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GNOSIS 3/2009
Con i 'droni' ed il 'soldato digitale'


Per il terrorista
arriva l'epoca della paura


Guido OLIMPIO


Foto Ansa
 
Se non siamo alle “guerre stellari”, poco ci manca. Con il Terzo Millennio l’avanzare della tecnologia s’è fatto prepotente anche in campo bellico.
Siamo a un passo dal soldato robot, mentre i cieli sono solcati da piccoli aerei silenziosi capaci di “leggere” il terreno e di trasmettere immagini e informazioni in tempo reale a un operatore distante migliaia di chilometri. In un attimo deciderà se dare alla “spia” anche “licenza di uccidere” con la pressione di un pulsante.
Sono i “droni”, piccoli aerei telecomandati capaci di volare per ore e ore. Sono i nuovi strumenti di combattimento degli eserciti moderni, gli “occhi” delle strutture di intelligence sofisticate in territori dove un agente infiltrato sarebbe facilmente scoperto.
Guido Olimpio ci conduce all’interno dei nuovi scenari della lotta al terrorismo e alla pirateria, all’immigrazione clandestina e al traffico di droga, ma anche nei centri di addestramento dei nuovi soldati “digitalizzati”per i quali il campo di battaglia assumerà sempre più le sembianze di un tragico videogame che ha come posta la vita.

Sono i nuovi agenti “con licenza di uccidere”. Silenziosi, armati in modo sofisticato, capaci di vedere dove l’occhio umano non arriva, in grado di stare per ore dietro il loro bersaglio. E non hanno scrupoli. Perché non possono averne. Sono i droni, gli aerei senza pilota impiegati nella caccia ai terroristi e ai nuovi pirati, nella difesa dei confini, nella sorveglianza di grandi eventi. A volte si accontentano di spiare dall’alto quello che accade con le loro apparecchiature sensibili, in altre occasioni possono sparare per neutralizzare una minaccia o prevenire un attentato. Li impiegano – in modo massiccio – gli americani, quindi gli israeliani che sono stati i pionieri nell’uso degli Uav (Unmanned Aerial Vehicle).
Ma i droni – come il Predator o il Reaper – sono entrati in un buon numero di aviazioni, compresa quella italiana che li ha schierati prima in Iraq, poi in Afghanistan, infine in Abruzzo, dopo il sisma e in occasione del summit internazionale dell’Aquila. I piani prevedono maggiore spazio all’interno dell’Aeronautica, a patto di poter aver tempo per addestrare i piloti. Di recente un Predator di ultima generazione è partito dalla base di Amendola, in Puglia, ed ha raggiunto la Sardegna. Un volo effettuato grazie all’assistenza del satellite che evidenzia competenza e avanguardia nell’utilizzo del sistema.
Per alcuni i droni sono la soluzione, per altri solo uno strumento temporaneo che non può alterare il quadro strategico. Altri, ancora, ritengono che in certe situazioni i loro raid – come quelli dei caccia – siano controproducenti.
Ne parleremo più avanti. Certo è che la lotta sul campo ai terroristi è mutata con l’apparizione dei droni e la stessa Al Qaeda, a varie latitudini, ha dovuto ammettere di averne paura. Ha rivelato di temere queste macchine volanti che non si vedono e non si sentono, ma che invece sono là fuori ad aspettare l’obiettivo. Per un qaedista è come camminare continuamente con un puntino rosso sulla testa: un raggio sottile che può significare morte.
Assieme ai droni sono stati schierati sul campo di battaglia migliaia di altri mezzi automatizzati e guidati in modo remoto dai soldati. Non solo. Anche l’equipaggiamento del fante è mutato: computer ed elettronica, sistemi integrati, hanno trasformato e trasformeranno il modo di andare in battaglia.
Sono ancora gli americani – grazie a finanziamenti imponenti – a fare da battistrada. Nel 2003, durante l’invasione dell’Iraq non c’erano robots. Un anno dopo sono passati a 150. Alla fine del 2005 a 2400. Oggi se ne contano oltre 12 mila. E di questi una parte consistente sono Predator, Reaper, Global Hawk, schierati in area d’operazioni – dal Medio Oriente all’Asia – ma pilotati da equipaggi basati negli Stati Uniti.


Le origini

Gli Stati Uniti, sempre divisi tra il rispetto dei principi democratici e l’esigenza di rispondere a questioni di sicurezza, hanno gestito con difficoltà le “operazioni sporche”. Prima o poi qualcuno vuotava il sacco con la stampa, creando imbarazzi morali e grane politiche. Così dopo otto tentativi di eliminare il leader cubano Fidel Castro – forse i complotti sono stati di più – i Presidenti Ford e Carter hanno firmato ordini per impedire l’assassinio di Capi di Stato nemici. Ma la realtà spesso spazza via gli ideali o costringe a compromessi. Dunque, il repubblicano Ronald Reagan lanciò uno strike sulla residenza del colonnello libico Gheddafi, in ritorsione ad un attentato anti-americano in una discoteca di Berlino. Nel 1998 è la volta del democratico Bill Clinton a cercare il bersaglio grosso, ordinando il tiro di missili da crociera su campi d’addestramento in Afghanistan. Un blitz autorizzato in risposta alle stragi in Africa compiute da terroristi di Al Qaeda.
In questa occasione si racconta che Osama Bin Laden ed alcuni dei suoi più stretti collaboratori siano sfuggiti per un soffio al bombardamento. Una versione sostiene che qualcuno lo abbia avvisato due ore prima. Una seconda parla di casualità: lo sceicco temeva una rappresaglia ed ha fatto i bagagli prima che la rappresaglia statunitense lo potesse ghermire.
Con l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, nel 2001, il quadro muta di nuovo. Il Presidente George W. Bush firma un ordine esecutivo che permette ai Servizi di sicurezza e alle Forze armate di localizzare e uccidere i Capi del terrore. Un’autorizzazione che trova sbocco immediato. Nel novembre 2001 cade, in seguito a un raid, Mohammed Atef, l’egiziano responsabile dell’apparato militare di Al Qaeda in Afghanistan. Azione attribuita ad un attacco aereo, forse condotto da un Predator. Un altro drone – non armato – si limita a seguire un corteo di jeep sui monti afghani vicino a Kandahar. Le immagini mandate alla stazione di controllo mostrano una figura alta e longilinea che - secondo alcune interpretazioni – può essere Osama in persona. Ma la catena di comando non è abbastanza rapida nel far intervenire un velivolo armato e l’importante obiettivo fa perdere le tracce. Un centro mancato che spinge Intelligence e Pentagono ad accelerare il programma per dotare la maggior parte dei droni con missili.
Il sistema dimostra la sua efficacia nel 2002 quando un Predator sorprende ed elimina, nello Yemen, Abu Al Harethi, accusato di aver organizzato l’attentato contro la nave da guerra statunitense Cole, ad Aden (2000). Con lui viene ucciso Kamal Dervish, cittadino americano di origini yemenite che ha scelto di militare in Al Qaeda. Un successo che spinge gli Usa a migliorare in qualità e numeri i mezzi. Poi, a partire dal 2007, la CIA e l’Us Air Force moltiplicano gli interventi nello scacchiere afghano-pachistano. Se in quell’anno si registrano appena tre raid affidati ai droni – o meglio, queste sono le cifre ufficiali -, nel 2008 diventano 34 ed entro la metà d’agosto del 2008 superano di poco la trentina.
È interessante rilevare come il Presidente Barack Obama continui il programma varato da Bush. Anche simbolicamente. Uno degli attacchi avviene tre giorni dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Come ammettono i vertici della CIA spesso “è l’unico gioco che abbiamo in città”. Un modo per dire che i droni rappresentano il solo asso da calare. Un’affermazione che porta gli analisti a sostenere che i Predator sono diventati la vera forza di contro-guerriglia.
La svolta può essere spiegata con motivazioni che variano a seconda dei teatri. In Iraq si sono rivelati fondamentali non solo nell’inseguire presunti esponenti del terrore ma, soprattutto, nell’attività tesa a sventare agguati con le bombe improvvisate, le temute IED. La Task Force Odin, composta da Special Forces e unità regolari, dotati di droni e altri sistemi altamente sofisticati, ha impiegato la sua “flotta” per compiere tre profili di missione: supporto a unità terrestri impegnate in azioni offensive; supporto a unità finite sotto il fuoco; “sterilizzazione” di strade e vie di comunicazione.
Il Predator, insieme ad altri aerei spia, può svolgere la funzione di scout “infiltrandosi” in territorio ostile. Controlla lo status di un percorso, verifica se vi siano state alterazioni alla pavimentazione stradale, segnala anomalie e nel caso interviene. Un rapido passaggio dal ruolo di esploratore a cacciatore. Interventi che hanno visto per la prima volta la partecipazione – nel febbraio 2009 in Iraq, provincia di Dyala – di velivoli dell’Us Army. I “terrestri” hanno a loro disposizione una versione speciale del Predator, il “Warrior Alpha”, che ha fatto registrare diversi successi nella neutralizzazione dei seminatori di bombe: team di insorti che nascondono ordigni lungo le strade e tendono agguati ai convogli militari.
In Afghanistan e Pakistan si sono trasformati in una punta di lancia mirata alla decapitazione dei movimenti talebano e qaedista. In questo sono diventati, per davvero, agenti con licenza di uccidere. Non essendo facile per l’intelligence infiltrare propri agenti nell’area tribale e lungo il confine, il compito è passato ai droni. Quindi hanno integrato le incursioni con una paziente attività humint, resa possibile dalla collaborazione dei pachistani. Spie locali forniscono le dritte, nascondono piccole cimici – costano solo 25 dollari – che emettono luci visibili solo dai sistemi all’infrarosso degli UAV, forniscono dati essenziali. Quindi scatta la trappola. È così che sono riusciti ad uccidere almeno una ventina di High Value Target, ossia bersagli di valore. Tra loro Beitullah Mehsud, il Capo dei talebani pachistani.


Macchine e uomini

La guerra segreta dei droni poggia essenzialmente su una serie ridotta di Basi, ben protette e create in aree strategiche. La particolarità del sistema d’arma è che il centro di controllo è in Occidente. Ossia piloti e assistenti addetti al tiro dei missili siedono in un cubicolo pieno di schermi che può trovarsi a 5-6 mila chilometri di distanza dalla zona di operazioni. Il Predator è guidato via satellite e solo per le fasi di decollo e atterraggio è seguito da un equipaggio presente nella stessa Base di partenza. I team, di solito, rimangono 8 ore in missione, poi hanno quattro ore di riposo quindi, se necessario, riprendono il comando. Questo permette di rimanere in caccia per lunghi periodi alternando gli equipaggi. La media è di una missione di 18 ore con almeno due bersagli da neutralizzare. Ma è chiaro che un drone può restare in volo anche 30 ore, rappresentando una deterrenza continua.
Il Pentagono conta su 127 Predator, 31 Reaper e oltre 400 piloti. Un numero che consente di mettere in volo, nello stesso momento, quasi 34 velivoli senza pilota. Un dato considerevole se si pensa che appena tre anni fa il numero era di appena 12. Ai mezzi dell’aviazione si aggiungono quelli della CIA, dai 15 ai 30, la cui attività è ovviamente protetta da un maggior riserbo.
Il cuore dell’attività per l’USAF è la base di Creech, ad una quarantina di chilometri a nord di Las Vegas.
Nel corso di una visita abbiamo avuto modo di constatare la semplicità, e al tempo stesso, la complessità delle “macchine”. Smontabili, non presentano problemi di manutenzione, si sentono solo al decollo. Ma quando raggiungono la quota diventano come dei fantasmi. Altro aspetto rilevante quello dei costi: servono 4 milioni di dollari per acquistare un Predator e 12 milioni per un Reaper. Quest’ultimo, oltre ai missili Hellfire, può trasportare bombe a guida laser ed ha un carico bellico che equivale a quello di un cacciabombardiere F 16.
Ci vuole poco a comprendere come, in tempi di recessione economica, il drone presenti un risparmio non indifferente. Particolarmente sofisticata l’apparecchiatura che permette di seguire quanto avviene sul terreno. I sensori del Repear coprono un’area di 6 chilometri quadrati e, nel 2013, entrerà in servizio una versione che amplierà il quadrante sorvegliato a 20 chilometri quadrati. Le telecamere del Predator trasmettono alle truppe a terra 10 video simultanei e separati. Quelle del Reaper 30 immagini video. In futuro saranno in grado di arrivare a 65. Un risultato incredibile. Non solo rispondono alla classica domanda “cosa c’è dietro la collina” ma possono affrontare qualsiasi evenienza.
Pilota e assistente, a volte, si trasformano in segugi che seguono, via dopo via, un mezzo sospetto in mezzo ad una strada trafficata di Bagdad o Mogadiscio. Provano a capire se a bordo ci siano passeggeri innocenti o terroristi. Lo stesso possono fare nel caso siano impegnati nello spiare le mosse di un vascello al largo della Somalia o nel Golfo. Se è necessario intervengono con la loro potenza di fuoco. Inizialmente l’Us Air Force ha addestrato piloti di caccia e aerei da trasporto, poi di recente ha aperto una scuola ad hoc, dove i cadetti non hanno mai avuto esperienze di volo. Una mossa decisa per rispondere alla domanda crescente di equipaggi e interventi. Nel corso del 2009 l’USAF ha rivelato di aver preparato più operatori di droni che piloti tradizionali. Un sorpasso reso possibile dai tempi richiesti: per formare un classico “top gun” servono almeno 18 mesi, per chi deve sedersi nel cubicolo bastano 6-9 mesi.
Di nuovo è il “mercato” a fissare le condizioni e i Generali pretendono un gran numero di interventi. Il Colonnello Christopher Chambliss, al tempo della nostra visita Comandante del 432d Wing, a Creech, ci aveva dato un parametro interessante: “Nel 2006 abbiamo fatto registrare 50 mila ore di volo, nel 2007 80 mila, l’anno dopo 130 mila”. Una crescita di impiego e una richiesta che mette sotto pressione le società che producono i velivoli. Non è un mistero che si creino situazioni di lista d’attesa. Il tutto sorretto da un budget a disposizione che continua ad ampliarsi. Dagli attuali 4,4 miliardi di dollari si passerà, nell’arco di dieci anni, agli 8,7 miliardi.
Oltre a migliorare i mezzi – per consentire missioni più lunghe e una sorveglianza estesa – gli americani lavorano molto su nuove armi. Nel grande poligono di China Lake (California) sono in corso i test di missili piccoli quanto letali. Gli “Spikes”. Ridotti come carica, sono concepiti proprio per essere installati sul Predator che ne potrà portare ben 12. Vantaggioso anche il costo: 5 mila dollari rispetto ai centomila degli altri. La meta è quella di avere un arco con tante frecce, per saturare un bersaglio ed avere una molteplicità di interventi.
Interessante anche il programma che prevede l’uso di elicotteri-droni da parte dell’Us Navy e delle unità speciali. Lo Special Operation Command, ad esempio, ha iniziato a ricevere una decina di Hummingbird prodotti dalla Boeing. Sono dotati di uno speciale radar, di missili di dimensioni ridotte e persino di un pod dove stivare un piccolo carico.


Spie e pirati

Parallelo e indipendente da quello del Pentagono opera il network degli UAV della CIA. Proprio perché legato all’intelligence, è mirato alla “liquidazione” dei terroristi. Un piano iniziato con l’ormai famoso raid nello Yemen e poi proseguito – in modo segreto – in altre regioni. Una di queste è sicuramente il Corno d’Africa. Diversi esponenti del movimento islamista Shebab sarebbero stati colpiti con incursioni affidate ai droni, magari mascherate da raid di aerei tradizionali. Una discrezione dovuta non solo perché ci sono di mezzo gli 007 ma anche per non urtare sensibilità politiche e diplomatiche.
Anche l’Air Force ha le sue pedine nel Continente africano. Alla fine di agosto sono emersi dettagli su un programma che prevede lo schieramento di alcuni Reaper e di aerei da pattugliamento P3 alle Seychelles. L’aviazione invierà 75 uomini nell’arcipelago per gestire la piccola task force che si dedicherà alla sorveglianza delle acque somale e a eventuali missioni di “cerca e distruggi”. Come per gli altri UAV, i piloti rimarranno negli Usa e controlleranno i mezzi via satellite.
A giudizio del Pentagono i droni assicurano maggiore flessibilità e rapidità di intervento in una fase dove sono attese nuove incursioni dei pirati. Inoltre, i Reaper potranno tenere d’occhio per lungo tempo le possibili navi-madre ed agire solo quando si ha la certezza che stiano mettendo in mare i barchini d’assalto. In casi particolari, poi, i velivoli senza pilota garantiranno un servizio di scorta armata a formazioni di navi mercantili. La scelta delle Seychelles non è casuale. L’arcipelago è in posizione strategica, non dispone di forze adeguate e, negli ultimi mesi, ha visto i corsari avvicinarsi pericolosamente alle sue acque.
Altra arena, quella conosciuta come “Afpak”, ossia Afghanistan e Pakistan. I droni decollano da due Basi. La prima è a Shamsi, in territorio pachistano. Una striscia una volta usata dagli sceicchi del Golfo Persico che venivano a cacciare con i falconi. Una seconda si trova, invece, dall’altra parte del confine, a Jalalabad. La stazione di controllo è molto più lontana, a Molesworth, in Gran Bretagna. Indiscrezioni di stampa hanno rivelato che il personale che assicurava la logistica – carico dei missili, manutenzione – era stato fornito dalla famosa società di sicurezza privata “Blackwater”. Una collaborazione che era molto più profonda. Sempre fonti giornalistiche – poi confermate da quelle ufficiose – hanno fatto emergere che l’intelligence Usa avrebbe chiesto agli uomini della “ditta” di organizzare team cerca e uccidi per eliminare terroristi qaedisti.
Nel ricorso ai droni da parte degli 007 c’è un’esigenza duplice. Innanzitutto la necessità di avere un lungo braccio con il quale raggiungere il target nei suoi rifugi e dove non se lo aspetta. La seconda è quella di poter sorvegliare un militante con una presenza continuata senza dover rischiare uomini preziosi. La cattura di un agente infiltrato avrebbe conseguenze disastrose e aprirebbe scenari diplomatici complessi.
Stessa valutazione per un pilota di un aereo-spia. Basti ricordare cosa avvenne con Gary Power, abbattuto dai sovietici a bordo di U-2, o con l’equipaggio di un velivolo militare costretto ad atterrare in Cina. L’UAV può rappresentare una risposta a queste preoccupazioni e, in certe situazioni, racchiude tre funzioni diverse: scopre, sorveglia, elimina.
Altro scacchiere e altri protagonisti: il conflitto tra arabi e israeliani. Lo stato ebraico, specie dopo la seconda intifada, ha messo insieme il lavoro dello spionaggio interno – come lo Shin Bet – e quello dei militari per usare al meglio i droni. Una continuazione di quanto fatto oltre quasi trent’anni fa. Nell’estate dell’82 furono dei piccoli droni a ingannare i sistemi radar e missilistici siriani nella valle libanese della Bekaa, permettendo all’aviazione israeliana una schiacciante vittoria sugli avversari. Una lezione importante sulla versatilità degli UAV e di come siano in grado di incidere in un conflitto. In seguito i velivoli sono stati impegnati in modo massiccio nella campagna di omicidi mirati che ha colpito le principali formazioni palestinesi, da Hamas alle Brigate Al Aqsa.
Rispetto agli americani, gli israeliani hanno dato meno pubblicità sulla conduzione dei raid. Niente dettagli sul sistema o il velivolo. Una tattica per proteggere i loro segreti e lasciare nell’incertezza gli avversari. Non vi sono conferme ma i due principali leader del movimento islamico Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin e il suo vice Abdul Aziz Rantissi, sono stati uccisi con la partecipazione – diretta o indiretta – degli aerei senza pilota. I palestinesi hanno spesso attribuito ai droni tanto il lancio di Hellfire (modificati in Israele per i target killing) che l’attivazione remota di cariche di esplosivo celate nelle auto dei bersagli.
Dal cielo alla terra. Gli israeliani, ben convinti dell’importanza dei robot da guerra e attenti a quanto emerso dalle recenti esperienze belliche, hanno in serbo altre sorprese. È allo studio, ad esempio, un veicolo blindato radiocomandato, nome in codice “Phoenix”, che dovrebbe portare armi, viveri ed equipaggiamento a reparti avanzati, magari finiti sotto il fuoco. Ciò permetterebbe di evitare l’invio – rischioso – di altri militari o di un elicottero. “Phoenix”, se supererà i test, andrà ad affiancarsi ad altre invenzioni di questo tipo. I genieri israeliani contano, da tempo, sul “Black Thunder”, un grosso bulldozer D9, utile nelle situazioni di combattimento con formazioni di insorti per spazzare via barricate o abbattere muri. La marina ha, invece, “Proctor”, minivedetta armata che avrebbe avuto il suo “battesimo” nelle acque davanti alla Striscia di Gaza. Infine, le unità nel sud hanno ricevuto il “Guardium”, un robot sentinella ad alta mobilità.
La lunga esperienza di americani e israeliani ha poi portato ad un nuovo fenomeno: quello degli UAV in affitto. I turchi, ad esempio, si sono rivolti a Gerusalemme che ha fornito in leasing alcuni droni impiegati nella lotta contro i separatisti curdi del Pkk. E la stessa cosa era avvenuta in Macedonia durante il conflitto del Kosovo. I prodotti israeliani sono comparsi, nell’agosto 2008, nel Caucaso. I georgiani li hanno schierati sul campo di battaglia per monitorare i movimenti dell’Armata rossa. Forse un paio sono stati abbattuti dai caccia nemici.
Altro risvolto. La “febbre” degli UAV ha contagiato i guerriglieri dell’Hezbollah che ne hanno ricevuti diversi dall’alleato iraniano. Oltre che per le missioni di ricognizione i militanti del “partito di Dio” potrebbero impiegarli armandoli con cariche esplosive. Durante la guerra nell’estate 2006 che ha opposto i guerriglieri allo Stato ebraico, l’Hezbollah ne ha fatti decollare un paio con risultati scarsi. Più una sortita propagandistica che un attacco.
Meritano, infine, una citazione – non per l’impatto reale, ma per il significato – gli studi amatoriali condotti da alcuni militanti palestinesi di Hamas. Con formule e dati ricavati via Internet, si erano messi in testa di modificare dei piccoli aerei radiocomandati – quelli venduti dai negozi di aeromodellismo – per dotarli di piccole cariche. Privi di adeguate conoscenze tecniche si sono allora rivolti, via web, ad un simpatizzante saudita, laureato in ingegneria. Ma la missione si è rivelata davvero impossibile.


L’impatto

Il riconoscimento che sul piano tattico i droni hanno un impatto devastante viene dagli stessi terroristi. Con dichiarazioni – fatto inusuale – e comportamenti, i leader militanti hanno sottolineato quanto possano compromettere la loro attività. Recentemente, Abu Yahya Al Libi, uno degli ispiratori qaedisti, ha diffuso su Internet un libro di 150 pagine per mettere in guardia i compagni sulla presenza di spie nei loro ranghi e su come spesso queste “talpe” agevolino, con strumenti diversi, le incursioni aeree alleate. Missioni spesso portate a termine da Predator e Reaper. Preoccupazioni condivise da esponenti di formazioni guerrigliere (non qaediste) impegnate a fronteggiare eserciti organizzati.
I timori sulla presenza di un drone, a volte, comportano cambiamenti significativi nel modus vivendi di un movimento estremista o terrorista.
Innanzitutto la minaccia UAV spinge i militanti – i Capi in particolare – ad una maggiore prudenza: riducono gli spostamenti al minimo, se ne stanno perennemente in case sicure o persino in bunker, sono molto attenti all’uso di apparati di comunicazione per evitare di essere intercettati.
Il secondo punto riguarda la segretezza interna del gruppo. I droni possono vedere molto, ma i terroristi tendono ad attribuirgli capacità maggiori, a volte eccessive. Ciò però li rende paranoici, quasi isterici e li costringe a tenere la vigilanza sempre molto alta. Ecco perché Al Libi ha sentito la necessità di scrivere addirittura un testo ad hoc.
Il terzo elemento è quella dell’invincibilità. Gli UAV irrompono nei santuari dei terroristi, fanno saltare non solo le loro teste ma anche il sistema di sicurezza. Dopo ogni raid dovranno chiedersi come sia stato possibile e dove dovranno nascondersi.
Il quarto è legato più direttamente alle operazioni quotidiane. I droni possono rendere la vita difficile agli artificieri del terrore, quelle bande che di solito tendono gli agguati, con ordigni improvvisati, alle pattuglie, dall’Iraq all’Afghanistan. Una volta l’attentatore doveva accertarsi che non ci fossero dei militari nelle vicinanze e poi potevano nascondere l’ordigno sotto l’asfalto o all’interno di una carcassa di animale. Adesso la sorpresa – invisibile – può arrivare dal cielo.
Infine, ci sono gli eventuali contraccolpi sulla catena di comando. Restando nascosti, i leader hanno difficoltà a tenere le fila del movimento o ad alimentare la campagna mediatica. Ciò spiega perché in casi di crisi gli “emiri” possano diventare dei fantasmi. Scompaiono e la contropropaganda può sostenere che sono “forse morti”. Una situazione di emergenza dalla durata variabile.
Se l’offensiva aerea è sostenuta e persistente o il movimento non ha creato un piano B (tipo: rifugio dal quale lanciare comunque messaggi video) possono passare diverse settimane prima che i Capi riemergano. L’esperienza degli ultimi conflitti – Afghanistan, Libano, Gaza – ha comunque evidenziato una capacità di adattamento alla “vita da bunker”, anche se nel breve periodo i leader preferiscono restare “nella grotta”.


Le polemiche

L’Intelligence americana e israeliana, con il placet dei due rispettivi Governi, ritengono che il ricorso ai droni sia insostituibile. Gli UAV funzionano, rappresentano una deterrenza, hanno portato a segno colpi importanti, forniscono un ventaglio di interventi assai ampio. Una valutazione che, tuttavia, nei primi mesi del 2009 ha trovato dei critici. Esperti di terrorismo e contro-guerriglia che negli Stati Uniti hanno messo in guardia l’Amministrazione di Barack Obama: i vantaggi tattici dei raid affidati ai droni potrebbero compromettere i risultati strategici. Obiezione legata soprattutto a quanto avviene lungo il confine Afghanistan-Pakistan ma estendibile anche ad altri teatri, come la Somalia. Capofila della contestazione David Kilkullen, un australiano diventato uno dei più ascoltati Consiglieri al Pentagono e “star” degli analisti a Washington. Le sue riserve sono legate ai danni collaterali e all’impatto sulla popolazione civile. Nei raid non muoiono solo terroristi, ma anche civili. E ciò provoca un forte risentimento verso l’Occidente. Inoltre, le incursioni dei velivoli fantasma creano in alcune regioni una mentalità dell’assedio: sono segnalati ovunque e gli si attribuiscono esplosioni o vittime anche quando non li provocano.
Kilkullen ed altri dicono: “se vogliamo conquistare cuori e menti per vincere la battaglia finale dobbiamo essere pronti a sacrificare qualche blitz.” Un suggerimento diretto accompagnato da un rilievo, marcato. I droni sono una risposta tattica e non strategica - dicono - non vi fate illusioni di poter risolvere i problemi affidandovi ai robot volanti. Altro corollario: sono utili nella funzione anti-terrorismo, ma non in quella di controguerriglia. Il problema è che in certi scacchieri gli insorti ricorrono anche al terrorismo e viceversa.
Il professor Bruce Hoffman, “padre” degli studiosi di terrorismo internazionale, è ancora più franco: “Ci illudiamo se pensiamo che la soluzione venga dai droni”. O, comunque, dalle incursioni che mirano a decapitare un’organizzazione. E ricorda come dopo l’uccisione di Abu Musab Al Zarkawi, referente di Al Qaeda in Iraq, il movimento abbia continuato a organizzare attentati devastanti. Qualche analista traccia un parallelo con i bombardamenti dei villaggi fatti dalla Francia, per stroncare – senza esito – la rivolta algerina. Un rilievo che, ovviamente, non riguarda solamente i velivoli senza pilota, ma anche i caccia tradizionali. Lo stesso Comandante delle Forze Usa in Afghanistan, il Generale McChristal, ha ordinato estrema cautela nel ricorso all’arma aerea. “Se esistono dubbi o timori di errore – è la disposizione – è meglio rinunciare a sganciare”. Meno sensibili al richiamo, per ovvie ragioni, i responsabili dell’Intelligence che ormai considerano il drone come un prolungamento del loro braccio. E anche tra gli ufficiali dell’aviazione c’è chi ribatte: l’UAV può ridurre il margine di errore, visto che ha più tempo prima di lanciare un missile e dietro ogni missione c’è un buon numero di persone che può decidere in tempo reale.

I Robocop

A Fort Irwin, California, il Pentagono ha creato uno dei poligoni più realistici al mondo. È composto da aree di tiro, basi avanzate, reticoli di strade asfaltate e non, eliporti. Ma, soprattutto, da una dozzina di finti villaggi che riproducono quelli che troveranno i soldati in Iraq o Afghanistan. Ci sono le moschee, i negozi, le case e – naturalmente – gli abitanti. Un buon numero sono afghani e iracheni, aumentati nel numero da comparse reclutate nelle località vicine. Abbiamo seguito a Fort Irwin le esercitazioni di un reparto di fanteria “digitalizzato”. Ogni mezzo, ogni team è integrato in un sistema computerizzato che permette di ricevere e rilanciare dati in tempo reale. I Comandanti hanno sui loro schermi mappe che segnalano le posizioni delle singole unità e dei veicoli. Questo permette tempi di reazione estremamente rapidi, facilita le azioni di supporto, consente di avere informazioni molto precise su quanto avviene durante uno scontro.
Questo tipo di equipaggiamento è in continua evoluzione e nonostante i tagli al budget porta continue novità. L’Us Army ha deciso di rivitalizzare un programma che era stato cancellato, il Ground Soldier Ensemble (GSE), per dotare unità delle forze speciali di un nuovo kit. Ogni soldato riceverà un segnalatore Gps, una radio digitale, un minicomputer e, soprattutto, un piccolo monocolo sistemato sull’elmetto. Su questo apparato ottico verrà trasmessa una mappa digitale dove sarà evidenziata la posizione di altri soldati ed eventuali mezzi. Non solo. Saranno identificati con luci particolari edifici o strutture in modo da segnalare se una casa è stata “bonificata” o deve essere ancora controllata. Sarà anche possibile indicare la presenza di nemici. Un apparato importante nei combattimenti urbani. I tecnici stanno lavorando per ridurre il peso dell’intero kit. In passato i soldati che hanno provato le versioni iniziali si erano lamentati perché riduceva la rapidità dei movimenti.
Il GSE rappresenta il passo di avvicinamento al cosiddetto “soldato Robocop”, una sorta di guerriero molto simile ai miliziani di “Guerre stellari”. In futuro indosserà una divisa che cambia come la pelle di un camaleonte a seconda dell’ambiente circostante. Anche la protezione anti-proiettile diventa “variabile”: sarà leggera in situazioni normali e diventerà iper-resistente quando “sentirà” avvicinarsi la pallottola. L’elmetto coprirà interamente la testa e sulla visiera saranno trasmessi ordini o indicazioni. Un microfono tradurrà la voce del militare in qualsiasi lingua richiesta. Un apparato di respirazione permetterà al soldato di agire in ambienti tossici o contaminati. Quanto all’arma si lavora a mini-fucili multicanne che impiegano proiettili particolari che “inseguono” il bersaglio e il munizionamento convenzionali per scontri ravvicinati. Meraviglie tecnologiche che sono alla base delle promesse degli scienziati ma che, ovviamente, dovranno superare non pochi test.


Conclusione

L’apparizione nei cieli dei droni quale componente aerea dell’armata dei robot rappresenta solo l’inizio di una stagione del quale nessuno può prevedere limiti e sviluppi. Trovato uno strumento che funziona, è difficile che sia abbandonato, semmai subirà modifiche per migliorarlo. L’idea base che anima i molti progetti è quella di ridurre al minimo le conseguenze per il personale e caricare il peso della missione sulle spalle tecnologiche dell’UAV. Perché con il drone si potranno tentare missioni fino ad oggi giudicate proibitive o troppo rischiose per essere tentate. Perché, ancora, le macchine volanti avranno apparati che le renderanno superiori a qualsiasi altro mezzo per certi tipi di interventi. Un successo sul campo di battaglia arricchito dal connubio con le classiche azioni dell’Intelligence. Anzi, potremmo dire che l’UAV potrà far lavorare insieme – sia pure solo in certe aree - “dipartimenti” che non amano parlarsi, che sono restii a condividere segreti, che spesso sono in concorrenza. Sarà il velivolo a rappresentare il punto di sintesi.
Riconosciuto il valore del “gioiello”, sarebbe un errore sottovalutare la componente umana. È un uomo che lo pilota e per questo sta nascendo una nuova “razza” di “top gun” del tutto speciali, dedicati a queste macchine. È sempre un uomo che preme il pulsante di sparo e per questo l’addetto alle armi assume un ruolo particolare. Contrariamente a quello che si può credere non è “come essere in un videogioco”. Infine. Sono sempre degli uomini che valutano e analizzano ciò che gli occhi elettronici del drone captano.
Come ci hanno confermato gli ufficiali americani alla base di Creech, in Nevada, e quelli italiani incontrati in diverse occasioni, tenere in piedi piloti e flotta richiede un grande sforzo. Il personale non è sufficiente, spesso è sotto stress. E ne servono sempre di più in quanto la lista di interventi si allunga in modo esponenziale. Dopo 100 ore di volo un Predator torna all’hangar e lo rimettono in linea. Non è così automatico per un pilota e il suo operatore. Questo per dire che se è giusto rimanere affascinati dal robot imbattibile, altrettanta attenzione va posta su chi siede nella cabina di comando. Perché, ricordiamolo, le immagini trasmesse dal drone rappresentano quello che il drone vede in quel momento. E dunque è una verità parziale.


Lockheed D 21 (www.aviation-art.net/resized/d21%20drone.jpg)


General Atomics MQ-1 Predator UAV
( Foto Ansa)
 

General Atomics MQ-9 Reaper ( http://upload.wikimedia/commons)
 

Boing A 160 Hummingbird
( www.flightglobal.com/landingpage/hummingbird.html)
 

Northrop Grumman RQ-4 Global Hawk
( http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Global_Hawk_1.jpg)
 



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