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GNOSIS 3/2009
A quattro anni dall'entrata in vigore

Norme sugli stupefacenti: bilanci e prospettive


Giuseppe AMATO

 
La V Conferenza nazionale sulle politiche antidroga e sui problemi connessi alla diffusione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, svoltasi a Trieste (dal 12 al 14 marzo 2009) per iniziativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento politiche antidroga, offre l’occasione per fare un bilancio sulla nostra legislazione in materia di sostanze stupefacenti e, in particolare, sulla “resa” delle modifiche introdotte al d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, dalla cosiddetta legge Fini-Giovanardi (decreto legge 30 dicembre 2005 n. 272, convertito dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49).(Foto DEA)


Un sistema normativo convincente

Le norme vanno verificate alla prova dei fatti, leggendo le sentenze, senza inutili o pretestuose polemiche.
Ed allora, un operatore del settore, non ancorato a preconcetti ideologici, non può non riconoscere che il sistema funzioni.
Certo tutto può migliorare.
Sono, per esempio, applicabili possibili aggiustamenti soprattutto sul versante sanzionatorio amministrativo. Così, in particolare, sarebbe senz’altro opportuno reintrodurre, nel meccanismo sanzionatorio di cui all’articolo 75 del d.p.r. n. 309/90, la previsione della facoltà del prefetto di sospendere l’applicazione del procedimento e delle sanzioni in corso di esecuzione, laddove il trasgressore tossicodipendente si sottoponga volontariamente ad un programma di recupero; con la successiva archiviazione degli atti in caso di esito positivo della riabilitazione.
Così, ancora, con apprezzabile sforzo di fantasia, si potrebbe pensare a “nuove” sanzioni amministrative: per esempio, per l’assuntore non tossicodipendente, si potrebbe prevedere la frequentazione di una comunità di recupero per consentirgli di “testare” in prima persona gli effetti esiziali dell’assunzione delle droghe e gli sforzi dei tossicodipendenti per il recupero, la disassuefazione, la riabilitazione.
Così, volendo ancora precisare, sembrerebbe doveroso un intervento sull’articolo 75 bis del d.p.r. n. 309/90 (che prevede le sanzioni per l’ illecito amministrativo “pericoloso”) attraverso una più esaustiva disciplina degli spazi per l’esercizio del diritto di difesa da parte del trasgressore, sì da consentirgli un adeguato momento di consapevole intervento prima della decisione del giudice della convalida della sanzione applicatagli dal questore (1) .
Ma se tutto è migliorabile, ci sembra anche corretto affermare che il sistema attuale appare adeguato ed equilibrato.
Infatti, vi è adeguata certezza nel discrimine tra illecito penale e illecito amministrativo (articoli 73, da un lato, 75 e 75 bis, del d.p.r. n. 309/90, dall’altro). Vi è adeguata attenzione per il recupero del tossicodipendente (basti pensare alle ampliate possibilità di accesso alla sospensione dell’esecuzione della pena ed alla misura alternativa dell’affidamento in prova: articoli 90 e 94 del d.p.r. n. 309/90; basti pensare all’innovativa previsione del lavoro di pubblica utilità in caso di condanna per un fatto illecito di “lieve entità”: articolo 73, comma 5 bis, del d.p.r. cit.). Vi è poi attenzione anche alle indagini ed alla repressione degli illeciti traffici (basti pensare alle possibilità investigative che conseguono alla ampliata disciplina delle attività sotto copertura non più limitate, come in passato, al mero acquisto simulato di sostanze stupefacenti: articolo 97 del d.p.r. n. 309/90).


l discrimine tra illecito penale
e illecito amministrativo


Venendo più in dettaglio. Può ben affermarsi che il discrimine tra il reato e l’illecito amministrativo (che passa attraverso la corretta lettura dell’articolo 73, comma 1 bis, lettera a), del d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309) regge alla prova dei fatti. La lettura delle sentenze - in primo luogo, quelle della Cassazione - conforta della bontà di tale soluzione.
È un sistema che colma le lacune post referendarie e, nel contempo, rispetta il portato del referendum, che milita contro parametri quantitativi rigidi per il discrimine tra l’illecito penale e quello amministrativo. Del resto, l’ introduzione - da alcuni invocata - di soglie quantitative predeterminate fondanti la presunzione assoluta di sussistenza del reato, oltre a palesarsi eccessivamente rigida ed inidonea a corrispondere alla specificità dei singoli casi concreti, sconterebbe il rischio di possibili spazi di ingiustificata impunità, attraverso il richiamo (magari pretestuoso, ma astrattamente possibile) del principio sull’errore di fatto sul quantitativo della sostanza detenuta (articolo 47 c.p.).
È un sistema che offre adeguata certezza operativa sia alla polizia giudiziaria che alla magistratura. È un sistema che, nel contempo, garantisce l’interessato, dovendosi ragionevolmente escludere il rischio che il detentore per uso personale possa ingiustificatamente incorrere nel rischio della sanzione penale.
Si tratta del resto, a ben vedere, di null’altro che della “normativizzazione” dei criteri che, in precedenza, nel sistema post referendario, già la giurisprudenza utilizzava per la dimostrazione della finalità illecita della detenzione: il parametro della quantità della sostanza, le modalità di presentazione della sostanza (con particolare riferimento al peso lordo ed al confezionamento frazionato), le circostanze dell’azione. Tra questi criteri rientrano poi, pacificamente, perché non si tratta né di elementi costitutivi del reato, né di criteri probatori limitativi del principio del libero convincimento del giudice, anche le circostanze soggettive (condizioni economiche del trasgressore, qualità di tossicodipendente o no del trasgressore), molto utili per illuminare definitivamente della possibile destinazione della sostanza (2) .
Il sistema è duttile, come non lo sarebbe un sistema basato sulla presunzione assoluta dell’illecito penale in caso di superamento di una predeterminata soglia quantitativa.
Ma è un sistema che non può essere ulteriormente irrigidito, per l’ovvia ragione che l’applicazione della norma non può essere una operazione matematica e, quindi, una elasticità applicativa “guidata” è ineliminabile allorquando si debba valutare di una condotta quale quella di detenzione rispetto alla quale si deve dimostrare un fatto interiore, quale è la finalità che avrebbe avuto il soggetto (uso personale o destinazione al mercato).
Certo, come del resto sempre accade quando una norma va applicata ai diversi casi concreti, vi possono essere situazioni che lasciano perplessi, così come è astrattamente possibile apprezzare situazioni in cui la norma è applicata in modo patologicamente inconferente.
Ma sono situazioni residuali, ineliminabili, che non consentono critiche ingiustificate alla tenuta complessiva del sistema.
Anzi, la lettura di queste critiche e delle occasioni che le hanno giustificate conforta della bontà della disciplina normativa. Ciò perché ci si accorge che si tratta per lo più di critiche superficiali o pretestuose, caratterizzate dalla non corretta lettura della sentenza che ne costituisce lo spunto.
Basti pensare, per tutte, alla recente sentenza della Cassazione sul ‘rasta’ (3) , per accorgersi che si è fatto tanto rumore per nulla. “Se si è pizzicati con un etto circa di hashish la si può fare franca senza incorrere nelle maglie della giustizia, basta dire che si è adepti ‘rasta’”: così ci si è espressi su alcune agenzie di stampa. Da qui polemiche a non finire sulla “tenuta” sanzionatoria della disciplina delle sostanze stupefacenti. In realtà, bastava leggere con più meditata attenzione la sentenza per apprezzare che non vi erano affatto affermazioni (così) sconvolgenti.
La stessa Corte di Cassazione si è sentita finanche in dovere di diffondere un comunicato stampa, evidenziando come la sentenza si sia limitata ad annullare con rinvio la decisione di condanna siccome inadeguatamente motivata in punto di destinazione illecita della droga, proprio a fronte delle giustificazioni fornite sul punto dall’imputato.
Il giudice di merito aveva, infatti, semplicisticamente condannato l’imputato apprezzando il dato ponderale della sostanza (per vero affatto esorbitante) senza nulla dire né delle circostanze del sequestro (in realtà, affatto dimostrative della destinazione allo spaccio: l’imputato era stato sorpreso addirittura a dormire in macchina ed aveva spontaneamente consegnato alla polizia giudiziaria una busta contenente la marijuana; tra l’altro sfusa e non preconfezionata in dosi).
A ben vedere, il giudice di merito aveva, nella specie, ampiamente contravvenuto le regole di completezza e puntualità che devono presiedere un’affermazione di penale responsabilità.
Quindi, una sentenza letta pretestuosamente “contro” la legge, ma paradossalmente (per i detrattori della normativa) confermativa della bontà del sistema che, “normativizzando” i parametri di riferimento, obbliga il giudice ad un dovere rafforzato di motivazione che elimina o attenua il rischio dell’arbitrio decisorio.


Gli effetti sul sistema carcerario

Neppure può sostenersi che sia la legge del 2006 ad avere “affollato” le carceri, riempiendole di tossicodipendenti.
Ciò per una serie di oggettive considerazioni, che militano contro ogni pretestuosa polemica.
In primo luogo, perché la legge non consente di sanzionare il tossicodipendente in quanto tale, ma punisce solo lo spacciatore attuale o potenziale (cioè colui che si dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, proprio utilizzando i parametri di riferimento, che deteneva la droga non per uso esclusivamente personale, ma con l’intenzione di cederla sul mercato).
In secondo luogo, perché il novum normativo (attento alla figura del tossicodipendente che sia anche spacciatore) ha ampliato il ricorso agli istituti della sospensione condizionale della pena e dell’affidamento in prova (articoli 90 e 94 del d.p.r. n. 309/90) e, prima ancora, ha ulteriormente confermato la disciplina di favore anche in materia di adozione di misure cautelari personali, coniugando molto bene le esigenze del recupero con quelle della tutela sociale (cfr. il nuovo articolo 89 del d.p.r. n. 309/90).
In terzo luogo, perché si è introdotta l’importante misura alternativa al carcere rappresentata dal lavoro di pubblica utilità, che può essere applicata a chi venga ritenuto responsabile del reato di cui all’articolo 73 del d.p.r. n. 309/90, che sia tossicodipendente o anche solo assuntore di droga, allorquando il fatto sia considerato di “lieve entità” (articolo 73, comma 5 bis, del d.p.r. cit.).
Se le carceri sono oggi più affollate, la “colpa” non è quindi certo della legge del 2006. Piuttosto, una ragionevole spiegazione del fenomeno di esponenziale aumento degli ingressi in carcere, cui da qualche tempo si assiste, va ricercata in altri coevi interventi normativi che hanno irrigidito il sistema sanzionatorio: basti pensare, tra tutti, agli interventi in tema di recidiva introdotti con la legge 5 dicembre 2005 n. 251 (la cosiddetta ex Cirielli), e i vari interventi che, nel tempo, hanno ampliato le ipotesi di divieto di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva (cfr. articolo 656, comma 9, lettera a), C.p.p.).
A ciò aggiungasi una ulteriore, importante considerazione che riguarda l’esercizio del potere di arresto in flagranza. L’articolo 380, comma 2, lettera h), C.p.p. prevede l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza per il reato di cui all’articolo 73 del d.p.r. n. 309/90, eccettuando però l’ipotesi in cui ricorra il fatto di lieve entità di cui al comma 5 dello stesso articolo 73. In tale ultima ipotesi l’arresto è previsto come facoltativo, laddove, pur in presenza di un fatto lieve, lo consigli la personalità (ossia la pericolosità) del trasgressore.
Ebbene, l’esperienza dimostra che da parte della polizia giudiziaria, prima, e della magistratura poi, non vi è sempre adeguata attenzione alle rigorose condizioni (la pericolosità del soggetto) in cui è consentito l’arresto pur in presenza di fatti oggettivamente modesti, laddove sarebbe più corretto procedere alla denuncia a piede libero.
È un problema non della legge, ma di approccio metodologico e culturale degli operatori: se questo approccio fosse diverso e più attento al dato normativo avremmo sicuramente un minor numero di ingressi in carcere per fatti modesti.


La “parificazione” delle sostanze illecite

Si impone qualche riflessione sul tema della “parificazione” tabellare delle sostanze vietate. Si tratta, come è noto, di una parificazione che il legislatore, nell’ambito di una discrezionalità valutativa ineccepibile, ha giustificato con l’apprezzato aumento del quantitativo di THC rinvenibile ormai da tempo nei derivati della cannabis, tale da avere accentuato l’oggettiva pericolosità di queste sostanze. È una scelta politica che poggia su una valutazione tecnica che si può non condividere nel merito, ma che non presenta margini di arbitrarietà.
Infatti, non a caso, la Cassazione (4) l’ha ritenuta costituzionale, sul rilievo che l’assimilazione è stata frutto di una scelta discrezionale del legislatore basata sull’adesione ad una determinata opinione scientifica (quella secondo cui il principio attivo contenuto nei derivati dalla cannabis è maggiore che in passato), cui ovviamente può opporsi, in modo legittimo, ma in termini tali da non determinare censure di irragionevolezza, la diversa opinione basata sulla non assimilabilità delle sostanze sotto il profilo della gravità degli effetti che queste sono in grado di determinare.
Va poi aggiunto che l’assimilazione va correttamente intesa nella sua effettiva portata, leggendola anche nel complesso dell’intervento normativo.
Intanto, si affianca all’intervenuta, opportuna riduzione della pena base prevista per il reato di cui all’articolo 73 del d.p.r. n. 309/90 (da otto anni a sei anni di reclusione).
Poi, il preteso effetto dirompente della parificazione trova una oggettiva mitigazione nella considerazione (che i detrattori della legge del 2006 dimenticano) che trattasi di una questione che attiene al trattamento sanzionatorio degli spacciatori o dei soggetti che detengono con la dimostrata finalità di spacciare la sostanza. Ed allora risulta evidente la strumentalità delle critiche basate sulla pretesa preoccupazione dell’aggravamento sanzionatorio che ne deriverebbero per il (mero) detentore di uno spinello.
Va poi aggiunto che la parificazione non è affatto assoluta, ma anzi opportunamente temperata dalla previsione del moltiplicatore variabile, diversificato a seconda della pericolosità della sostanza, che presiede alla determinazione della quantità massima detenibile nel sistema del decreto ministeriale dell’11 aprile 2006 (5) (20 g. per i derivati della cannabis; 10 g. per l’eroina; 5 g. per la cocaina, ecc.). Sistema che attesta di una diversa pericolosità qualitativa delle diverse sostanze (le meno pericolose sono ritenute proprio l’hashish e la marijuana) tale da legittimare, per esempio, un maggior spazio applicativo dell’attenuante del fatto di lieve entità (articolo 73, comma 5, del d.p.r. n. 309/90) proprio per i derivati della cannabis.
Va, altresì, evidenziato che la parificazione elimina una evidente “stortura” del sistema previgente, laddove la diversificazione tabellare importava che il soggetto detentore contestualmente di più sostanze appartenenti a tabelle diverse e non omogenee finiva con l’essere punito per una pluralità di reati, unificati sotto il vincolo della continuazione. Inconveniente che oggi non sussiste più in un sistema in cui la contestuale detenzione di sostanze diverse importa come unico - ovvio - effetto quello della considerazione del peso complessivo delle sostanze ai fini e per gli effetti della dimostrazione della finalità della detenzione e, poi, del trattamento sanzionatorio.


Il problema delle smart drugs

Sempre a proposito di critiche a volte mal poste alla legge Fini-Giovanardi non si può trascurare di considerare quelle insistite polemiche che di recente hanno accompagnato talune iniziative giudiziarie nei confronti dei cosiddetti smart shops e, comunque, più in generale, nei confronti di quanti era risultato che avevano posto in vendita anche su internet delle sostanze qualificabili come smart drugs.
Si tratta, in vero, di iniziative che hanno riguardato - per lo più - la messa in vendita di semi di canapa, a volte corredata dalla predisposizione di istruzioni per la coltivazione.
Sono iniziative giudiziarie ancora sub iudice, dagli esiti comunque incerti.
Evidenziano un problema serio, che prescinde dai singoli casi concreti. È il problema di regolamentare un fenomeno - quello delle smart drugs - che non può essere semplicisticamente risolto invocando la libertà di commercio e la libertà di manifestazione del pensiero, allorquando si può essere in presenza di sostanze pericolose. Basti pensare alle gravi vicende che hanno portato, di recente, ad inserire nelle tabelle delle sostanze vietate la rosa hawaiana e l’ipomea violacea.
In realtà, a torto o a ragione, non c’entra nulla la legge del 2006, perché le iniziative giudiziarie poggiano sul reato di istigazione all’uso di sostanze stupefacenti (articolo 82 del d.p.r. n. 309/90), che è frutto già dell’originaria formulazione della legge.
È tema, comunque, che va affrontato senza preconcetti, tenendo presente che anche solo l’uso di sostanze stupefacenti è vietato nel nostro ordinamento, cosicché non si può semplicisticamente invocare la libertà di manifestazione del pensiero in presenza di condotte che esorbitano da una (ovviamente sempre) legittima espressione del proprio convincimento per trasmodare in una attività di propalazione concretamente pericolosa perché tale da indurre il rischio di favorire l’assunzione e la diffusione delle droghe e, quindi, lo svolgimento di attività comunque vietate.
Piuttosto, la legge Fini-Giovanardi sul tema delle nuove droghe (che non sono solo le smart drugs che risultino invece pericolose, ma sono anche le nuove droghe sintetiche e quelle etniche di nuova introduzione in Italia a seguito dei costanti flussi migratori da Paesi lontani) si fa apprezzare perché ha portato allo snellimento delle metodiche che vanno seguite per l’aggiornamento delle “tabelle”, eliminando passaggi burocratici inutili.
Un intervento normativo auspicabile, poi, sarebbe quello diretto ad introdurre un irrobustimento calibrato della disciplina sanzionatoria della attività di propaganda abusiva delle sostanze vietate, oggi prevista dall’articolo 84 del d.p.r. n. 309/90 in termini asfittici e non soddisfacenti. In tal modo, si potrebbe porre un ostacolo a forme subdole di pubblicità che, senza attingere il livello di concreta pericolosità proprio del reato di istigazione previsto dall’articolo 82 dello stesso d.p.r., finiscono con il porre indirettamente le condizioni per una diffusione dell’uso delle sostanze vietate, anche solo attraverso una - neppure tanto velata - pubblicizzazione di (pretesi) effetti benefici di tali sostanze.


Le prospettive

È, quindi, ben possibile che si ponga un problema di miglioramento della normativa de qua. Sopra, in effetti, si sono evidenziati alcuni profili che da più parti sono sottolineati come meritevoli di qualche aggiustamento. Ma si tratta di interventi che presuppongono discussioni e confronti privi di preconcetti ideologici e di critiche ingiustificate ad un sistema normativo che, nel complesso, pare funzionare adeguatamente. Le critiche pretestuose, invece, farebbero correre il rischio di trascurare proprio quelle tematiche dove un perfezionamento normativo è senz’altro auspicabile o, comunque, tecnicamente possibile.


(1) Finora è stata la giurisprudenza a dover intervenire in modo “creativo”, per colmare una disciplina carente: Cassazione, Sezione VI, 9 dicembre 2008, Sticco.
(2) Cfr., tra le tante, Cassazione, Sezione IV, 21 maggio 2008, Frazzitta; nonché, Sezione VI, 29 gennaio 2008, Cortucci.
(3) Sezione VI, 3 giugno 2008, Guaglione.
(4) Sezione IV, 21 maggio 2008, Frazzitta.
(5) Trattasi del decreto adottato dal Ministro della Salute, di concerto con il Ministro della Giustizia, contenente l’indicazione dei limiti quantitativi massimi delle sostanze stupefacenti e psicotrope, riferibili ad un uso esclusivamente personale delle sostanze elencate nella tabella I del d.p.r. n. 309/90.

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