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GNOSIS 4/2010
Strategie economiche a medio e lungo termine

Riforma infrastrutturale: gli strumenti non mancano


Francesco MENGOZZI, Andrea SALVATI

Gli investimenti infrastrutturali in Italia e, più in generale in Europa, visti anche quale potenziale strumento per rafforzare i timidi segnali di ripresa dalla attuale crisi economico-finanziaria, sono oggetto di riflessione in questo contributo. In particolare, per quanto riguarda il nostro Paese (negli ultimi decenni caratterizzato da tassi di crescita infrastrutturale inferiori rispetto ai principali concorrenti europei), il rapporto tra complessità dell'assetto normativo/autorizzativo/procedurale e gli aspetti più propriamente relativi a vecchi e nuovi strumenti di finanziamento delle infrastrutture (ad es. project financing, PPP, project bond ovvero veicoli/fondi dedicati) paiono rappresentare il nucleo del tema che, si auspica, occupi nei mesi a venire con sempre maggior peso le agende di policy e decision makers.

Le infrastrutture sono fondamentali. Tanto basta per definire, più in generale, quello che le infrastrutture rappresentano per la competitività di un paese, per le sue imprese e per la qualità di vita dei suoi cittadini. Ciò è verificabile nella vita di tutti i giorni nella dotazione e nella funzionalità delle infrastrutture, in particolare di quelle a supporto della mobilità e della logistica, ma anche di quelle energetiche, idriche, ambientali e sociali.
(Confindustria, Roma 30 settembre 2009)


La definizione di piani di investimento strategico-infrastrutturali di lungo termine quale strumento di exit strategy dalla recente crisi finanziaria internazionale rappresenta uno dei principali temi di discussione a livello internazionale ed in Europa in particolare.
Maggiori tassi di crescita del PIL attraverso la componente infrastrutturale, vincoli di bilancio pubblico e strumenti di finanziamento sono capitoli sempre più all’ordine del giorno per i decision makers, siano essi di estrazione politica, rappresentanti delle principali istituzioni finanziarie nazionali e sovranazionali o investitori istituzionali.
Per comprendere la dimensione continentale dei termini del problema (si rimanda a tal proposito all’ampio dibattito circa l’adozione di strumenti di finanziamento emessi direttamente dalla UE, i cosidetti Eurobonds o titoli di debito sovrano europeo) è sufficiente considerare un recente studio della Commissione Europea che stima in circa 400 miliardi di euro per il periodo 2007-2013 il fabbisogno finanziario per realizzare le sole reti trans-europee dei trasporti (Ten-T). Oppure ricordare che il piano di investimenti UE nei prossimi dieci anni in tema di energie rinnovabili ed efficienza energetica sarà di circa 1.000 miliardi di euro (senza contare le risorse necessarie per la manutenzione delle infrastrutture esistenti).
D’altro canto basta riflettere sulla capacità espansiva degli investimenti in infrastrutture per rendersi conto dell’importanza anche sociale e politica di ogni significativa variazione nello stock di dotazioni infrastrutturali di un Paese, nel contesto dei fenomeni che più caratterizzano l’ambiente di vita delle società investite dalle tendenze verso la globalizzazione.
È d’obbligo pertanto ritenere che ingenti capitali privati dovranno necessariamente essere attivati per sostenere gli investimenti necessari allo sviluppo.
Nel nostro Paese tale tema è ancora più sentito (come dimostra il recente “Piano Sud” da circa 100 miliardi di euro predisposto dal Governo che vedrebbe nel rilancio delle infrastrutture nel Mezzogiorno d’Italia il principale volano di crescita dell’area nei prossimi anni) tenuto anche conto di un ampio gap infrastrutturale accumulato rispetto ad alcuni dei principali competitor. Non è un mistero infatti che l’Italia nel corso negli ultimi 40-50 anni non sia riuscita a sostenere tassi di sviluppo infrastrutturali paragonabili a quello delle più importanti economie europee.


La rete autostradale, per esempio, è cresciuta ad un multiplo di 0,7x (ovvero del 70%) contro multipli di 30x della Spagna, di 6x della Francia e di 2x della Germania; quella ferroviaria ad alta velocità, nonostante all’inizio degli anni ‘80 fossimo, insieme alla Francia, gli unici in Europa ad esserne dotati, oggi in Italia ha un’estensione pari più o meno alla metà di quella di Francia, Spagna e Germania. In tema di mobilità urbana, infine l’Italia conta circa 160km di metropolitane, contro 340km della Francia, 530km della Spagna e 600km della Germania.
Cosa dire rispetto a tali ultime considerazioni?
- Che per un rilancio infrastrutturale in Italia occorra probabilmente rifondare l’assetto normativo del settore partendo dalla riforma dell’art. 117 della Costituzione come vorrebbero alcuni critici della cosiddetta legislazione concorrente (fra Regioni e Stato) in materia di infrastrutture?
- E, magari, rivedere i meccanismi di generazione ed acquisizione sul territorio del consenso all’infrastruttura?
- E anche passare per una revisione delle normative procedimentali, per ovviare alla convinzione che presto e bene si concilino solo con poteri speciali?
- Ed anche delle normative sui ricorsi e sulla tutela dei tempi della realizzazione delle opere?
Per molte di queste cose un intervento riformatore sarebbe necessario ed urgente; ma si ha anche la consapevolezza di quanto difficili siano i percorsi implicati da interventi normativi così complessi e delicati.
Dunque nelle more di più profonde riforme è intanto urgente fare.
Qui sopraggiunge il nodo strutturale che, più ancora dei vincoli normativi, ha determinato in passato gran parte delle carenze quantitative e qualitative che abbiamo illustrato: il nodo, come è ovvio capire, è quello finanziario: aspetto ancora più critico nella fase attuale in cui gli Stati europei sono impegnati in opere di risanamento dei conti pubblici ed il sistema bancario è tuttora oggetto di forte ristrutturazione.
In particolare, la ridotta capacità di investimento del nostro Paese nel suo complesso, per i chiari vincoli di spesa (è ormai noto a tutti che l’Italia “vanta” il maggior debito pubblico – dell’ordine del 118% del PIL, poco meno del doppio rispetto alla media di tutti gli altri Paesi Europei, esclusa l’Italia) ha determinato il forte rallentamento nella nostra crescita dello stock infrastrutturale.
Consideriamo anzitutto il profilo della strumentazione tecnica nell’ambito della quale ricercare linee di azione succedanee rispetto al tradizionale finanziamento pubblico dei progetti infrastrutturali: sotto questo profilo appare evidente l’importanza decisiva dello strumento succedaneo per eccellenza: il project financing (PF) o, come meglio oggi si dice quando c’è un maggiore coinvolgimento pubblico, il PPP ().
Nella assai probabile costanza/ inasprimento del vincolo di spesa del bilancio statale, sarebbe abbastanza facile individuare in tali (del resto non certamente nuovi) strumenti (in Italia scarsamente utilizzati, salvo lodevoli e ormai storiche operazioni) la via d’uscita più rapida alla limitatezza delle fonti di finanziamento pubbliche degli investimenti infrastrutturali.
E, pur tuttavia, essi risultano utilizzati in un range tutto sommato limitato di operazioni ed anzi, spesso circondati da uno scetticismo che affonda le sue radici, ad avviso di chi scrive, nella scarsa coscienza dei vantaggi e dei limiti degli strumenti in discorso. Giova, forse, qui brevemente ricapitolarli:
- Fra i vantaggi: a parte quello di non pesare o di pesare limitatamente sul bilancio pubblico, il progetto in PF o in PPP normalmente implica che il progetto venga sottoposto a verifica, validazione e controllo in misura assai più penetrante di quanto normalmente non avvenga con progetti totalmente pubblici; il che, occorre riconoscerlo, non sempre risulta gradito. Inoltre la struttura giuridica del rapporto tende a mantenere allineati, per molti aspetti (costi e tempi, in particolare), gli interessi del realizzatore con quello della stazione appaltante/concedente.
- Fra i limiti: ancora una volta si tratta di limiti connessi all’insufficiente sviluppo della specifica normativa, che, per il loro tecnicismo, non è il caso qui di richiamare se non per ricordare la grande criticità dell’allocazione del cosiddetto rischio amministrativo, soprattutto in fase di acquisizione del consenso sul territorio (chi vuole può documentarsi sull’apposito Occasional Paper recentemente pubblicato dalla Banca d’Italia).
Un’utile ingegnerizzazione degli schemi di PF o di PPP può essere realizzata col ricorso, del resto per alcuni versi ovvio, a strumenti di liberazione di risorse pubbliche, ove necessarie a supporto finanziario degli interventi di mercato: basti pensare, semplicemente alla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (le operazioni effettuate in passato potrebbero essere replicabili, con i necessari adattamenti e in funzione delle condizioni dei mercati finanziari, se del caso anche a valle della cosiddetta federalizzazione del demanio pubblico, recentemente avviata) oppure alla più complessa ma non meno efficace finanziarizzazione dei valori esterni generati dall’infrastruttura, ancora apparentemente quasi sconosciuto come strumento di finanziamento ma in realtà ben chiaro nella mentalità di molti imprenditori privati; si tratta, in buona sostanza, di porre a frutto dal punto di vista finanziario la generazione di ricchezza che ogni infrastruttura indirettamente genera nel contesto territoriale interessato dalla singola infrastruttura economica (esempio tipico: valorizzazione di aree, etc).
Ovviamente l’attivazione su larga scala di strumenti di mercato, da soli o in concorso con interventi pubblici, potrebbe porre anche problemi di appropriata strumentazione per la provvista finanziaria, almeno per le operazioni di maggiore rilevanza, idealmente transnazionale. Da questo punto di vista uno strumento particolarmente adatto per il finanziamento di grandi progetti infrastrutturali può essere costituito dai cosiddetti Project Bond. Si tratta di vere e proprie obbligazioni per finanziare singoli grandi progetti, emessi da un promotore (definito “società di progetto”) e promosse da grandi investitori istituzionali. Un esempio di grande investitore istituzionale potrebbe essere il “Fondo Marguerite” costituito dalle più importanti Casse Depositi e Prestiti europee e dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI).
Quali sono le principali caratteristiche di queste obbligazioni di progetto o Project Bond:
- l’interesse a sottoscrivere i project bond si può individuare soprattutto in soggetti di mercato interessati a investimenti di lungo periodo come le casse di deposito, i fondi pensione, le compagnie di assicurazione e i fondi sovrani (si pensi al riguardo alla grande opportunità offerta dagli enormi surplus accumulati da paesi emergenti quali la Cina o l’India), ma anche il risparmio delle famiglie;
- i maggiori ostacoli all’introduzione dei project bond riguardano non tanto lo strumento in sé quanto piuttosto la natura dei sottostanti progetti (e quindi, in sostanza i soggetti emittenti come le “società di progetto”) troppo spesso insufficientemente convalidati dal punto di vista dei ritorni finanziari che dovrebbero generare le nuove opere, anche per effetto, soprattutto in Italia, delle incertezze che si generano in ordine alla stabilità del quadro progettuale e dell’iter realizzativo, reso spesso incerto da ritardi nelle procedure tecnico-amministrative;
- altro elemento da tenere in considerazione è l’effetto della crisi finanziaria sulle assicurazioni monoline che fungevano in passato da wrapper sui titoli emessi al fine di migliorare il merito di credito del progetto e renderlo in qualche misura meno rischioso per gli investitori, ruolo che alcune importanti istituzioni finanziarie sovranazionali dotate di elevato credit rating potrebbero considerare (es. BEI o lo stesso network Marguerite);
- una urgente Riforma Infrastrutturale potrebbe favorire lo sviluppo del project financing attraverso incentivi fiscali, la revisione delle modalità di intervento della Cassa Depositi e Prestiti, la modifica dei meccanismi di qualificazione delle imprese, la riduzione dei ritardi dei pagamenti alle aziende, il compattamento e la stabilità delle procedure, etc..
In ultimo, per quanto riguarda l’Italia, in relazione al complesso delle attività infrastrutturali ritenute strategiche (e perciò non privatizzabili) per il Paese e possedute in tutto o in parte direttamente o indirettamente dallo Stato, alcune di esse quotate in borsa, si potrebbe individuare una società (la stessa CDP?) o fondo di investimento di interesse nazionale a controllo pubblico, esistente o di nuova costituzione, a cui:
- trasferire compendi di attività o partecipazioni azionarie detenute in aziende operanti in settori infrastrutturali ritenuti strategici per il Paese (brown field);
- delegare la pianificazione e l’implementazione di nuovi progetti infrastrutturali caratterizzati dal medesimo grado di interesse per la comunità (green field).
La struttura patrimoniale ed economico-finanziaria della società o dei fondi dovrebbe essere tale da garantire (per obblighi statutari) che attraverso il flusso di risorse generate dalle attività infrastrutturali già messe a reddito, unitamente al ricorso al mercato a finanziamenti sul mercato rivolti ad investitori istituzionali ed al pubblico dei risparmiatori, le prime sostengano le seconde che a loro volta, quando a reddito, dovrebbero supportare lo sviluppo di nuovi progetti.
L’asset value complessivo di questa nuova realtà potrebbe raggiungere alcune decine di miliardi di euro e generare risorse significative vincolate allo sviluppo infrastrutturale del Paese. Tale impostazione, che dovrebbe ovviamente essere accompagnata da precise scelte di politica industriale, avrebbe il vantaggio di:
- mantenere sotto il controllo pubblico attività strategiche;
- sviluppare economie di scala nella gestione di attività caratterizzate da logiche similari;
- valorizzare il moderno ruolo di Stato “arbitro” che focalizza risorse finanziarie e manageriali sul terreno rappresentato dall’insieme dei networks/backbones strategici del Paese;
- mirare gradualmente alla condizione ideale di autofinanziamento dell’intero comparto delle reti nazionali in un ottica rolling di “brown financing green” senza carichi aggiuntivi per lo Stato.
Certamente per passare ad una fase di forte rilancio degli investimenti in infrastrutture in Italia e, soprattutto per dotarsi di una strumentazione decisionale non solo congiunturale/emergenziale, alcune azioni appaiono necessarie sia sul piano normativo sia su quello, per così dire, culturale (in particolare ci si riferisce – l’insistenza sul tema non è casuale – a quanto sia accidentato in Italia il percorso del consenso o quanto sia snaturata la filosofia delle cosiddette “opere compensative”, che tanto spesso gravano i costi di realizzazione delle infrastruure senza generare dotazioni aggiuntive di sicura autonomia economica).
Ma, ciononostante, esistono strumenti, tecniche e know-how nonché una platea di investitori istituzionali che aspettano solo di essere applicati/coinvolti sui progetti a condizione che questi siano:
- validi dal punto di vista infrastrutturale;
- e, per conseguenza, convalidabili sul piano economico e finanziario con adeguati ritorni per gli investitori (troppo spesso alcuni progetti infrastrutturali rispondono più ad esigenze localistiche che non ad effettive esigenze strutturali comprovabili dal punto di vista economico);
- assegnati con procedure rapide ma trasparenti;
- “acconsentiti” con certezza sul territorio.
A queste condizioni non ci sarebbe ragione di dubitare in ordine alla finanziabilità sul mercato di operazioni, anche ingenti, di upgrading qualitativo e quantitativo del Paese, sia per le caretteristiche tipiche degli asset infrastrutturali sia per le vere e proprie opportunità che il finanziamento delle stesse genera.





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