuor suo eccessivamente cauto: la nuova Amministrazione democratica ha fatto della denuclearizzazione a tutti i livelli una delle sue bandiere più significative e punta a ulteriori negoziati con la Russia sulle armi atomiche tattiche (incluse quelle in Europa). Naturalmente, però, non ha potuto non tener conto delle forti resistenze dei Repubblicani, per ammorbidire le quali il mantenimento dell’opzione nucleare della NATO (assieme agli impegni sull’ammodernamento dell’arsenale nucleare americano e alla difesa missilistica) è entrato a far parte del pacchetto che ha agevolato la ratifica del Nuovo START.
Quanto alle “forces de frappe” il “Concetto” si limita a ribadire che: “La garanzia suprema della sicurezza per gli Alleati è assicurata dalle forze nucleari strategiche dell’Alleanza, in particolare quelle degli Stati Uniti; le forze nucleari strategiche indipendenti del Regno Unito e della Francia – che hanno un proprio ruolo nella deterrenza – contribuiscono alla deterrenza complessiva della sicurezza degli Alleati”.
Fin qui nulla di veramente “Storico” quindi. Tuttavia, Lisbona sarà ricordata per una grande novità, un momento in cui la visione del futuro ha preso il sopravvento: l’avvio del piano di difesa missilistica.
Già al Vertice di Bucarest nel 2008 era stata avallata la proposta dell’Amministrazione Bush per la realizzazione di un “Terzo Sito” europeo che completasse il sistema di difesa americano. Un’ipotesi che, però, come tutti ricorderanno, aveva suscitato le furiose reazioni della Russia e, in qualche misura, le perplessità degli stessi Alleati, rimanendo alla fine in “stand by”. Che cosa è cambiato?
Il piano che l’Amministrazione Obama ha presentato ai partners della NATO nel settembre 2009 (in anticipo sulla “Ballistic Missile Defense Review – BMDR” pubblicata nel Febbraio successivo) è profondamente diverso dalla proposta Bush: nell’architettura, negli obiettivi, nei tempi, nel perimetro di copertura, nei costi e nella gestione. In concreto il contrastato “Terzo Sito” costituiva un ulteriore pilastro del sistema “ground based” americano, destinato a missili di lunga gittata e già parzialmente attuato dagli Stati Uniti in Alaska e California, di cui solo Washington avrebbe saldamente tenuto le redini. Non solo: la copertura dello “Scudo” non avrebbe raggiunto alcune parti dell’Europa Sud-Orientale, che sarebbero rimaste indifese contro attacchi di qualsiasi provenienza.
Non sorprende, pertanto, che il Piano Bush abbia suscitato tanti malumori. Della Russia, anzitutto, che – a torto o a ragione – vedeva nel super-radar da installare nella Repubblica Ceca e nella batteria di intercettori previsti in Polonia un pericolo per il proprio apparato dissuasivo e una modifica a suo sfavore dell’equilibrio strategico globale. Preoccupazioni esagerate, forse, sotto il profilo militare, considerato che – come nota un rapporto dell’Assemblea Parlamentare della NATO del 2008 (11) – un numero limitato di intercettori non avrebbe potuto garantire in alcun modo una difesa contro le migliaia di missili balistici intercontinentali tuttora a disposizione dei russi. Ma comprensibili sotto quello politico, se si tiene conto dei rapporti che prevalevano all’epoca con gli Stati Uniti e della sensibilità di Mosca per ogni iniziativa in grado di incidere, anche solo marginalmente, sul bilancio complessivo della deterrenza.
Altrettanto timorosi gli atteggiamenti dei diretti interessati (Repubblica Ceca e Polonia) che si erano lasciati convincere solo dopo molte promesse e pressioni americane. E, soprattutto, sulla pausa di riflessione del Piano Bush avevano influito i dubbi degli stessi americani – democratici in testa – allarmati dei costi esorbitanti del programma e dall’incertezza sulla sua concreta fattibilità sotto l’aspetto tecnologico. Dubbi confermati dal già citato Rapporto dell’Assemblea Parlamentare NATO, la cui conclusione era che “l’affidabilità del sistema non è ancora dimostrata” e che comunque “il sistema antimissile territoriale per l’Europa dovrà conservare una dimensione minima e proporzionata, senza essere trasformato in un vero e proprio Scudo, rassicurando gli oppositori, in primis la Russia, che esso non costituisce una minaccia per i loro interessi di sicurezza”.
Allora, qual è ora la differenza? Perché Mosca ha assunto un atteggiamento conciliante, rinunciando a provocazioni come quella di spostare il super-radar in Azerbaidjan o di installare una propria base missilistica a Kaliningrad?
Sotto l’aspetto pratico, il “regional plan” di Obama ha prima di tutto tagliato drasticamente i costi (273 milioni di dollari contro i 712 che erano stati richiesti a fine 2008 per il “Terzo Sito”) e allungato i tempi. Il nuovo programma “phased and adaptive” proposto dall’Amministrazione democratica si articolerà in quattro fasi, dal 2011 al 2020 (12) e sarà “flessibilizzato” in funzione dell’evolversi della minaccia. Inoltre, come precisa la BMDR, l’architettura complessiva sarà composta da strutture regionali che condivideranno assets comuni, mirati agli specifici requisiti della regione. Viene invertito, in altri termini, il concetto della “ownership”: il piano si trasformerà da porzione europea di un programma tutto americano in un contributo statunitense alla realizzazione di una capacità integrata della stessa NATO, che ingloberà anche il sistema di missili di teatro “Active Layered Theatre Ballistic Missile Defense – ALTBMD” avviato fin dal 2005 e del quale verranno accelerate attuazione e interoperabilità.
Certo, qualche nota dolente, non è mancata neppure stavolta. Anzitutto il problema del “burden sharing”, particolarmente delicato nell’attuale frangente di ristrettezze economiche e sul quale la stessa Italia nutre qualche preoccupazione (anche se l’ambizioso programma potrà costituire una grossa occasione per le nostre industrie della Difesa). Per altro verso, hanno dovuto essere superate le resistenze dei Paesi nucleari, specialmente la Francia, che insisteva sull’esigenza di affermare apertamente la “complementarietà” tra difesa missilistica e opzione nucleare. E, soprattutto, il dibattito sulla difesa missilistica ha fatto emergere prepotentemente il ruolo della Turchia – vero protagonista del Vertice di Lisbona – che, con lo sguardo all’Iran e agli sviluppi mediorientali, ha chiesto e ottenuto come condizione per aderire al Piano americano che non fossero menzionati i Paesi contro i quali il ­sistema anti-missile dovrebbe essere orientato.
La grande novità, tuttavia, è stata l’atteggiamento conciliante della Russia – riflesso dal Comunicato finale del NATO-Russia Council – che, superando la tradizionale sindrome dell’accerchiamento, ha accettato di approfondire seriamente i progetti della NATO, di cui si ritiene partner potenziale, abbracciando un’ottica di prospettiva o forse – più pragmaticamente – la filosofia del “if you can’t beat them, join them”. E che il “reset” stia funzionando lo dimostra anche la consistente mano che la disponibilità di Mosca ha dato al Presidente Obama per spuntare la ratifica del Nuovo START, superando le arcigne resistenze Repubblicane.
In conclusione, anche se non si è trattato di una rivoluzione copernicana, Lisbona ha marcato un deciso passo avanti verso l’adattamento della strategia NATO alle intricate variabili di un mondo multipolare, e – chissà – alla revisione, in futuro, dei fantasmi della “Mutual Assured Destruction”, spostando l’accento della deterrenza verso il “denial” a scapito di “punishments” sempre più politicamente difficili da realizzare o di improbabili “defeats”.
Che risposta dare quindi all’interrogativo sulla valenza storica (con “S” maiuscola o minuscola) del Vertice? Forse la formula migliore è stata quella suggerita dall’Ambasciatore americano Ivo Daalder: “I dont know if it was an historic meeting, but it was indeed very important”.


(1) Il Gruppo di Esperti incaricato dal Vertice di Strasburgo-Kehl dell’Aprile 2009 di elaborare il nuovo Concetto Strategico è stato coordinato dal Segretario Generale Rasmussen. Del Gruppo ha fatto parte anche l’Ambasciatore italiano Giancarlo Aragona, già Direttore Politico e Ambasciatore a Londra.
(2) Cfr. M. Arpino, La NATO a Lisbona ripensa sé stessa, IAI – Affari Internazionali – 15 .11.2010.
(3) L’“effetto farfalla” è una metafora che esemplifica alcuni princìpi della teoria matematica del caos. Un cambiamento marginale in una parte di un sistema complesso può avere effetti amplificati in altre parti del sistema. Così il battito delle ali di una farfalla in un’area remota del mondo può scatenare – attraverso una serie di imprevedibili passaggi collegati – effetti devastanti in zone di opposti Continenti.
(4) Dichiarazione finale del Vertice di Praga (21.11.2002) par. 3.
(5) S. Walt, Is NATO irrelevant? – Foreign Policy on line – 24 . 9. 2010.
(6) Cfr. A. Carati - E. Fassi, Verso il nuovo Concetto Strategico. Il ruolo delle missioni per il futuro della NATO, ISPI Analysis – Novembre 2010.
(7) R. Alcaro, Combining realism with vision. Options for NATO’s new Strategic Concept, – Documenti IAI – Maggio 2010.
(8) D.S. Yost, Assurance and extended deterrence in NATO, International Affairs 55: 4 (2009), pp. 755-780.
(9) Un esempio illustra la percezione di alcuni Paesi dell’Est europeo rispetto alla persistente minaccia russa. La stampa americana ha riportato di recente, sulla base di rapporti riservati diffusi da Wikileaks le insistenze dei Paesi baltici sostenuti dalla Germania per ottenere – dopo la crisi in Georgia – l’estensione al proprio territorio del piano di difesa NATO già in vigore per la Polonia. In tale occasione, l’Ambasciatore americano presso la NATO scriveva a Washington che “Gli Stati baltici ritengono chiaramente che la Federazione Russa rappresenta un rischio futuro per la sicurezza e auspicano un piano di contingenza per farvi fronte”. Il nuovo piano – chiamato “Eagle Guardian” – è stato approvato nel Gennaio 2010. Cfr. The Global Edition of the New York Times, 7.12.2010.
(10) Strategic Concept 2010 – par. 17 e par. 26.
(11) Assemblea Parlamentare NATO – Commissione Scienza e Tecnologia, Difesa antimissile. Il punto di vista dell’Alleanza, Relatore Speciale Michael Mates (UK), 26.09.2008.
(12) “In phase 1 (2011 time frame) existing missile defense systems will be deployed to defend against short and medium-range ballistic missiles. Phase 1 will focus on the protection of portion of southern Europe by utilizing sea-based Aegis missile defense – capable ships and interceptors (the SM-3 Block I A). The first phase will also include a forward-based radar, which, by providing data earlier in he engagement, will enhance the defense of Europe and augment homeland defense capabilities already in place in Alaska and California.

In phase 2 (2015 time frame) our capabilities will be enhanced by the fielding of a more advanced interceptor (the SM-3 Block IB) and additional sensors. Phase 2 will include land-based SM-3s in southern Europe, in addition to their sea-based locations, expanding coverage to additional NATO allies.

In phase 3 (2018 frame) coverage against medium- and intermediate-range threats will be improved with a second land-based SM-3 site, located in northern Europe, as well as an upgraded Standard Missile 3 (the SM-3 Block II A, which is already under development) at sea- and land-based sites. These changes will extend coverage to all NATO allies in Europe.

In phase 4 (2020 time frame) an additional capability against a potential ICBM launched from the Middle East against the United States will be available. This phase will take advantage of yet another upgrade to the missile defense to the Standard Missile 3, the Block II B. All four phases will include upgrades to the missile defense command and control system” (Ballistic Missile Defense Review - February 2010 - p. 24).

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