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GNOSIS 1/2005
La nuova sintassi del terrore e la crisi dello Stato nazionale

Ciro SBAILO'

Gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno determinato un cambiamento epocale nella storia dell’umanità che ha totalmente sconvolto i tradizionali concetti di sicurezza, di guerra e terrorismo. Le analisi politiche e strategiche degli attacchi alle Twin Towers e al Pentagono hanno trovato la massima espressione nel rapporto della “Commissione d’Indagine sull’11 settembre” e nella relazione della “Commissione del Senato americano sull’intelligence”.
Dalla loro lettura emerge la necessità di una riforma del modello di intelligence statunitense, che si caratterizzava per l’assenza di coordinamento, la scarsa considerazione delle informazioni e la limitata collaborazione tra le agenzie. Di errori la Intelligence Community ne ha compiuti parecchi (soprattutto nei confronti della minaccia proveniente dai terroristi islamici) anche perchè vittima di inefficienze che, solo attraverso un radicale mutamento del sistema (che parta dalla nascita di una struttura di “supervisione” dei programmi d’intelligence) potranno, in futuro, essere evitati.



Nuove guerre e nuove minacce

Gli Stati Uniti dispongono della più raffinata tecnologia del mondo e i loro servizi di informazione e sicurezza sono giustamente leggendari. Eppure il sistema non riuscì a leggere la minaccia dell’11 settembre 2001.


foto ansa

Esso possedeva gli strumenti di analisi e i dati necessari per prevenire l’attentato. Ma la nuova sintassi del terrore, con aerei pilotati da commando suicida e usati come bombe contro la popolazione civile, mandò in tilt la semantica americana della sicurezza.
Firmando l’“Intelligence Reform and Terrorism Act” il 17 dicembre 2004, il Presidente Bush ha detto: “la lezione dell’11 settembre 2001 è che l’intelligence americana deve lavorare insieme come un sol uomo”.
In base alla nuova legge ci sarà un “Direttore Nazionale dell’Intelligence” (DNI) che dovrà “unificare” la Intelligence Community (IC) e che curerà il breafing quotidiano al Presidente.
A lui, dunque, risponderanno le 15 agenzie, CIA compresa, il cui ruolo viene perciò molto ridimensionato.
Ai fini del dibattito italiano sulla riforma dei Servizi è innanzitutto importante comprendere la fase preparatoria della riforma americana, vale a dire l’ampio e complesso lavoro di analisi sulla natura delle nuove minacce e sulla cultura dell’Intelligence.
I documenti ai quali bisogna fare riferimento sono essenzialmente due. Il primo, famosissimo, praticamente un best seller, è il rapporto della Commissione di indagine sull’11 settembre (1) . Il secondo, di pari interesse ma meno popolare, anche a causa dello stile decisamente meno brillante del primo e alquanto burocratico, è il rapporto della Commissione del Senato americano sull’Intelligence (2) . C’è poi, com’è costume nella vita politica americana, una quantità enorme di documenti parlamentari, relazioni svolte dalla stessa IC e da centri studio privati. Noi faremo esplicito riferimento soprattutto ai primi due documenti, tenendo comunque presente tutta l’ampia documentazione prodotta con riferimento ad essi.
Le due relazioni possono essere considerate come due parti di un unico documento, composto di una trattazione generale del problema della sicurezza e dell’Intelligence dopo la fine della guerra fredda, con una ricostruzione accurata degli eventi e delle circostanze che hanno reso possibile l’11 settembre, e di un’attenta analisi della condotta della IC, con riferimento sia all’11 settembre che alla preparazione della guerra in Iraq.
Cominceremo col prendere in esame e commentare ciò che in questi due testi presenta un interesse di carattere generale, citando solo alcuni dettagli tecnici particolarmente emblematici.
Passeremo, dunque, all’esposizione di alcune possibili obiezioni al lavoro svolto dalle due commissioni. Infine, cercheremo di capire in che senso il dibattito americano possa rivelarsi utile per l’Italia, dove da tempo si discute di una riforma dei servizi segreti.
Il leit motiv dell’attività di indagine svolta dalle due commissioni è la “unicità” dell’attacco al World Trade Center e al Pentagono. Unicità non nel senso di irripetibilità – perché anzi viene presa in considerazione l’ipotesi che altri attacchi di quel genere possano essere messi in atto nei confronti degli Stati Uniti – ma nel senso di “epocalità”: quell’evento apre una stagione completamente nuova nella storia mondiale. Per questo, il paragone, che pure è circolato tra gli esperti, con l’attacco di Pearl Harbor (3) viene giudicato riduttivo: nel caso dell’11 settembre, infatti, la sorpresa è stata assoluta, non solo per l’audacia dell’azione, non solo perché è stato colpito il territorio americano e neanche per i mezzi utilizzati, ma, come vedremo, per la “logica” dell’azione, che ha sconvolto i tradizionali concetti di sicurezza, di guerra e di terrorismo.
In questo senso, si ritiene che al Qaida abbia dimostrato di essere più globalizzato dei servizi americani (4) , in quanto ha concepito e realizzato il proprio piano di attacco senza far ricorso alle categorie concettuali dello stato nazionale, all’interno delle quali s’è svolta e ancora in parte continua a svolgersi, la policy americana della sicurezza e dell’Intelligence.


foto da web

In linea di massima, si individuano due ordini di fattori che hanno reso possibile la sorpresa: fattori di ordine politico-culturale e fattori di ordine giuridico.
Per quanto riguarda i primi, viene sottolineata la riluttanza, sia dell’opinione pubblica sia dell’Amministrazione, ad accettare l’idea che gli Stati Uniti potessero essere colpiti da un atto di guerra materializzatosi in territorio americano e preparato altrove. Il problema della sicurezza dei confini, dell’estrema facilità con cui si entrava nel Paese e se ne usciva, non si era mai seriamente posto.
Il 25 gennaio 1993 c’era stata una sparatoria davanti agli uffici della CIA: un giovane pakistano aveva esploso colpi d’arma da fuoco su personale dell’Agenzia che andava al lavoro, uccidendo quattro persone.
Il pakistano poté allontanarsi dagli Stati Uniti e venne catturato all’estero, solo molto tempo dopo. Né la CIA né l’FBI sapevano nulla di lui. Il problema si poneva più o meno in questi termini: un pakistano che spara sugli impiegati della CIA è un problema “interno” o “esterno”? L’FBI, ad esempio, sul piano della polizia scientifica dispone di grandi risorse.
Mentre la CIA ha una maggiore competenza nell’interrogare testimoni ed organizzare dati. Ma l’integrazione tra queste due competenze fu impedita dalla riluttanza, da parte di tutto il sistema di Intelligence, ad accettare il nuovo terrorismo come fenomeno non descrivibile utilizzando la dicotomia interno/esterno (5) .
E qui veniamo all’altro ordine di problemi, quello giuridico. Fino all’11 settembre negli Stati Uniti il terrorismo è stato considerato alla stregua di un qualsiasi altro reato federale. Sempre nel 1993, appena dopo la sparatoria davanti alla CIA, ci fu il primo attentato al World Trade Center. Le autorità americane si concentrarono sugli aspetti giudiziari della faccenda: la questione veniva naturaliter collocata nell’ambito di competenza del Dipartimento di Giustizia, il cui scopo è notoriamente quello di punire i colpevoli, non certo di prevenire gli attentati o di smantellare le organizzazioni terroristiche. Alla CIA non fu permesso di accedere agli atti processuali, per evitare inquinamenti delle prove (6) . Dopo quell’attentato, l’FBI cercò di sviluppare una politica antiterroristica, ma mantenne un atteggiamento di tipo giudiziario, seguendo la logica del caso per caso, concentrandosi sul “fatto compiuto” e pensando all’azione legale piuttosto che alla prevenzione. L’autore dell’attentato fu trattato alla stregua di un criminale comune e nessuna pressione venne fatta su di lui affinché rivelasse le sue fonti di finanziamento, poiché questo dato non era essenziale ai fini processuali. Intanto, poche settimane dopo l’attentato, si materializzava il complotto iracheno per assassinare Bush padre.
Una volta distinti i due ordini di fattori fondamentali, che richiedono ovviamente trattamenti diversi – organizzativi e amministrativi, i primi; legislativi i secondi – vediamo come essi hanno interagito. Qui il discorso si fa, naturalmente, più complesso.
Innanzitutto, come s’è detto, la minaccia del nuovo terrorismo è qualitativamente diversa dalle tradizionali minacce con cui ci si è confrontati nell’ultimo mezzo secolo. Le coordinate per definirlo e combatterlo non sono più quelle degli stati nazionali, ma sono quelle delle “visioni del mondo” e degli “interessi economici” (7) . Ora, l’unica agenzia ad occuparsi di al Qaida prima dell’11 settembre è stata la CIA. Ma questa ha potuto operare quasi esclusivamente all’estero (8) .


foto da web

D’altra parte, lo stesso impegno all’estero non è stato supportato da una significativa presenza nelle aree a rischio. Non venne, ad esempio, costruita una presenza né in Afghanistan né in Iraq, nel primo caso perché la minaccia di al Qaida era ritenuta piuttosto remota, nel secondo perché c’erano troppi rischi per gli operativi. La CIA dovette, dunque, contare sui servizi alleati, il che, oltre a provocare “frustrazione” ed un progressivo allentamento dell’attenzione su al Qaida, generò una serie di problemi inerenti soprattutto alla “Prewar Intelligence” in Iraq, come vedremo. Nel contempo, l’FBI, benché eccezionalmente dotato sul piano investigativo, procedeva secondo una tipica logica garantista, ponendo attenzione a perseguire i reati piuttosto che al contrasto diretto, senza “collegare i punti” in un quadro generale.
La radice del problema viene individuata nella griglia entro la quale vengono disegnate le competenze di CIA ed FBI. Come accennato, questa griglia si sviluppa sulla base del paradigma “esterno/interno”.
In base a tale logica vi sono due tipi di minaccia: “nazionale” e “internazionale”. Solo che la sfida del nuovo terrorismo non è più internazionale, bensì “transnazionale”, ovvero essa in nessun momento può essere ridotta in maniera incontrovertibile dentro la dimensione “interna” o, alternativamente, dentro la dimensione “estera”. Sicché non si tratta qui di un semplice aumento di vulnerabilità, ma di un mutamento delle coordinate spazio-temporali della vulnerabilità: la patria americana è il pianeta” (9) e “nessun Presidente può promettere che un catastrofico attacco come quello dell’11 settembre non si verificherà ancora” (10) .
Va sottolineata, qui, l’insistenza con cui si fa riferimento al problema della “immaginazione”. Evidentemente, non ci si riferisce alla capacità di sbizzarrirsi nelle ipotesi più diverse, ma a quella di adottare un punto di vista non subordinato agli spazi e ai tempi dello Stato nazionale e della guerra fredda. In altri termini, nel lavoro d’indagine, svolto dalle due commissioni, l’elemento geopolitico e culturale prevale nettamente su quello tecnico e professionale-psicologico.
Il lavoro delle due commissioni va, dunque, collocato sullo sfondo del mutato scenario globale. Per tutto il XX secolo le strategie difensive sono state focalizzate sulle grandi potenze industriali. Nel periodo della guerra fredda tale tendenza è arrivata al suo estremo, con la suddivisione del pianeta in due grandi aree di competenza che formavano, in realtà, un solo sistema. Qualsiasi conflitto sviluppatosi sul pianeta doveva, infatti, poter essere riportato all’interno delle relazioni tra le due aree. Non che non vi fossero situazioni eccentriche: basti pensare alle tensioni tra l’URSS e la Cina o ai paesi “neutrali” e a quelli “non allineati”. Ma tali situazioni eccentriche erano, per l’appunto, trattate come “deviazioni” – criticabili o auspicabili, pericolose o rassicuranti, a seconda dei casi e dei punti di vista – da un “ordine” riconosciuto, comunque, come tale. In ultima analisi, ogni problema di tipo internazionale trovava nelle relazioni tra USA e URSS una sua “proiezione” e, in qualche modo, una sua soluzione. Ogni attentato alla sicurezza o ai diritti di un popolo o di una nazione era interpretato, anche, come una potenziale minaccia all’ordine e veniva collocato all’interno di un sistema gerarchico di relazioni che faceva capo alle due principali superpotenze.
Com’è noto, la situazione attuale è caratterizzata, invece, da asimmetricità e incongruenza nelle – reciproche e multilaterali – relazioni tra i popoli, le nazioni, gli stati, i gruppi etnici, i movimenti politici e gli interessi economici. È sempre più difficile compilare in modo “gerarchico” l’agenda dei problemi da affrontare o dei soggetti con cui interloquire. Ora, per esempio, bisogna concentrarsi sulle “regioni più remote e sugli stati e i paesi più deboli”, tenendo presente la fluidità e la reticolarità dei nuovi nemici dell’America. In altre parole, come si spiega nella relazione, la comprensione e la minimizzazione delle minacce non passano più attraverso categorie di tipo territoriale o strategico, ma attraverso categorie di tipo “sociale”, “economico”, “politico” e “culturale” (11) . Se così, le nuove risposte ai rischi alla sicurezza non possono essere elaborate entro gli schemi di una cultura “offensiva/difensiva” di tipo militare, ma vanno pensate entro gli spazi e i tempi di una cultura “reticolare”. Il sistema deve essere duttile, in grado di fornire risposte rapide, di stimolare l’immaginazione.
Infatti, le famose “occasioni mancate” dell’11 settembre – l’assenza di coordinamento, la poca condivisione di informazione e la scarsa collaborazione tra le agenzie – sono considerate solo come i “sintomi” del problema. La “malattia” è un’altra (12) .
I vari protagonisti delle politiche di Security e di Intelligence si muovono come se si trovassero all’interno di un ordine stabile e definito, come se il meccanismo fosse già programmato per rispondere a ogni minaccia, scegliendo e combinando tra loro, secondo procedure prestabilite, le risorse disponibili nel “catalogo”. Le agenzie, pertanto, cooperano, ma rimangono comunque isolate rispetto al contesto generale. L’insistenza sull’elasticità s’accompagna all’insistenza sulla centralizzazione. Occorre, infatti, un’integrazione creativa e organica delle risorse. Ma per questo è necessario che vi sia un “quarterback”, qualcuno che “chiami il gioco”, che abbia un progetto chiaro, forza di immaginazione e capacità decisionale (13) .
In altri termini, occorre privilegiare la creatività rispetto alla meccanicità dei processi decisionali, l’apertura a diverse ipotesi e a diversi scenari all’interno di una medesima operazione piuttosto che la rigorosa applicazione dei “protocolli”. D’altra parte, per evitare i rischi dell’arbitrio o della casualità, occorre rafforzare il principio dell’«Accountability»: maggiore discrezionalità deve significare maggiore responsabilità. Il problema non è certo nuovo nella storia americana (14) , ma si pone con particolare drammaticità dopo l’11 settembre. Non si tratta, dunque, di rafforzare il “coordinamento” tra i vari membri della IC, bensì di promuovere una “condivisione di obiettivi” la cui chiave sia nelle mani di un organismo monocratico, politicamente responsabile.
In questo senso, Accountability significa anche “centralizzazione”. In altre parole emerge come l’integrazione delle competenze e la valorizzazione delle risorse siano possibili solo sulla base di una “Policy”, di un progetto che faccia capo a una specifica e individuale responsabilità decisionale.
“Centralizzazione” significa in pratica smantellamento della CIA. Le indagini svolte dalle due commissioni individuano nella Company la materializzazione di tutto il retaggio politico-culturale della guerra fredda, la sintesi di tutti i problemi che una vecchia cultura strategica crea a un Paese che deve rispondere alle sfide della globalizzazione.
Sotto accusa è soprattutto la particolare collocazione della CIA, che è “parte” dell’IC, ma è anche la “testa” della stessa IC. Tale collocazione viene considerata come il residuo di un’epoca tramontata, quando l’attenzione era concentrata sulla minaccia militare dell’URSS e come un ostacolo alla modernizzazione dell’Intelligence. Si fa al riguardo l’esempio del direttore Tenet, il quale ha detto che egli non ha mai avuto una policy, ma solo una supervisione dell’implementazione delle competenze e delle risorse (15) . Ma secondo il rapporto, la distinzione tra “policy” e “supervisione” è artificiosa quando si tratta di minaccia terroristica: in un società dominata dall’informazione e dalla comunicazione, selezionare i dati equivale a dirigere, mentre gestire le risorse equivale ad avere una policy.
Per questo, si auspica la costruzione di un National Counterterrorism Center (NCTC), sulle fondamenta dell’esistente Terrorist Threat Integration Center (TTIC) e la sostituzione dell’attuale ruolo del direttore della CIA con un National Intelligence Director (NID) che dovrebbe supervisionare i centri nazionali di Intelligence e gestire i programmi nazionali di Intelligence. Il peso di un tale personaggio, ovviamente, potrebbe creare problemi all’equilibrio del sistema costituzionale. Infatti, la lotta al terrorismo islamico è così importante che chi se ne occupa finisce naturalmente per concentrare “troppo potere nelle proprie mani”. Il contrappeso viene individuato nel rafforzamento della responsabilità politica in materia di Intelligence. Il NID dovrebbe, dunque, essere collocato nell’ambito dell’Executive Office, praticamente a portata di mano del Presidente, mentre al potere del Congresso sarebbe dato un più forte potere di controllo sull’attività dei Servizi (16) .

Il catalogo degli errori

Nel quadro di analisi critica sopra delineato vanno a collocarsi alcuni specifici rilievi mossi all’Intelligence, in particolare nella Relazione del Senato. Le questioni possono essere così raggruppate:
a) pensiero collettivo;
b) ambiguità nella gestione della catena decisionale che collega l’Intelligence al potere politico;
c) esagerazioni per compiacere l’Amministrazione Bush;
d) poca condivisione dei dati all’interno della IC;
e) scarsa Intelligence umana (“Humint”).
Ovviamente i punti sono strettamente correlati tra loro. Ma noi proponiamo di considerarli isolatamente, perché ci pare che in questo modo si possa più agevolmente dare una chiara rappresentazione del problema e delle sue possibili soluzioni, come poi si vedrà nella parte conclusiva.

a) Pensiero collettivo
Il Report utilizza le espressioni “pensiero di gruppo” o “pregiudizio collettivo” per indicare un processo di adeguamento conformistico a orientamenti predeterminati – adeguamento che provoca non solo analisi distorte e interpretazioni forzate dei dati, ma anche veri e propri “fatti” inventati di sana pianta, stabilendo connessioni causali tra elementi certi, incerti e improbabili. In particolare, la CIA avrebbe compiuto dei “salti logici”, delle supposizioni prive di fondamento finalizzate alla costruzione di una trama predeterminata. Si tratta, in sostanza, del processo che la stampa anglosassone ha definito del «passaparola», con riferimento a quanto asserito nel rapporto della Commissione della Camera dei Lord (17) .
Tale convinzione collettiva è stata – secondo la Relazione fatta al Senato – così forte da inibire anche il funzionamento dei tradizionali meccanismi di verifica interni alla IC: gli analisti hanno ceduto alla tentazione di vedere nei Report ciò che si aspettavano di vedere, mentre i dirigenti, per parte loro, non hanno incoraggiato gli analisti a rivedere le loro analisi o a verificare la solidità dei punti di partenza (18) .
Sotto accusa è soprattutto il National Intelligence Estimate (NIE) dell’ottobre del 2002: 90 pagine nelle quali le agenzie americane fecero rapporto sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.
È necessario qui un breve riepilogo della vicenda.
Nel NIE si affermava, tra l’altro, che l’Iraq stava “vigorosamente” cercando di acquistare uranio dal Niger. Questo dato diventò, secondo la Commissione, uno dei punti di forza per le scelte dell’Amministrazione americana, come dimostrerebbero il discorso del presidente Bush sullo Stato dell’Unione del 28 gennaio del 2003 e la relazione del segretario di Stato Powell alle Nazioni Unite, il successivo 3 febbraio. Solo che quell’informazione s’è rivelata poi infondata. La notizia del traffico venne data agli americani da un “servizio straniero” (19) . La CIA inviò in missione l’ex ambasciatore Wilson, la cui moglie risulterà poi essere un agente coperto della CIA ed essere stata una delle principali artefici del conferimento della missione al consorte. Nell’ottobre dello stesso anno, una giornalista di “Panorama” acquistò copie di documenti che attestavano una transazione di uranio in Niger e chiese all’ambasciata americana di verificarne l’autenticità. L’intera storia si rivelò inattendibile. L’Ambasciata ha poi affermato di avere informato la CIA di questo. Ma intanto la notizia entrò a far parte dell’armamentario di argomentativi dell’Amministrazione Bush in merito alla seconda guerra nel Golfo.
Molte delle analisi contenute nel NIE vengono giudicate “fuorvianti” e alcuni suoi contenuti addirittura “falsi”, per effetto di un processo di «stratificazione» sviluppatosi a partire da asserzioni derivate da pure supposizioni (20) . Tra l’altro, si fa riferimento al presunto progetto dell’Iraq di utilizzare aerei senza pilota per bombardamenti chimici o biologici. Era ragionevole supporre che i tentativi iracheni per evitare le ispezioni dell’ONU nascondessero intenzioni di quel genere, ma gli analisti non disponevano, in ogni caso, di elementi sufficienti al riguardo. Il fallimento della IC fu il risultato di una “combinazione di debolezze sistemiche, in primo luogo nell’attività analitica, un insieme di mancanza di condivisione di informazione, gestione scarsa e inadeguata collazione di Intelligence” (21) .

b) Ambiguità nella gestione della catena decisionale
che collega l’Intelligence al potere politico

All’ombra del “pensiero collettivo” si sarebbe sviluppata un’ambigua gestione della catena decisionale che collega l’Intelligence al potere politico.
Secondo le due Commissioni, la IC barò con l’Amministrazione americana, fingendo di avere notizie che non aveva, spacciando per dati di fatto le proprie ipotesi e dando informazioni incomplete che ingannarono Bush e i suoi più stretti collaboratori circa il riarmo di Saddam. Essa, inoltre, avrebbe tenuto l’amministrazione americana all’oscuro dei propri stessi dubbi, rifiutandosi poi di fornire tutti i documenti richiesti al Parlamento.
Non viene, con ciò, disconosciuta la ragionevolezza di molti giudizi degli analisti della CIA. Era, ad esempio, ragionevole ritenere che Saddam avrebbe usato i propri servizi segreti per attaccare i propri nemici e che il dittatore iracheno mantenesse forti contatti con gruppi terroristi palestinesi, tramite i propri agenti segreti. Così come non si poteva escludere che vi fosse qualche contatto tra Saddam e al Qaida e che elementi di quest’ultima fossero presenti nella parte nord-orientale dell’Iraq. Aveva, dunque, ragione la CIA nel fare l’ipotesi che Saddam, se disperato, avrebbe potuto ricorrere ad al Qaida per condurre un attacco in caso di guerra (22) . E si poteva anche ipotizzare che l’Iraq avesse conservato armi dalla prima guerra del Golfo e usasse materiale “dual-use”, ossia buono sia per usi civili sia per usi militari, in modo da evitare di incorrere in sanzioni (23) .
Ma da tutte queste ipotesi furono ricavate delle granitiche “certezze”: si asserì con determinazione che l’Iraq aveva armi chimiche e batteriologiche e stava riavviando il proprio programma nucleare militare. Si stabilì una correlazione diretta tra la questione irachena e l’attacco dell’11 settembre, quando invece la stessa CIA riconosceva l’assenza di prove di complicità o collaborazione dell’Iraq di Saddam nell’attacco agli Stati Uniti (24) .
Insomma, secondo le due Commissioni, la IC fece un capzioso uso di informazioni parziali (25) , senza di-scriminare chiaramente tra prove, elementi di prova, indizi, ipotesi attendibili e inattendibili, informazioni dirette e indirette.
Le informazioni sul traffico di uranio finirono poi nel discorso di Bush sullo Stato dell’Unione del 2003. Nella preparazione del discorso, nessun analista della CIA propose di togliere le parole riferite al tentativo di Saddam di procurarsi uranio in Africa (26) . Qui viene chiamato direttamente in causa il direttore dell’agenzia, che non rilesse con attenzione il discorso e dunque non fu in condizione di avvisare il National Security Council delle inesattezze contenute in merito all’affare Iraq-Niger-uranio.
Ma l’effetto più vistoso dell’ambigua condotta dei Servizi sarebbe il successivo discorso del segretario Powell alle Nazioni Unite. Powell non disse cose false, ma il suo messaggio politico era fondato su informazioni inesatte o su analisi che andavano oltre i dati conosciuti (27) .
Infatti, nessuna delle affermazioni di Powell diverge in maniera significativa dalle affermazioni contenute nelle precedenti valutazioni pubblicate dalla CIA. E tuttavia, gli analisti fecero un lavoro di drafting che portò il Segretario di Stato a non dare notizie inesatte, ma a fare un discorso contestabile in diverse sue parti (28) . Nelle prime versioni del discorso ci sarebbero state, infatti, informazioni “esagerate”, se non proprio false, sulla pericolosità di Saddam. Quelle informazioni sarebbero poi state tolte. Ma il “vuoto” lasciato da queste, in qualche modo, avrebbe condizionato Powell e l’intera Amministrazione (29) . Tanto è vero che il direttore della CIA si rifiutò di fornire al Senato tutto il lavoro preparatorio del discorso, pertanto non si sa quali parti siano state tolte o aggiunte al discorso.
La Commissione del Senato lancia al riguardo un severo monito: “Gli analisti di intelligence sono non solo tenuti a interpretare e valutare i report di intelligence, ma anche a comunicare ai politici la differenza tra ciò che gli analisti sanno, ciò che essi non sanno e ciò che pensano, e ad assicurarsi che i politici comprendano la differenza” (30) .
Secondo la stessa Commissione, non solo la IC ha cercato di occultare la propria inefficienza con dichiarazioni allarmistiche, ma essa ha anche cercato di costruire un circuito informativo-analitico-decisionale completamente sotto il proprio controllo.
Il Report sul viaggio dell’ex ambasciatore, distribuito nel marzo del 2002, ad esempio, non modificò i giudizi degli analisti sull’affare Iraq-Niger-uranio. Solo che l’ex ambasciatore era nella duplice veste di fonte e di agente coperto. Questa ambiguità, secondo la Commissione, avrebbe consentito alla CIA di operare al di fuori del controllo dell’Amministrazione. La CIA, infatti, organizzò un incontro tra l’ex ambasciatore e gli analisti. In tale incontro fu discussa la credibilità dei Report. Ma quei Report venivano da una “fonte” o da un altro “analista”? Nel primo caso, la discussione non sarebbe dovuta avvenire in presenza dell’ex ambasciatore (non si discute della credibilità di una fonte davanti alla stessa fonte). Nel secondo caso, la CIA avrebbe dovuto informare l’Amministrazione (31) .
Viene rilevato, al riguardo, come la IC, benché avesse una limitata capacità di conoscenza in merito ai siti di armi di distruzione di massa dell’Iraq, non abbia compiuto alcun serio sforzo di verificare i dati in proprio possesso o di ampliare le proprie conoscenze. Al contrario, essa si tenne ben strette le proprie informazioni, quasi nel timore, sembra di capire, di doverle poi smentire, rinunciando così al proprio “plot”, alla trama predeterminata che orientava il “pensiero collettivo”. Emblematico, al riguardo, il caso dei rapporti tra la IC e le Nazioni Unite. Infatti, la IC si attenne alle disposizioni dell’Amministrazione di condividere le proprie informazioni con gli ispettori delle Nazioni Unite, ma il criterio utilizzato per selezionare le informazioni da condividere non fu sufficientemente documentato ed è forte il sospetto che molte informazioni – vere o false che fossero – vennero tenute nascoste agli ispettori (32) .
Insomma, gli analisti non hanno tenuto conto della “lezione dell’11 settembre”. Essi non hanno cercato di mettere la classe politica in condizione di decidere. Si sono comportati in modo confuso e irresponsabile, includendo tutti i dettagli possibili sulle loro fonti, e si sono mantenuti sulle generali circa i criteri applicati, senza, dunque, elaborare uno spettro delle possibili conclusioni derivanti dai dati in loro possesso (33) .

c) Esagerazioni per compiacere l’amministrazione Bush
Tale questione va distinta da quella precedente, perché nel primo caso abbiamo un difetto di professionalità nel senso tecnico, un tentativo maldestro di barare sulle proprie capacità professionali, un’impreparazione accompagnata da presunzione e velleità. In questo caso, invece, abbiamo un comportamento deontologicamente ed eticamente scorretto.
Secondo i commissari, anche in questo caso la IC, pur di non perdere la faccia e di non mostrare le proprie crepe, cercò di compiacere il governo e di conquistarne l’appoggio.
Nel testo è più volte ribadito che non esistono prove che il governo americano abbia fatto pressioni sulla CIA per ottenere informazioni o analisi “pilotate” (34) . Ma la situazione è controversa. Viene fatto osservare che dopo l’11 settembre gli analisti sono stati sottoposti a una tremenda pressione. In cima alle loro preoccupazioni c’era la possibilità di un nuovo attacco, di quel tipo, all’America. Questo li ha portati ad essere più apodittici ed assertivi del solito sul tema del terrorismo (35) . Mentre, nel contempo, è aumentata l’attenzione dei politici nei loro confronti. Forse questo clima ha indotto molti analisti a interpretare come “pressioni” le numerose domande di chiarimento e le sollecitazioni venute da parte del mondo politico (36) .
Viene, ad esempio, citato un meeting nell’agosto del 2002 per preparare la versione del documento “Iraqi support for terrorism” al quale partecipavano due membri dello staff del sottosegretario alla Difesa. Tutti i partecipanti al meeting hanno, poi, escluso pressioni da parte dell’Amministrazione (37) . Viene riconosciuto che vi furono alcune modifiche al documento, ma si osserva che nella sostanza gli analisti non apportarono cambiamenti ai loro giudizi.
Tuttavia, non essendovi “prove” di pressioni da parte della Casa Bianca, la Commissione ritiene, in sostanza, che “la cattiva caratterizzazione o l’esagerazione dell’Intelligence sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq” siano state il risultato della combinazione tra una sorta di autocondizionamento, per andare incontro a quelle che erano ritenute le aspettative dell’amministrazione Bush, da una parte, e il timore di commettere un errore di sottovalutazione della minaccia, dall’altra. Ma gli analisti non si sono limitati a “personalizzare” le analisi, come sempre si fa, ma si sono sforzati di adeguarle a quelle che essi supponevano essere le aspettative dell’Amministrazione.
Diversi esempi vengono citati a sostegno di questa tesi (38) .
Nel NIE, ad esempio, si porta a prova dell’incremento del programma nucleare di Saddam il fatto che quest’ultimo si stesse procurando una gran quantità di tubi di alluminio, le cui dimensioni e la cui composizione eccedevano quelle previste per gli usi non nucleari. In primo luogo, questa affermazione, secondo la Commissione, era scorretta o, quanto meno, esagerata. Quei tubi potevano essere impiegati anche per usi estranei alle armi di distruzione di massa. In secondo luogo, gli analisti suggerivano che i tubi fossero una priorità per Saddam e da ciò deducevano che il programma nucleare fosse a sua volta la priorità per il dittatore iracheno. Questa deduzione viene considerata scorretta, anche sotto il profilo logico. La debolezza dell’argomentazione avrebbe poi spinto a falsificare i dati intorno al prezzo pagato per quei tubi, affermando che esso era più alto del consueto (39) .
Analogamente, l’affermazione contenuta nel NIE, secondo cui erano attive in Iraq armi biologiche di distruzione di massa e che da questo punto di vista c’erano stati progressi rispetto alla prima guerra del Golfo, non è supportata da elementi di Intelligence noti alla Commissione. In altri casi le valutazioni sono andate oltre le stesse informazioni in possesso degli analisti o i dati conosciuti dal Parlamento, come quando si afferma che l’Iraq, disponeva di armi chimiche o poteva, e voleva, utilizzare armi biologiche di distruzione di massa.
La consapevolezza della fragilità delle proprie analisi, secondo la Commissione, ha portato la CIA ad essere reticente circa l’affidabilità delle proprie fonti, cercando di tenere il potere politico all’oscuro delle proprie informazioni al riguardo (40) .
D’altra parte, malgrado un quarantennio di Report di Intelligence sull’Iraq, c’erano ben pochi elementi concreti di Intelligence su cui poter fondare la tesi di legami tra l’Iraq e al Qaida. Ciò era dovuto, principalmente, al fatto che la CIA non s’era sforzata di avere una propria presenza qualificata e duratura sul campo, come si vedrà più avanti (41) .

d) Poca condivisione dei dati all’interno della IC
La CIA viene accusata di non avere collaborato con altre agenzie informative e al suo direttore viene rimproverato di avere abusato della propria posizione unica (direttore della Company e numero uno dei Servizi) nell’ambito della IC, comportandosi più da capo della Company che da responsabile generale dell’Intelligence (42) . Inoltre, nei rari casi in cui fece ricorso all’Intelligence “umana” (Humint) in Iraq, la CIA applicò in maniera “molto restrittiva” il principio del “need to know” (in base al quale non si danno informazioni non essenziali neanche ai propri più stretti collaboratori), evitando di condividere importanti notizie all’interno della IC (43) . Del resto, si osserva, questo uso restrittivo delle fonti, in particolare per quanto riguarda la Humint (44) , è comune a tutta la IC (45) , il che ha ostacolato sia la condivisione di importanti informazioni sia la verifica sull’attendibilità delle fonti.
Il direttore della CIA avrebbe utilizzato il proprio accesso esclusivo a certe fonti e al rapporto con i politici per indirizzare le analisi nella direzione da lui voluta, anche al di fuori della Company. Per esempio, la CIA svolse analisi sui già citati tubi di alluminio che l’Iraq si stava procurando – tubi che possono essere utilizzati sia per scopi nucleari civili sia per scopi nucleari militari. Ai test, la CIA non invitò gli esperti del Dipartimento dell’Energia, che avrebbero potuto dare un valido contributo alla comprensione dell’uso che Saddam poteva fare di quei tubi (46) . Ciò generò confusioni ed equivoci, nei quali appare difficile, stando agli atti, distinguere la colpa dal dolo.
Le informazioni circa l’inattendibilità del Report sull’uranio arrivò in quello stesso ottobre 2002 in cui fu pubblicato il NIE. Ma né gli analisti né gli operativi della CIA fecero alcuno sforzo per ottenerne una copia e quando, infine, la ottennero, non esaminarono accuratamente il testo. Se l’avessero fatto, avrebbero preso atto dell’errore circa il traffico di uranio ed avrebbero evitato che quella tesi finisse nelle pubblicazioni e nei discorsi dell’Amministrazione (47) .
La CIA, inoltre, cercò di occultare i dissensi interni alla IC. La versione desecretata del NIE venne purgata dei dissensi di altri analisti nei confronti delle tesi sostenute dagli esperti della Company. Mentre una dichiarazione di dissenso dell’Ufficio di Intelligence e Ricerca del Dipartimento di Stato sul Report relativo ai tentativi di Saddam, di procurarsi uranio in Africa, finì nella sezione “tubi di alluminio” del NIE. Rispondendo, poi, a una richiesta del senatore Levin, la CIA ribadì le proprie tesi su Iraq-Nigeria-uranio, senza dire che lo State Department’s Bureau of Intelligence riteneva inaffidabile la fonte di quell’informazione (48) .
Prevedendo una possibile obiezione, viene detto che comportamenti del genere non possono essere giustificati dal poco tempo in cui il NIE fu preparato (49) .
Il problema - si sostiene - è che la IC s’è mossa in generale con ritardo e scarsa professionalità (50) .

e) Scarsa Intelligence umana (“Humint”)
La superficialità con cui si trattarono le fonti, da una parte, e l’uso capzioso di informazioni parziali, dall’altra, furono anche dovute al fatto che la IC dipendeva troppo, per le proprie informazioni sulle armi di distruzione di massa, da defezionisti iracheni, da governi stranieri, da Report provenienti da terzi o dai Servizi di altri paesi (51) .
In particolare, dopo la partenza degli ispettori ONU dall’Iraq nel 1998, la IC rinunciò a ogni presenza sul territorio iracheno. Il che, paradossalmente, accentuò la tendenza “autoreferenziale” (52) della Company. Quando, infatti, gli ispettori dell’ONU tornarono in Iraq nel 2002 e non trovarono prove dei programmi per armi di distruzione di massa, gli analisti della IC dettero poco peso a tali dichiarazioni (insinuando che gli ispettori s’erano fatti imbrogliare da Saddam), confermando così la tendenza a rigettare le informazioni in contrasto con il “pregiudizio collettivo” circa il programma iracheno per le armi di distruzione di massa (53) .
L’impegno in termini di Humint è stato scarso, quasi nullo, nel fornire elementi di valutazione ai politici sulla stabilità regionale (54) . La IC non ha potuto monitorare adeguatamente l’evoluzione della minaccia irachena nell’area, non registrando, ad esempio, l’indebolimento della forza militare irachena dopo la prima guerra del Golfo.
La dipendenza della IC, dunque, ha reso la politica americana particolarmente “vulnerabile” rispetto a manipolazioni funzionali a “interessi stranieri” (55) .
Eppure, viene rilevato, le potenzialità non mancano. La IC, ad esempio, ha fornito una gran quantità di valide analisi sui problemi della stabilità politica nell’area ed ha fatto un buon monitoraggio sulla questione dei diritti umani in Iraq, pur nei limiti dovuti all’assenza di una diretta presenza sul territorio (56) .
Il problema, dunque, non sembra riguardare le specifiche capacità degli analisti: si tratta della “visione del mondo” che sorregge l’odierna cultura professionale dell’Intelligence. Quando la Commissione ha chiesto alla CIA perché non ci fossero suoi uomini in Iraq, la risposta è stata che l’operazione era troppo rischiosa. Ciò è vero, ma tali attività dovrebbero, di norma, rientrare nelle competenze della CIA. Se così non è, vuol dire che il problema ha radici profonde (57) .


Le ragioni della CIA

Com’è naturale, contestualmente al lavoro delle due Commissioni, si sono levate molte voci in difesa dell’Intelligence, che hanno evidenziato incongruenze interne ai risultati delle due Commissioni.
Innanzitutto è stata rilevata la contraddizione tra due accuse: avere trattato con troppa disinvoltura i dati, facendo indebite “proiezioni” dal particolare al generale o dal passato al futuro, da un lato, e aver avuto troppa poca “immaginazione”, dall’altro.
Si potrebbe, al riguardo, osservare che la contraddizione è attenuata dal fatto che le accuse relative alla poca “immaginazione” e quelle relative ai «salti logici» si riferiscono a periodi diversi: rispettivamente, all’11 settembre ed alla guerra in Iraq. Ma non è sempre così. Proprio nel rapporto del Senato, che si occupa specificamente della “Prewar Intelligence”, quella della mancanza di immaginazione è un’accusa centrale. Anzi, nella relazione si parla apertamente della pusillanimità degli analisti, che prima avrebbero fatto deduzioni arbitrarie dai dati, per compiacere l’Amministrazione, e poi, per sfuggire alle proprie responsabilità, si sarebbero nascosti dietro una selva di informazioni inutili, incoerenti o addirittura false.
Il problema, dunque, è che cosa si intende per “conoscenza”. Se si intende il semplice accumulo di dati, allora non è la conoscenza in se stessa a garantire l’efficienza delle attività di Intelligence e di Security. Al riguardo, l’ex capo del Mossad, Efraim Halevy (58) , ha sostenuto che bisogna guardarsi dalla “hybris” dell’Intelligence, dalla convinzione, cioè, di potere risolvere tutto con la conoscenza. Il problema, a ben vedere, è politico, nel senso più ampio. Quando ci si affida al flusso dei dati, non solo si perde la capacità di immaginazione, ma ci si deresponsabilizza.
Alla luce di queste considerazioni, fermi restando i singoli comportamenti scorretti largamente riportati nella relazione del Senato, l’accusa di avere “esagerato” su Saddam sembra ampiamente contestabile.
Saddam, negli ultimi 25 anni, ha cercato per ben tre volte di sviluppare armi di distruzione di massa. E quando un analista dei servizi redige un rapporto, non può limitarsi a prendere visione dei dati “scientificamente”, ma deve pensare “politicamente”, ovvero deve pensare al futuro tenendo presente l’esperienza storica. E in quelle condizioni, non si poteva che ipotizzare che Saddam stesse ancora cercando di sviluppare WMD.
Il fatto che le WMD non siano state trovate non vuol dire che non ci fossero.
Proviamo, infatti, ad applicare il criterio che le due Commissioni hanno utilizzato per giudicare la “Prewar Intelligence” al lavoro svolto dall’Intelligence prima dell’11 settembre.
La commissione del Senato ha appurato che la CIA fallì nel monitorare uno dei dirottatori dell’11 settembre, otto mesi prima dell’attacco, proprio quando la Company sospettava lo stesso essere un membro di al Qaida. La spiegazione di ciò è molto semplice: la CIA non ha l’abitudine di monitorare i terroristi. Infatti, le procedure di sicurezza applicate per quasi mezzo secolo di guerra fredda non comportavano il monitoraggio dei terroristi stranieri fuori dal loro territorio. Si trattò, dunque, di un “difetto d’ immaginazione”, come è stato detto.
Ma ci si deve chiedere che cosa sarebbe accaduto se quel difetto non ci fosse stato. La IC avrebbe messo in correlazione le varie notizie a disposizione (i nomi e le storie degli attentatori, i corsi per imparare a pilotare gli aerei, ecc.) e li avrebbe proiettati nel futuro, tenendo presente il primo attacco al World Trade Center. Ovvero, avrebbe seguito la linea di Richard A. Clarke, che nel suo libro Against All Enemies (59) accusa la Casa Bianca di non avere dato peso ai prodotti di “immaginazione” elaborati dal suo ufficio di coordinamento contro il terrorismo sulla minaccia di al Qaida. A quel punto, non ci sarebbe stato che da prendere alcune precauzioni, come l’aumento dei controlli sui passeggeri dei voli interni, la sospensione di alcune garanzie costituzionali, quale ad esempio il diritto alla privacy, l’ampliamento della competenza della CIA nella sfera interna e così via. Ebbene, è molto probabile che in una tale eventualità i Servizi sarebbero stati accusati di volere indurre l’Amministrazione a limitare le libertà costituzionali e che ad essi sarebbero state chieste le “prove” per giustificare il loro “allarmismo”. Sulla base di tale ragionamento si può dunque dire che, nel caso dell’Iraq, la IC fece un uso legittimo della propria immaginazione, proprio tenendo conto della terribile «sorpresa» dell’11 settembre.
Se, come è scritto proprio nelle due relazioni, la destinazione ultima del lavoro di Intelligence non è nella raccolta dei dati, bensì nella costruzione di scenari, allora bisogna ammettere che lo scenario che vedeva Saddam divenire, sulla base di una “condivisione di obiettivi” con la Jihad, un pericolo per gli interessi americani, nella regione e per il mondo intero, era tra i più plausibili.
Se così, inoltre, persino il “pensiero collettivo” non andrebbe considerato come un problema in sé. Le riunioni tra analisti di Intelligence hanno una destinazione di carattere operativo, non accademico. E l’operatività può essere minacciata dal sorgere di seri conflitti interpretativi. Quanto al rischio che il consenso sia il frutto di un atteggiamento passivo nei confronti dei dati, questo può essere evitato solo a condizione che vengano incoraggiate la creatività e l’assunzione di responsabilità. Ma creatività e responsabilità non vengono certo incoraggiate se si attribuisce all’Intelligence la responsabilità diretta delle scelte compiute dai politici. Il rapporto tra il capo dell’Intelligence e il Capo dell’Esecutivo non può che essere di tipo fiduciario e riposa, in ultima analisi, sulla decisione politica: la responsabilità decisionale non può essere condivisa. Se il potere politico sposta la responsabilità sul capo dell’Intelligence, ovvero cerca di “formalizzare” il rapporto con il capo dei Servizi segreti, provoca un processo di progressiva burocratizzazione e deresponsabilizzazione dei Servizi stessi.
Altro problema che s’è posto è quello della resistenza della IC ai cambiamenti.
Al riguardo, è stato osservato che nessuna struttura accetta volentieri di cambiare. Anzi, può accadere che di fronte all’alternativa tra cambiare o morire, la scelta può essere quella dell’immobilismo. E ciò perché l’organizzazione interpreta alcuni cambiamenti come distruzione, in quanto intaccano la rappresentazione che essa ha di sé. In questo caso, di fronte alle sfide ambientali ci si chiude a riccio e si va verso l’autodissoluzione.
Guardando alla storia americana ci si rende conto che le varie Amministrazioni hanno provato a risolvere i problemi organizzativi attraverso nuove strutture di coordinamento. In realtà, la moltiplicazione delle sigle ha ulteriormente complicato il lavoro e ha reso il sistema ancora più rigido e più refrattario ai mutamenti strutturali.
La ragione di questa eterogenesi dei fini va cercata, forse, nelle radici dell’attuale sistema statunitense di Intelligence. Il National Security Act del 1947 prevede per il direttore della CIA due incarichi: far funzionare la CIA e gestire il resto dell’Intelligence. In realtà, in molti hanno osservato che non gli fu dato potere sufficiente per fare bene entrambe le cose. E non a caso, gli organismi esistenti – a carattere militare e giudiziario – non erano affatto rassegnati a lasciarsi coordinare dal direttore della CIA e, successivamente, cercarono di mantenere a ogni costo la propria autonomia, arrivando persino a boicottare il DCI.
Ne risultò la formazione di un «gap tra l’ampia responsabilità del DCI e il suo effettivo potere» (60) .
In un certo senso, fu la guerra fredda a rendere ciò possibile e, forse, anche necessario. La CIA si configurava come il braccio operativo del governo nel contrasto del blocco comunista, fuori dal territorio americano, ovvero come «lo strumento principale della politica estera americana» (61) . L’ambigua collocazione del DCI, dunque, risultava per certi aspetti anche utile, perché permetteva di condurre operazioni coperte, gestite direttamente dal Governo, senza che venisse coinvolta l’intera IC.
È di tutta evidenza come la situazione oggi sia notevolmente mutata.
E l’ambiguità del ruolo del Direttore della CIA si configura non come la causa dei problemi, bensì come una sua manifestazione parossistica, insieme alla rigidità, alla burocratizzazione, alla poca creatività e così via. In questo senso, c’è da chiedersi fino a che punto la recente sostituzione del DCI con un superdirettore determini un effettivo “rinnovamento”. A meno che non si decida di considerare l’Intelligence come una struttura di natura meccanica, dove è possibile sostituire un pezzo con un altro, come accade con le automobili, e non invece, secondo le indicazioni contenute proprio nelle relazioni delle due commissioni, come un organismo vivente, estremamente sensibile, al quale si possono apportare mutamenti solo tenendo presente il quadro d’insieme delle sue funzioni e che può avere reazioni di “rigetto” rispetto a operazioni di trapianto.
Insomma, la creazione di nuove strutture di coordinamento sembra, da questo punto di vista, estremamente rischiosa: una struttura, come tale, tende all’autoconservazione, a irrigidirsi di fronte alle novità.
Il problema appare, dunque, essere non il coordinamento, bensì l’agilità dell’organismo, la sua capacità di adattarsi ai mutamenti e di rispondere creativamente alle nuove minacce. E ciò è possibile soprattutto ristabilendo, a ogni livello, il principio di responsabilità, e individuando una chiara catena di comando che faccia capo al vertice dell’Esecutivo.
Va, infine, osservato che l’accusa di pensare ancora secondo i canoni della guerra fredda andrebbe quantomeno condivisa tra Intelligence e classe politica.
Un aspetto della cultura della guerra fredda è il cosiddetto “realismo politico”, che ha portato l’Amministrazione americana a sottovalutare la minaccia di al Qaida perché la genesi di quell’organizzazione era interna a quel mondo cosiddetto “arabo-moderato” con il quale gli Stati Uniti hanno tradizionalmente buone relazioni. Le amministrazioni americane, anche dopo il crollo dell’URSS e l’accelerazione dei processi di globalizzazione, hanno nel complesso continuato a percepire le minacce in termini stato-nazionali. Ed è così che gli Stati Uniti si sono trovati “disarmati” davanti a un’aggressione “autoimmunitaria” (62) . A lungo, il radicalismo islamico è stato interpretato più come uno strumento di destabilizzazione delle proiezioni sovietiche nel Medio Oriente e dell’Asia centro-occidentale, piuttosto che come una potenziale minaccia alla stabilità planetaria. L’URSS è crollata, ma quegli schemi e quei protocolli hanno continuato a funzionare: anche se vi fu l’ordine, da parte della Casa Bianca, di eliminare Bin Laden, dopo gli attentati alle sedi diplomatiche USA nel 1998, si trattava di un fatto isolato, della punizione di un “criminale”. Al Qaida non era nemmeno stata inserita nell’elenco delle organizzazioni terroristiche.


Spunti di riflessione per l’Italia

Come s’è visto, il dibattito negli USA sull’Intelligence offre più d’uno spunto a chi deve occuparsi dello stesso problema in Italia. Noi ci limiteremo qui alla questione circa l’orientamento fondamentale di una riforma, a cominciare dal concetto stesso di “Intelligence”.
L’Intelligence non è una scienza nel senso popolare del termine, come viene ribadito proprio nella relazione del Senato (63) , ovvero non è un insieme di conoscenze ordinate in sequenza, in modo da poter giungere, con procedimenti predeterminati, a conoscenze incontrovertibili. Del resto, oggi questo concetto di scienza è superato. Il “rigore” è nel principio di “responsabilità”, ovvero nella capacità decisionale. In questo senso, la scientificità dell’Intelligence è quella della “politica”, che infatti per gran parte del pensiero occidentale è “scienza regia“, “critica e direttiva”, nel senso che mette insieme tra loro competenze, valori e personalità eterogenee, se non addirittura conflittuali, senza farsi dominare da alcuna «tecnica ausiliaria» (64) , facendo leva su un’assunzione personale di responsabilità. L’Intelligence, come la politica, ha bisogno della conoscenza, ma si regge sull’umana capacità di rischiare e di decidere. Da questo punto di vista, è stato osservato che, nel lavoro di Intelligence, il computer più affidabile resta il «cervello umano» (65) .
In questo senso, leggendo le relazioni e gli interventi a favore della IC, il limite degli analisti è stato, forse, proprio quello di aver fatto eccessivo affidamento sulle meccaniche decisionali e sugli automatismi conoscitivi, e troppo poco sulla capacità, tipicamente umana, di affrontare, creativamente, l’imprevisto.
Insomma, l’approccio dell’Intelligence al nuovo terrorismo appare ancora troppo “galileo-newtoniano” e troppo poco “quantistico” o, per parafrasare un personaggio di The Company di Littel, ancora troppo “euclideo” e troppo poco “gaussiano” (66) .
Oggi, secondo alcuni politologi, saremmo addirittura di fronte a una crisi della stessa razionalità decisionale, fondata sul processo di “astrazione”: la massa di informazioni è crescente, è un mare di bit, nel quale starebbe affondando ogni previsione ed ogni progetto. Forse non siamo a questo punto ma, certo, c’è un problema di Accountability, che non può essere risolto sul piano tecnico, ovvero sullo stesso piano sul quale esso si manifesta. La realtà è oggi così complessa che può essere molto difficile trovare due “tecnici” che pensino la medesima cosa sulla medesima materia. Anche perché, nella società globale accade un po’ in tutti i campi ciò che già accade nell’economia finanziaria: il “parere” dell’esperto interagisce con la materia di cui l’esperto si occupa, ed è sempre più difficile stabilire un rapporto lineare tra la previsione di un evento, la sua conoscenza e la rappresentazione di esso.
Questo significa che bisogna rassegnarsi alla casualità? In effetti, non c’è alcuna casualità a cui rassegnarsi. In politica non esistono vuoti.
Se si ripercorre la catena delle “competenze” si arriva sempre a una “decisione” presa con discrezionalità.
Il punto è che in democrazia tale decisione va resa visibile, ancorata a una responsabilità di carattere individuale. Per agire, il Governo ha bisogno di conoscere. Molte decisioni, specie se riguardano la sicurezza del Paese, debbono essere prese in modo rapido.
L’Intelligence aiuta il governo in ciò. Ma in questo caso il rapporto che si stabilisce tra la conoscenza dei fatti, l’accertamento e la decisione è altamente indeterminato. In una situazione così fluida, la logica del “coordinamento” appare decisamente più debole di quella della “direzione” centralizzata e politicamente responsabile.
Di fronte ai molti possibili scenari, quotidianamente all’attenzione di chi si occupa di Intelligence, la domanda ultima e decisiva, prima di fare una scelta, non è “chi ne sa di più”, bensì “chi ne risponde”. Una catena di competenze per determinare l’iter di una decisione ha senso solo se appesa ad una visibile responsabilità individuale. Del resto, non consiste anche in questo la “preziosa imperfezione” della democrazia?


(1) La «National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States» è una Commissione indipendente e bipartisan, istituita di comune accordo tra il Congresso e il Presidente Bush. Il Presidente della Commissione è Thomas Kean, già governatore del New Jersey. Il «Public Report» (d' ora in avanti " Report 9/11" ) è stato pubblicato il 22 luglio 2002. Altro materiale, con discorsi e approfondimenti, è stato pubblicato il 21 agosto seguente (http://www.9-11commission.gov/).
2) La «Select Committee on Intelligence» del Senato degli Stati Uniti, presieduta dal sen. Pat Roberts, ha compiuto un' indagine sul lavoro svolto dall' Intelligence in vista della missione militare in Iraq, pubblicata, con il titolo «Report on the U.S. Intelligence Community Prewar Intelligence Assessments on Iraq» (d' ora in avanti " Report U.S. IC" ), il 7 luglio 2004 (http://intelligence.senate.gov/).
(3) Report 9/11, p. 339.
(4) Report 9/11, p. 340.
(5) Report US IC, p. 339.
(6) Report 9/11, p. 73.
(7) Report 9/11, p. 10.
(8) Report 9/11, p. 13.
(9) Report 9/11, p. 362.
(10) Report 9/11, p. 365.
(11) Report 9/11, p. 340.
(12) Report 9/11, pp. 350 e 400.
(13) Report 9/11, p. 400.
(14) Report 9/11, p. 99.
(15) Report 9/11, p. 402.
(16) Report 9/11, pp. 493 e ss.
(17) «Review of intelligence on Weapons of Mass Destruction – Report of a Committee of Privy Counsellors», Presidente Lord Butler, 14 luglio 2004, p. 107 (www.butlerreview.org.uk).
(18) Report US IC, p. 93.
(19) Report US IC, pp. 37-38.
(20) Report US IC, p.p. 22-23.
(21) Report US IC, p. 14.
(22) Report US IC pp. 345-349.
(23) Report US IC p. 17.
(24) Report US IC, p. 347.
(25) Report US IC, p. 17.
(26) Report US IC, p. 80.
(27) Report US IC, pp. 329 e ss., 253, 244.
(28) Report US IC, p. 369.
(29) Report US IC, pp. 253 e ss.
(30) Report US IC, p. 235.
(31) Report US IC, pp. 73 e ss.
(32) Report US IC, pp. 417 e ss.
(33) Report US IC, p. 32.
(34) Report US IC, pp. 8, 16, 272.
(35) Report US IC, pp. p. 363.
(36) Report US IC, pp. 34 e ss.
(37) Report US IC, p. 363.
(38) Report US IC, p. 35.
(39) Report US IC, pp. 129 e ss.
(40) Report US IC, pp. 187 e ss.
(41) Report US IC, pp. 355 e ss.
(42) Report US IC, pp. 27 e ss.
(43) Report US IC, p. 24.
(44) Report US IC, p. 295.
(45) Report US IC, p. 33.
(46) Report US IC, p. 40.
(47) Report US IC, pp. 76-79.
(48) Report US IC, p.p. 81-82.
(49) Report US IC, p. 76.
(50) Report US IC, p. 295.
(51) Report US IC, pp. 269 e 34.
(52) Report US IC, p. 8.
(53) Report US IC, p. 18.
(54) Report US IC, p. 39.1
(55) Report US IC, pp. 34 e 353.
(56) Report US IC, pp. 392 e ss.
(57) Report US IC, pp. 24, 271 e 33.
(58) Una sintesi di questi argomenti è in: E. Halevy, In defence of the intelligence services , «The Economist», 29 luglio 2004
(59) R. A. Clarke, Against All Enemies , Rac Enterprise, 2004. Tr. it. Contro tutti i nemici , a c. di R. Moro e F. Baracchini, Milano, Longanesi, 2004.
(60) A. B. Zegart, «Written remarks for the Record – The Senate Select Committee on Intelligence», 18 agosto 2004.
(61) R. Littel, The Company [2002] Penguin Books, 2003. Tr. it. The Company. Il grande romanzo della CIA , a c. di F.Perroli, Milano, Mondadori, 2004, p.46.
(62) Jaques Derrida in G. Borradori. Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jaques Derrida , Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 103.
(63) Report US IC, p. 4.
(64) Platone, Il Politico , 292b-c.
(65) J. Bamford, Body of Secrets. Anatomy of the Ultra-Secret National Security Agency from Cold War though the Dawn of a New Century , Anchor Books, 2001. Tr. it. L' orecchio di Dio. Anatomia e storia della National Security Agency , a c. di R. Massini, Roma, Fazio, 2004, p. 570.
(66) Cfr. R. Littel, The Company , tr. it. cit. p. 45.

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