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GNOSIS 4/2007
Scenari oltreoceano

Il nuovo volto dell'America latina


Gennaro CAROTENUTO


A partire da questo numero la Rivista si propone di ritagliare uno spazio da destinare a qualificati contributi volti all’approfondimento di specifiche tematiche a carattere internazionale. A tal riguardo presentiamo un’analisi del Prof. Carotenuto sul ‘nuovo volto dell’America latina’ alla luce anche degli attuali equilibri politico-economici che hanno così profondamente inciso sui rapporti internazionali tra vecchi e nuovi partners. E’ auspicabile che tale iniziativa sia di stimolo per altri interventi che possano essere anche di interesse per il mondo dell’Intelligence.
Cosa è davvero cambiato in America latina rispetto agli anni del Washington Consensus? Che valore strutturale possiamo attribuire all'azione dei Governi integrazionisti, culminata nel dicembre 2007, nella fondazione del Banco del Sur? Come si sta modificando il ruolo degli Stati Uniti in un cortile di casa dove, per la prima volta dal riflusso dell'impero britannico, e ben più di quanto non avesse ambìto a fare l'Unione Sovietica, altri attori, come la Cina, l'India, la stessa Unione Europea ed il commercio Sud-Sud stanno ricavando quote di mercato e politiche sempre più importanti? È proprio l'America latina la palestra di un mondo multipolare?
Secondo la CEPAL, Commissione economica per l'America latina e i Caraibi delle Nazioni Unite, l'America latina nel 2007 ha registrato una crescita del Prodotto interno lordo complessivo del 5.6%(1). Alla testa tra chi cresce di più vi sono: Panama, Argentina e Venezuela, che sfiorano il 10%, mentre in coda si trovano paesi come Haiti, Messico, Nicaragua ed Ecuador, con crescite intorno al 3%.
E' il quinto anno consecutivo che le economie latinoamericane crescono a ritmo così sostenuto. La povertà lentamente si riduce e la disoccupazione è calata a livelli di 15 anni fa, ovvero a prima dell'acme della stagione neoliberale, e si colloca ormai sotto l'8% su base continentale.
Gli investimenti sfiorano i 100 miliardi di dollari e perfino i consumi interni, a lungo compressi, crescono vicini alla doppia cifra. Con le sole e non banali eccezioni del Messico e del Perù, per la prima volta in molti anni sia le classi popolari che quelle dirigenti guardano al futuro della regione con ottimismo.

L'integrazione regionale

Se il cambio di segno politico registrato in gran parte dell'America latina nell'ultimo lustro ha dei tratti politici netti(2), ma che esulano dallo specifico del presente saggio, uno dei prodotti più significativi di tale cambiamento politico sta nello sforzo finalmente comune e deciso verso l'integrazione regionale, soprattutto del Sud America, e più nello specifico dei paesi che si affacciano sull'Oceano Atlantico.
La Costituzione brasiliana (ma le altre non sono da meno) all'articolo 4 recita: "La Repubblica federale del Brasile perseguirà l'integrazione economica, politica, sociale e culturale dei popoli dell'America latina, promuovendo la formazione di una comunità latinoamericana di nazioni". Tuttavia, nonostante la dignità costituzionale riconosciuta all'integrazione, il sogno di Simón Bolívar e di José de San Martín è rimasto a lungo nel cassetto.
Quando il Mercosur, il mercato comune tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay(3) nasce ad Asunción nel 1991, questo non ha altro obbiettivo che l'armonizzazione doganale tra i contraenti. Tutto cambia nei primi anni di questo secolo con la crisi, sia materiale che etica, del progetto neoliberale condotto dall'FMI.
La morte per fame di migliaia di bambini in una sterminata pianura fertile come l'Argentina, mentre l'FMI continuava a considerare il Paese come il proprio allievo modello e a perseverare con le proprie ricette, fu uno choc tuttora non superato per le opinioni pubbliche latinoamericane. Sia all'interno del Mercosur che nell'ambiente del CEPAL, la storica fucina dell'ONU di economisti e tecnocrati latinoamericani, soppiantata durante e dopo le dittature con la scuola monetarista dei cosiddetti Chicago Boys, si torna ad avanzare sull'idea -rifiutata dal neoliberismo- che sia il rapporto centro-periferia nell'economia-mondo a causare la permanenza del sottosviluppo e che solo l'integrazione regionale possa mettere le basi per l'uscita.
L'instaurazione per via democratica di governi integrazionisti, ovvero che considerano che l'uscita dal sottosviluppo debba avvenire attraverso l'integrazione latinoamericana e non attraverso rapporti diretti e subordinati con uno o pochi centri dell'economia mondiale, fu il passo successivo in un rapido spostamento dell'egemonia verso le classi che più avevano sofferto nella fase precedente. Aumentata in maniera ingente la povertà e l'esclusione, queste si erano numericamente ingrossate e organizzate intorno a modelli politici partecipativi.
Definiamo pertanto tali governi come integrazionisti più correttamente che di sinistra, come viene semplificato sovente. Ciò perché la cifra dell'integrazionismo segnala il superamento (o la speranza di superamento) di quella "teoria della dipendenza" individuata fin dagli anni '60 come caratteristica del colonialismo e del post colonialismo(4).
Il cammino è rapido e nel breve volgere di un lustro dal CEPAL possono scrivere che(5) "il Mercosur è il maggior successo dell'integrazione latinoamericana, ma prima ancora che un progetto commerciale ed economico, si tratta di un progetto politico".
Non è il solo. Molto criticati dai grandi organismi internazionali e dai media mainstream occidentali sono alcuni passaggi in materia energetica, seguiti al ritorno da timide ma di successo politiche di nazionalizzazione, come la creazione del Consiglio Energetico del Sudamerica, Petrosur e Petrocaribe che profilano un cammino di sicurezza ed autonomia energetica regionale e nella gestione di materie prime, biodiversità e risorse come l'acqua potabile.
Da parte dell'ortodossia monetarista sono stigmatizzate le politiche a spiccata valenza sociale e redistributiva o il protagonismo di figure come Hugo Chávez o Evo Morales, tralasciando che in tutte le iniziative più importanti intraprese dal Venezuela, il ruolo chiave e geopoliticamente ineludibile resta quello del Brasile.
Senza la forza di tale partenariato, Brasile, Argentina ed altri indebitati minori, non avrebbero mai chiuso i rapporti con l’FMI(6), ma senza la ferma volontà brasiliana non sarebbe nato, il 9 dicembre 2007, il Banco del Sur.
Proposto nel 2004 dal Presidente venezuelano Hugo Chávez, ne sono soci fondatori anche Ecuador, Bolivia, Paraguay e Uruguay. I sette raccolgono i tre quarti della popolazione del Sud America. Si propongono di finanziare attraverso tale strumento infrastrutture e progetti chiave nell'armonizzazione delle diverse economie.
E' presto per dire se il Banco del Sur riuscirà a realizzare i suoi ambiziosi programmi, ma la fine della condizionalità dei prestiti che, dalla metà degli anni '50 ha caratterizzato le politiche dell'FMI, è interpretata da Sud come un recupero di sovranità nazionale.
Non solo; di fronte alla spregiudicata svalutazione del dollaro che si protrae dal 2003, anche i latinoamericani, come hanno già fatto gli europei con l'Euro e gli asiatici a Chiang Mai nel 2000, hanno bisogno di uno strumento che compensi la volatilità dell'ex-moneta rifugio. Già oggi l'interscambio argentino-brasiliano prescinde dal dollaro e prelude ad un'unità di conto regionale.


Una visione multipolare

Se nel triennio 2003-2006 tutto ciò ha portato ad una crescita del 250% dell'interscambio regionale, anche il commercio Sud-Sud ha raddoppiato i propri numeri. Soprattutto per iniziativa del Brasile e del Venezuela, l'Atlantico sud, soprattutto in direzione di Sud Africa e Nigeria, si è ristretto. Iniziative analoghe sono state intraprese verso il mondo arabo. La diplomazia petrolifera venezuelana rafforza l'OPEC in un cartello di produttori attenti ai loro interessi indipendentemente dalla collocazione geografica. L'India, non solamente con la tradizionale Tata(7), sta accrescendo il proprio interscambio, importando quote importanti di petrolio brasiliano greggio e olio di soia argentino.
Ma quello che è più significativo è il ruolo della Cina. E' concentrato da un lato nelle grandi opere, infrastrutture, porti, aeroporti, canali, come testimoniano gli investimenti a Panama. Dall'altro nel settore minerario, con l'importazione di ferro, rame(8), bauxite, manganese, zinco. Dall'inizio del secolo la presenza cinese è cresciuta di uno sfavillante 60% l'anno, con investimenti che raggiungeranno i cento miliardi di dollari entro il 2010.
Anche se non sempre gli investimenti cinesi sono arrivati nei tempi e nella quantità promessa nei numerosi viaggi di Hu Jintao, e tuttora l'interscambio cinese in America latina non vale il 15% di quello statunitense, è evidente, come ha rimarcato il Presidente brasiliano Lula, che la Cina è un nuovo partner strategico di primo livello per la regione. Ed è un partner la Cina che, pur se temuto, anche in America latina per la concorrenza rappresentata dai bassi salari per le maquiladoras messicane e centroamericane, proprio confidando nell'agroindustria latinoamericana si è strategicamente esposto. Ha rinunciato, infatti, alla tradizionale indipendenza alimentare che aveva caratterizzato le proprie politiche demografiche fin dalla fondazione della Repubblica popolare. Lo ha fatto in maniera prudente, il 5% del suo fabbisogno, ma lo ha fatto soprattutto con Argentina e Brasile, che oggi devono il 15% del loro export agricolo al paese asiatico.
È fondamentale rimarcare che, per quanto possa accrescersi ancora il ruolo della Cina o di tutti gli altri soggetti citati, inclusa l'Unione Europea, questi singolarmente non competeranno mai sui grandi numeri con gli Stati Uniti, che resteranno il principale partner della regione, specialmente in Mesoamerica. Ma tali soggetti insieme hanno già rivoluzionato il partenariato globale dell'America latina. La loro presenza, oltre all'attivismo latinoamericano nel diversificare economia (un altro dei presupposti per l'uscita dal sottosviluppo) e relazioni commerciali e politiche, rende meno cogente ogni pressione che può essere esercitata sulla regione dagli Stati Uniti stessi.
Come vedremo di seguito è evidente che un possibile futuro cambio di colore politico, un'amministrazione democratica negli Stati Uniti capace di concedere qualcosa ai partner, soprattutto abbassando i sussidi agricoli, e una maggioranza di governi di centrodestra a sud del Rio Bravo, possano far molto per riavvicinare le posizioni. Ma molti dei passaggi fin qui esposti, soprattutto la moltiplicazione dei partners offerti dalla stessa globalizzazione, permettono di affermare che gli anni del Consenso di Washington difficilmente torneranno.


Gli Stati Uniti nel cortile di casa


foto Ansa
Alla caduta del muro di Berlino sembrava andare tutto benissimo. Le dittature avevano lasciato il posto a più presentabili liberaldemocrazie basate sul Washington Consensus. Non si muoveva foglia senza che la Casa Bianca e il Fondo Monetario Internazionale non volessero. Governi amici erano instaurati dappertutto e si considerava imminente il ritorno all'ovile di Cuba.
A partire dal primo gennaio 1994, l'entrata in vigore del NAFTA (Trattato di Libero Commercio del Nord America con Canada e Messico), sembrava preludere alla creazione di un solo mercato continentale, l'ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe), pienamente sotto controllo statunitense e ortodossamente neoliberale.
Eppure, nel giro di pochi anni, un osservatore pienamente schierato con le posizioni di Washington come il direttore di Foreign Policy,
Moises Naím, afferma invece che "l'America latina è perduta". In maniera meno drastica, ma altrettanto preoccupata, la pensa Peter Hakim(9), il presidente di Dialogo Interamericano, il più importante think-tank statunitense-latinoamericano(10), che ammette quanto la stampa europea faccia resistenza a focalizzare: la serie di rovesci patiti dagli Stati Uniti è lunga e spesso strutturale.
Oggi gli Stati Uniti, in quello che avevano teorizzato essere il New American Century, e in quello che da 185 anni considerano il cortile di casa, vedono i loro interessi confliggere e spesso non prevalere rispetto agli omologhi interessi nazionali dei paesi della regione. Tuttavia, nonostante le difficoltà, alcune delle quali approfondiremo, sussiste una situazione nella quale il bicchiere per gli Stati Uniti può essere sì considerato mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno.
Guardando al bicchiere mezzo pieno, è vero che gli Stati Uniti hanno fallito nella creazione dell'ALCA, il mercato unico continentale lanciato da Bill Clinton, voluto con forza da George W. Bush, e rifiutato soprattutto dalle redivive "borghesie nazionali" brasiliana e argentina a Mar del Plata nel 2005. Ma è anche vero che il Piano B, quello di sostituire un accordo generale con la firma di trattati bilaterali con nazioni importanti come Colombia(11), Perù o Cile, oltre che con il Messico e con una decina di partner minori, ha riservato più di una soddisfazione a Washington. Inoltre, il sistema neoliberale nel Continente non appare sostanzialmente intaccato né per quanto concerne i rapporti di produzione né per quanto concerne l'agibilità della maggior parte degli interessi statunitensi.
Centinaia di multinazionali statunitensi continuano a investire con profitto nella regione (oltre 350 miliardi di dollari nel 2005) e, complice la crescita economica latinoamericana e la debolezza del dollaro, l'interscambio è cresciuto nel 2006 in doppia cifra in entrambi i flussi. L'export statunitense verso la regione arriverà, prima della fine del decennio, ai 200 miliardi di dollari l'anno (ma i due terzi sono orientati verso il Messico) e nessuno, neanche i governi più critici delle politiche di Washington, Argentina, Venezuela, Bolivia ed Ecuador, possono né vogliono rinunciare a fare affari con la prima economia del mondo.
Guardando al bicchiere mezzo vuoto, e se non altro in onore di un'idiosincrasia statunitense durata cinquant'anni, va citata per prima l'inspiegabile resistenza di Cuba. Oggi l'isola, che ha superato senza scossoni il periodo critico successivo alla fine del socialismo reale e ha sperimentato negli ultimi anni un'importante crescita e diversificazione dell'economia che va ben al di là del turismo, ha ricostruito un solido quadro di relazioni regionali e internazionali sia politiche che economiche.
Lo testimonia il vertice dei non allineati del 2006, quando si recarono a Cuba una settantina di Capi di Stato, rappresentanti di oltre la metà degli abitanti del pianeta e tra i quali spiccavano grandi democrazie come quella indiana. Nonostante l'embargo, oggi tutto il mondo, Unione Europea compresa, fa affari con L'Avana. In linea generale l'amministrazione Bush ha spesso agito con imprudenza, riducendo drasticamente gli aiuti allo sviluppo per sostituirli con aiuti, piani e presenza militare e tendendo a scovare, anche nel Continente più pacifico e con le
spese militari più basse al mondo, una lista inesauribile di nemici.
Lo ha testimoniato l'entusiastico appoggio, condiviso col Governo spagnolo e con l'FMI, al fallito colpo di stato in Venezuela dell'11 aprile 2002. I risultati sono stati catastrofici, rafforzando e radicalizzando il movimento bolivariano del Presidente Hugo Chávez. In Bolivia, Ecuador e Nicaragua e in misura meno evidente anche in grandi paesi come il Brasile, straordinarie ed esplicite pressioni esercitate a tutti i livelli inducevano a non votare i candidati di sinistra, ma questi sono risultati puntualmente eletti.
Quando nel giugno 2007 a Panama, nella sessione plenaria della OEA (Organizzazione degli Stati Americani), il Segretario di Stato Condoleeza Rice aveva preteso la costituzione di una commis-

foto Ansa
sione per lo studio del caso RCTV(12), sostenendo che in Venezuela non fosse pienamente garantita la libertà di stampa, tale pretesa fu rifiutata in maniera così netta da tutti che la Rice abbandonò la riunione in segno di protesta, un gesto insolito per chi è alla testa della prima diplomazia mondiale.
Visto dall'Europa sembra lontanissimo il tempo nel quale l'ex Ministro della Difesa di Ronald Reagan, Jeane Kirkpatrick, accusava l'amministrazione Carter di danneggiare gli interessi statunitensi osteggiando le dittature militari amiche per le loro violazioni dei diritti umani.
Era la "dottrina Kirkpatrick" che offriva pieno supporto politico ed economico ai regimi. In teoria nulla di più lontano dal concetto di esportazione della democrazia di George Bush. Ma in America latina, molto più che in Europa, la storia rende difficile presentare gli Stati Uniti come paladini della democrazia e dei diritti umani. Lo conferma un recente sondaggio realizzato per il settimanale Newsweek(13). Attesta che addirittura l'86% delle classi dirigenti latinoamericane (con un significativo 81% tra quanti si considerano di centro o di destra), avrebbe un'opinione negativa dell'amministrazione Bush. Liquidare tale opposizione, come spesso si fa da Washington, come antiamericanismo, spiega poco.
Le élites latinoamericane guardano sempre meno agli Stati Uniti come il partner privilegiato per eccellenza, ma li affiancano a soggetti che considerano altrettanto importanti, come lo sviluppo dell'interscambio regionale, quello con l'Unione Europea, con la Cina, con il mondo musulmano, oltre al commercio Sud-Sud. L'idea che gli Stati Uniti siano un partner che molto pretende per poco o nulla concedere è oramai sedimentata e causa un "danno collaterale" grave agli Stati Uniti. Nel breve volgere di pochi anni le élites latinoamericane hanno introiettato sia il discorso integrazionista sia quello della globalizzazione, ma non nel senso che gli statunitensi speravano. Se nell'ultimo quarto del XX secolo avevano come partner egemone quello statunitense, oggi scoprono con favore che una politica dove possano servirsi da più forni è estremamente conveniente.
Il filosofo statunitense Immanuel Wallerstein(14) ha paragonato la politica continentale di Bush al Big stick, il grosso bastone di Teodoro Roosevelt, in un Continente che sarebbe ben più sensibile ad un "buon vicinato" alla maniera di Franklin D. Roosevelt. Ciò, vedremo, è solo parzialmente vero e anche l'amministrazione Bush ha saputo riposizionarsi soprattutto nel suo secondo mandato dopo l'uscita di figure come Donald Rumsfeld e Otto Reich.
Non è solo Guantanamo a ferire. Nelle scorse settimane, in Messico, l'ampia e inevitabile diffusione dei dati ufficiali dell'FBI, che mostrano la continua crescita del razzismo antilatinoamericano negli Stati Uniti, causa un malessere che tocca due punti nevralgici delle relazioni interamericane, entrambi attribuiti alla rigidezza statunitense.
In primo luogo vi sono le politiche migratorie, considerate ingiustamente repressive. Il solo muro di Tijuana, alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, in pochi anni ha causato la morte per inedia o perché abbattuti dalle guardie di frontiera (i minutemen, famigerati per la crudeltà se visti da Sud, leggendari se visti dal Nord) di almeno 4.500 cittadini messicani, nella quasi totalità (ed è il secondo punto) contadini impoveriti e spinti all'emigrazione dopo l'entrata in vigore del NAFTA, il trattato di libero commercio che, favorendo l'agricoltura sussidiata e ricca degli Stati Uniti ha causato, secondo i critici, l'emigrazione di 12 milioni di messicani.
Anche fonti vicine al Governo degli Stati Uniti, come il già citato Dialogo Interamericano, vedono nel radicale rifiuto statunitense alla benché minima concessione sul piano dei dazi all'importazione e nel voler mantenere intatta l'impalcatura dei sussidi alla propria agricoltura, la principale ragione di rigetto verso gli Stati Uniti. Ciò non solo da parte dei sempre più forti movimenti indigeni e contadini (i soli brasiliani "Sem Terra" organizzano 4.5 milioni di famiglie), ma anche da parte dei più tradizionali rentier agrari, uniti in questo alle citate "borghesie nazionali" nel criticare gli Stati Uniti ed allontanare le due rive del Rio Bravo.
Gli Stati Uniti vivono quindi un'insolita situazione di isolamento. A questa hanno risposto prima con aggressività e solo successivamente adeguando e flessibilizzando parzialmente la loro politica. Dopo l'11 settembre e fino a quando è rimasto in sella Donald Rumsfeld, fu disegnata e inserita nel contesto della guerra al terrorismo l'idea di un'indistinta minaccia latinoamericana alla quale si stava sommando il pezzo più pericoloso: il Brasile di Lula.
Quotidiani come il Washington Times(15) denunciarono addirittura un "asse del male latinoamericano" che rappresentava perfino una minaccia nucleare per gli Stati Uniti e che era necessario colpire preventivamente. Il fallito colpo di stato dell'11 aprile 2002 a Caracas dimostrò quanto velleitaria e pericolosa per gli stessi interessi statunitensi fosse tale politica.
Quando Reich fu sostituito da Thomas Shannon come responsabile emisferico, si disegnò una linea diversa: in America esisterebbero governi di sinistra responsabili e governi di sinistra irresponsabili. Ai secondi appartengono Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Venezuela e Argentina. Con quest'ultima gli Stati Uniti intrattengono sottotraccia di gran lunga le peggiori relazioni, con scarse possibilità di miglioramento durante il mandato di Cristina Fernández.
Al primo gruppo appartiene invece senza dubbio il Cile, ma è necessario farvi appartenere anche il Brasile. Questo gode così di una rendita di posizione: intrattiene eccellenti relazioni con Argentina e Venezuela e le migliori della storia con Cuba, è la pietra angolare dell'integrazione latinoamericana, del Banco del Sur ed è stato decisivo nell'affossare l'ALCA, il più importante progetto statunitense per la regione negli ultimi 20 anni, ma non è mai più stato pubblicamente redarguito né dal governo statunitense né dai media mainstream. A ciò si aggiunge che dal 2005 gli Stati Uniti offrono accordi più vantaggiosi ai Paesi che restano amici e soprattutto a quelli che firmano i TLC, rispetto a quelli che avrebbero firmato appena 5-7 anni fa. Lo dimostra che oggi è il Congresso statunitense a recalcitrare. Avviene per il TLC con la Colombia per il quale rimprovera al governo di aver concesso troppo all'alleato chiave, Álvaro Uribe.
Se migliori accordi, qualcosa di impensabile negli anni '80 e '90, e la ricerca di selezionare e promuovere alcuni tra i governi integrazionisti, sono migliorativi rispetto all'approccio iniziale dell’"asse del male latinoamericano", nella politica statunitense continuano a prevalere altri aspetti. Tra questi vi sono finanziamenti ingenti concessi attraverso USAID (United States Agency for International Development) e altre ONG a entità che possano favorire il ritorno di governi amici.
E' il caso, per esempio, del denaro che finanzia l'autonomismo boliviano che sta destabilizzando il governo di Evo Morales. D'altra parte la gestione degli accordi militari è la chiave. Se rispetto all'epoca della Guerra Fredda gli aiuti allo sviluppo offerti dagli Stati Uniti si sono ridotti ad un terzo, il Ministero della Difesa, che ha concesso aiuti militari pari a 8 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, è divenuto il principale strumento attraverso il quale si finanziano i governi amici, a partire da quello colombiano.
La lista dei nemici, stilata dopo l'11 settembre, è però molto più lunga. Si va dalle organizzazioni guerrigliere, presenti oramai quasi esclusivamente in Colombia, ai narcos, per passare ai movimenti sociali, contadini ed indigeni, al cosiddetto "populismo radicale", per finire alle bande giovanili, le maras e gli immigrati clandestini, tutti indicati dal National Security Council come potenziali terroristi. La capacità degli Stati Uniti di scremare questa lista e l'accettazione che la regione oramai vuole almeno un partenariato più maturo, potrebbe far molto per migliorare relazioni ai minimi storici.



(1) CEPAL, Balance preliminar de las economías de América Latina y el Caribe 2007, Santiago del Cile, dicembre 2007, in http://www.eclac.cl/. Per i dati completi sulla crescita del PIL si veda la tabella in http://www.eclac.org/prensa/noticias/comunicados/3/32013/cuadroPIBbalanceCEPAL2007.pdf.
(2) Con una forte dose di semplificazione possiamo definire di sinistra i Governi di Argentina, Bolivia, Brasile, Cuba, Ecuador, Uruguay e Venezuela e di centrosinistra quelli di Cile, Costarica, Guatemala, Nicaragua, Panama e Perù.
(3) Alla piena adesione del Venezuela manca la ratifica del Senato brasiliano.
(4) T. Dos Santos, A teoria da dependencia: um balanco histórico e teórico, CRESALC, UNESCO, 2002.
(5) R. Bielschowsky, Celso Furtado's contributions to structuralism and their relevance today, in "CEPAL Review", n. 88, aprile 2006; http://www.cepal.org/revista/noticias/articuloCEPAL/3/26313/LCG2289iBielschowsky.pdf.
(6) L'FMI in meno di un lustro ha perso oltre l'80% del portafoglio crediti che vantava nel mondo e che permetteva a tale organismo di ingerirsi nella vita dei paesi debitori. Nonostante il dibattito sul tema sia appena iniziato, il mondo disegnato a Bretton Woods appare vicino alla fine.
(7) Il più grande conglomerato industriale del paese asiatico, che dalle automobili si è espanso a vasti settori e da decenni è presente sui mercati latinoamericani.
(8) Il Cile garantisce il 20% del fabbisogno cinese. Come per altri minerali, l'aumento della domanda cinese ha accresciuto il valore del rame, che era ai minimi storici, sostenendo in maniera decisiva l'economia cilena.
(9) P. Hakim, Is Washington losing Latin America? in "Foreign Affairs" gennaio-febbraio 2006; in http://www.foreignaffairs.org/20060101faessay85105-p40/peter-hakim/is-washington-losing-latin-america.html.
(10) Cfr. http://www.thedialogue.org/ e, per una visione critica, A. Borón, I sedicenti guardiani della libertà, in "Latinoamerica", 2005, n. 92, pp. 107-112.
(11) In realtà il TLC Colombia-Stati Uniti resta da ratificare da parte dei rispettivi parlamenti.
(12) La televisione privata venezuelana alla quale, alla scadenza naturale, non era stata rinnovata la concessione dell'etere pubblico.
(13) A. Faville, On U.S.-Latin America relations: 86 percent give Bush administration fair or poor grade, "Newsweek", 7 gennaio 2007, sta in http://www.zogbyworldwide.com/news/ReadNews1.cfm?ID=777.
(14) I. Wallerstein, The United States versus America Latina, "Agence Global", 15 novembre 2005, sta in http://www.agenceglobal.com/article.asp?id=713.
(15) C. Menges, Blocking a new axis of evil, "The Washington Times", 8 luglio 2002, in http://www.washingtontimes.com.

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