GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 3/2007
Dai cattivi maestri alla lotta armata

Trent'anni di piombo


Carlo MASTELLONI



La storia delle Brigate Rosse è stata da sempre contrassegnata da un difficile e contraddittorio rapporto con i cosidetti "movimenti di massa". Secondo l'autore, infatti, sia lo "spontaneismo" sessantottino che il movimento del '77 si sono mal adattati al rigido modello marxista-leninista dei fondatori delle B.R. che, come noto, postulavano la centralità della classe operaia e la subordinazione dei "movimenti" alla stessa. Questa complessa e paradossale contrapposizione tra modelli ideologici ha determinato, ad esempio, la scissione - dopo il sequestro Moro - all'interno della colonna romana, i cui militanti, in gran parte, provenivano dalle file dell'Autonomia. L'autore analizza, nel dettaglio, l'attuale fase 'movimentista' ponendone in luce l'estrema frammentazione e mancanza di prospettive strategiche. In questa 'galassia' individua tre specifici filoni: 'l'autonomia di classe', 'l'autonomia del possibile' e 'l'autonomia diffusa'.
(foto da www.luogocomune.net/site/)


Per la sinistra tradizionale il "Movimento" ha rappresentato un periodo storico e politico caratterizzato da una serie di lotte spontanee che investirono l'insieme della società italiana. L’esplicazione più compiuta di questo concetto è stato il Sessantotto perché, pur emergendo da una realtà settoriale quale il mondo universitario, quel “Movimento”, inesorabilmente e in linea progressiva, permeò tutti i settori della società.
Ne conseguì la messa in discussione e il disequilibrio di modi di essere e valori consolidati idonei a favorire un completo ricambio generazionale. Il processo fu di carattere straordinario e quel "Movimento", originatore di forme organizzative di tipo assembleare, diventò il recettore dell'onda alta delle lotte del '68.
Solo in un secondo momento, alla fine del 1969 e nel contesto di una congiuntura caratterizzata dal riflusso del movimento spontaneo, operarono i gruppi extraparlamentari della sinistra: Lotta Continua, Potere Operaio, Servire il Popolo. Scaturigine diretta del '68 può qualificarsi solo il gruppo di Lotta Continua, nato dalla interazione del movimento studentesco di Pisa con parti del movimento studentesco di Torino: entrambe le esperienze si erano alimentate con le lotte articolatesi all'interno dei rispettivi Atenei.
Lotta Continua riprese a livello ideologico il concetto di "spontaneismo delle masse", teorizzandolo e richiamandosi alle tradizioni eretiche del marxismo - Luxembourg e Korsch - e al "linkscomunismus". Il gruppo di Potere Operaio elaborò, invece, riflessioni teoriche sull'operaismo di Tronti, di Panzieri e di Toni Negri con analisi basate sul concetto di centralità operaia nella fase industriale del fordismo. La frazione romana di Piperno e di Scalzone fu l'unica ad avere come matrice dinamica le lotte studentesche e va identificata nella struttura che avrebbe poi svolto ruoli importanti dai fatti del febbraio 1977 di Valle Giulia in poi.
I gruppi marxisti-leninisti, e in particolare "Servire il Popolo", incentravano la propria azione sul maoismo e sui riflessi della rivoluzione culturale cinese del 1966. "Servire il Popolo" si rappresentava come partito rivoluzionario e perciò in contrasto con le pulsioni spontanee del movimento sessantottino. Grazie a questa particolare formazione ideologica - al contrario di quanto è stato sostenuto da molti osservatori che hanno in proposito citato l'Autonomia Operaia - nella seconda metà degli anni Settanta proprio dalle file marxiste-leniniste numerosissimi militanti si allontanarono dal gruppo per alimentare le varie formazioni armate dell'epoca, soprattutto le Brigate Rosse.
Così come i gruppi della sinistra extraparlamentare si erano compattati e sviluppati sull'onda del riflusso delle lotte spontanee del 1968, le B.R. e altre organizzazioni eversive incentivarono il reclutamento a seguito dell'implodere della sinistra extraparlamentare.
Le istituzioni culturali tradizionali inquadrarono il fenomeno nella categoria dello scandalo. Quelle deputate alla repressione della nuova dinamica sociale, che riguardava anche forme di illegalità, impiegarono in un primo tempo strumenti tradizionali in quanto prive di adeguati parametri di valutazione: si ricorse a reazioni sprigionate nelle piazze mirando al ripristino dell'ordine pubblico e impiegando moduli remoti di investigazione.
Solo in seguito sarebbero stati azionati meccanismi elementari di infiltrazione, oggetto di una supervisione a livello centrale che collocava ogni indagine nell'ambito di un manicheo e rudimentale protocollo obbediente agli schemi della guerra fredda. Ai vertici invece della Difesa e degli Interni già da anni si concorreva ad affinare una vera e propria strategia i cui termini erano stati segretamente sanciti nel periodo postbellico in sede di elaborazione diplomatica del Patto Atlantico ( firmato il 9 aprile 1949), dalle nazioni vittoriose: trattati contemplanti il ricorso a strutture paramilitari come supporto delle forze regolari pertinenti alle linee di una guerra eterodossa nel nome, e con la copertura, dell' "emergenza" che avrebbe potuto verificarsi in concomitanza con l'aggressione delle forze del Patto di Varsavia.
Nel vuoto info-investigativo e di analisi creatosi tra questi due poli, omogenei ma distanti, si inserirono nei primi anni Settanta forme di lotta armata che avrebbero dato vita alla concreta organizzazione di strutture clandestine, aventi come programma la realizzazione di obiettivi di carattere politico - criminale. Il pieno disvelamento di essi fu possibile dopo un decennio ma solo grazie al fenomeno della collaborazione dei militanti defezionisti.
Il rapporto difficile e contraddittorio che si venne a creare fra le organizzazioni che praticavano la lotta armata e i movimenti di massa dell'epoca vanno letti nell'ottica "classica" dei processi che intercorrono fra avanguardie e masse. I gruppi che avevano scelto il terreno della lotta armata rappresentarono, anche nella loro composizione individuale, organismi di avanguardia che si erano andati staccando dalle grandi lotte operaie e studentesche del 1969 per arrivare, dopo variegate esperienze maturate nei gruppi della sinistra extraparlamentare, all'azione politico-militare.
Secondo un luogo comune mai esorcizzato, il Sessantotto rappresenterebbe anche il motore mobile di un indistinto universo eversivo, colpevole di aver scatenato fughe meditate verso la lotta armata nel corso di tutto il periodo successivo.
La grande esplosione del 1968 è stata invece un grande movimento generazionale, interclassista, con predominanza piccolo borghese, che già aveva dinamicizzato altri paesi prima dell'Italia - si pensi all'intensità del maggio francese o alle rivolte dei campus statunitensi - e che finì poi per assumere i caratteri di una globale contestazione del modello consumistico occidentale. Una particolarità italiana però ci fu, determinata dal "prolungamento" del Sessantotto e dalla sua contaminazione con le lotte operaie dell'autunno caldo fatte nel 1969: il ciclo, iniziato nell' autunno del 1969, terminerà anche simbolicamente nel 1980 con la marcia dei quarantamila, organizzata a Torino contro l'occupazione della Fiat, evento che determinò un ferita profondissima nell'universo progettuale anche delle formazioni armate.
È del tutto meccanicistico collegare la rinascita operaia degli anni Settanta con il movimento del 68: le insorgenze operaie nelle fabbriche del Nord derivavano, semmai, dalla mutata composizione sociale della forza-lavoro e soprattutto dalla fine di quel grande fenomeno migratorio che nei primi anni Sessanta, aveva visto intere generazioni di giovani trasferirsi a Milano o Torino dal Sud del paese e che andarono a costituire la base produttiva del boom economico. Queste contraddizioni erano sorte prima del 1968 e sarebbero comunque esplose anche senza i grandi rivolgimenti che caratterizzarono quell'anno.
Può essere esemplificativa per molti versi la biografia individuale e politica dei fondatori delle Brigate Rosse. Come è noto sono tre i ceppi principali da cui sorse l'organizzazione: un gruppo intellettuale proveniente dall'Università di Trento (Curcio, Cagol, Semeria), il gruppo di militanti di estrazione operaia e proletaria, ex Fgci, di Reggio Emilia (Franceschini, Gallinari, Azzolini, Casaletti, Ognibene) nonché quello composto da alcuni esponenti dei CUB milanesi della Pirelli e della Sit Siemens (Moretti, Besuschio, Ferrari, Alunni ed altri) che si unirono pur continuando ad esprimere tre anime differenziate. Solo quando il gruppo "trentino", peraltro estraneo alle mobilitazioni del 1968, avrebbe assunto i connotati bolscevichi dei giovani di Reggio Emilia saldandosi con le avanguardie operaie che avevano vissuto il ciclo di lotte autonome delle grandi fabbriche, il progetto eversivo delle B.R. prese corpo muovendosi con incidenza progressiva.
Il tratto ideologico comune a tutti i promotori dell' organizzazione fu la profonda adesione teorica al marxismo-leninismo. Da questo impianto scaturí la concezione strategica della centralità della classe operaia e della subordinazione ad essa dei movimenti spontanei.
Per una lunghissima fase, perlomeno fino al 1977 e ai fatti di sequestro dell'onorevole Moro, le Brigate Rosse considerarono la base del P.c.i. come il vero movimento da egemonizzare e sul quale intervenire.
L'oggetto del desiderio non furono né i sessantottini né il movimento studentesco, finito per polverizzarsi in minuscoli partiti extraparlamentari. La fase propedeutica della propaganda armata nell'intento delle B.R. era funzionale all’alimentazione di una contraddizione fra la base rivoluzionaria del P.c.i. e la dirigenza revisionista di quel grande partito: le numerose riviste del movimento sviluppatosi dopo l' implosione della sinistra extraparlamentare, da "Rosso" a "Controinformazione" fino al "Potere operaio del lunedì", ove rivisitate, farebbero emergere una critica costante alle B.R., proprio per l'arretratezza della linea politica e l'ossessiva attenzione dedicata al P.c.i.


foto d'archivio

Del resto, la prima e corposa scissione subita dalle B.R. alla fine del 1975 da parte di Alunni, Pelli e Susanna Ronconi venne ascritta dai fuoriusciti all'incapacità dell'organizzazione di scorgere i nuovi fenomeni che stavano attraversando la galassia sociale e alla difficoltà di relazionarsi ai nuovi raggruppamenti politici. Sarà questo il leit-motiv in occasione di ogni rottura interna: dal gruppo di Morucci e Faranda, dopo gli esiti del sequestro Moro, fino alle defezioni della colonna milanese "Walter Alasia" e del "Fronte Carceri" di Senzani.
Il nucleo storico delle B.R. - rappresentato soprattutto da Curcio e da Franceschini - era in qualche modo consapevole del pericolo che l'organizzazione e la lotta armata, in generale, precipitassero in un ruolo autoreferenziale, di pura rappresentanza del conflitto sociale: nella gestione del sequestro del magistrato Sossi, di Genova, i due leader già cercarono di tenere aperta la strada del rapporto con la sinistra e con i movimenti, evitando le conseguenze traumatiche del rapimento, ma dopo la primavera del 1976 i componenti dell'intero nucleo storico furono arrestati, perdendo del tutto il proprio ruolo direttivo, non tuttavia quello simbolico di cui finirono per diventare schiavi, destinati a fungere da altoparlanti, rivendicando in seguito le azioni della mutata linea politica dell'organizzazione.
Il nuovo comitato esecutivo, massimo organo decisionale delle B.R. - Moretti, Micaletto, Bonisoli, Azzolini e Maria Carla Brioschi - pensava che le difficoltà di relazionarsi al conflitto sociale e ai nuovi movimenti dipendesse da una insufficiente cifra offensiva delle pregresse azioni brigatiste, non più adeguate ai nuovi livelli di scontro fra le classi. Di qui la scelta di "alzare il tiro" con una prima azione di "annientamento" compiuta nel giugno del 1976: l'uccisione, a Genova, del procuratore della Repubblica Coco e della sua scorta.
Cominciò così, nella primavera di quell'anno, un singolare corto circuito nel rapporto fra B.R. e movimenti: da un lato le azioni brigatiste, sempre più spettacolari e cruente, andavano a spiazzare i movimenti di massa, dall'altro, paradossalmente, la crisi dell'opposizione sociale veniva letta dai dirigenti delle Brigate Rosse come l'esaurirsi naturale di un ciclo di lotte spontanee e come la nascita di un movimento che alludeva alla guerra civile dispiegata. Questa contraddizione - sintomo di una schizofrenia politica - raggiungerà il suo massimo livello con il movimento del '77 e con il sequestro di Moro.
Quel movimento del ‘77 ha rappresentato una stagione composita e pregna di lotte intraprese dalle Università - di Bologna e di Roma - con alte punte di radicalizzazione verificatesi dopo la morte di Lo Russo (11 marzo 1977) e di Giorgiana Masi (12 maggio 1977). Nel convegno contro la repressione di Bologna - promosso anche da noti intellettuali francesi come Deleuze, Guattari e Foucault - il prestigio di massa delle B.R. venne ad assumere, per la prima volta, caratteristiche notevoli e la linea della lotta armata, nelle sue varianti di avanguardia e di guerriglia diffusa, diventò egemone, sconfiggendo le pulsioni movimentiste e neoanarchiche immanenti a quel movimento: indiani metropolitani, radio Alice etc..
Il gruppo dirigente delle B.R. si divise sull'analisi di quel fenomeno sociale: Moretti e la maggioranza del comitato esecutivo ritennero ancora che la spontaneità di massa avesse raggiunto l'apice senza aver affrontato il nodo strategico dello scontro con lo Stato. Il nucleo storico incarcerato - soprattutto Franceschini - riuscì a leggere invece negli avvenimenti di quella primavera la possibilità di costituire dei veri e propri organismi di massa rivoluzionari diretti dalle B.R. e anche l'idoneità degli stessi a rimodulare l'azione offensiva dell'organizzazione: andare incontro.
Mentre dunque il nucleo storico pensava che il passaggio al "partito combattente" fosse tutto politico e da giocarsi nella relazione con i movimenti di massa, il comitato esecutivo, giudicando insufficiente il livello di coscienza delle masse proletarie e ancora possibile una rottura rivoluzionaria in seno alla base operaia del P.c.i., fece passare la linea dell' attacco al "cuore dello stato" mirando ai vertici del partito democristiano e al progetto di compromesso storico, cercando di disarticolare questa invenzione istituzionale: andare comunque avanti e in fretta.
L'azione Moro - unanimemente considerata come espressione massima della capacità militare delle B.R. - si sviluppò perciò all'interno di una visione politica molto pessimistica sulla fase di transizione che stavano vivendo i movimenti antagonisti e si collegò alla vecchia prospettiva di suscitare nella base del P.c.i. un sussulto di coscienza rivoluzionaria contro i dirigenti di quel partito, ritenuti compromessi con quello della Democrazia Cristiana: l'impianto teorico si dissolse rovinosamente con la gestione politica del sequestro rivelando l'inadeguatezza complessiva delle capacità della direzione brigatista e provocando, dopo l'uccisione di Moro, una significativa scissione all'interno della colonna romana.
Il peccato originale delle B.R. nei rapporti con i movimenti antagonisti degli anni Settanta risiede perciò in una concezione tardo-leninista e iper-classista che coltivava l'illusione dell'esistenza di uno spazio rivoluzionario nella base del P.c.i..
Non si seppe leggere la valenza delle profonde trasformazioni provocate dalla fase industriale del post fordismo, la fine della centralità della classe operaia delle grandi fabbriche nel processo produttivo.

Il nucleo storico, pur del tutto interno a questa logica, aveva cercato fino al 1976 un terreno politico per la risoluzione di questa contraddizione fra avanguardia e masse. Il gruppo legato a Mario Moretti - se possibile ancor più operaista - aveva ritenuto invece che solo l'offensiva militare fosse in grado di supportare l'inadeguato livello di coscienza della classe operaia.
I quadri dirigenti delle B.R., nati e formatisi di fatto nell'autunno caldo del 1969, vivranno con un generale senso di impotenza il declinare della curva ascensionale del ciclo di lotte operaie. In ogni caso, l'unico referente di movimento ossessivamente cercato dalle Brigate Rosse per tutto il lungo periodo della loro operatività, è stato quello zoccolo duro rappresentato dai militanti di base, forgiato dagli scontri di fabbrica, soprattutto in Fiat e nel milanese. In questo senso, anche dal punto di vista organizzativo, nella preordinazione della composizione delle cellule e delle brigate l'organizzazione rimase incollata per intero all'esperienza del Novecento: la sua immagine emerge come una riproposizione sbiadita delle tesi della Terza Internazionale incentrate nel rapporto di identità tra partiti comunisti e classe operaia.
In tale ottica le Brigate Rosse hanno rappresentato l'organizzazione di estrema sinistra più impermeabile alle tematiche ed alle pulsioni libertarie del 1968.
L'origine sociale e la formazione politica del gruppo fondatore dell'organizzazione brigatista sono ancora una volta rivelatrici: la stragrande maggioranza dei giovani che, nei primissimi anni Settanta, aveva ideato e dato corpo al progetto di lotta armata era di provenienza operaia o proletaria. L'anima militante, e con maggiore esperienza politica, proveniva da Reggio Emilia, dalla scuola del P.c.i.. Era rappresentata da un nucleo più sensibile alle tematiche della "Resistenza tradita" che ai valori della contestazione sessantottina.
Lo stesso Curcio è stato un intellettuale molto particolare, sui generis, sradicato per ragioni familiari dal contesto piccolo-borghese che, aveva vissuto in modo molto precario e distaccato gli anni dell'università: il gruppo di "Università Critica", che alla Facoltà di sociologia di Trento aveva visto l'esordio politico proprio di Curcio nonché di Margherita Cagol e Giorgio Semeria, risulterà sostanzialmente avulso dal movimento studentesco trentino ripiegando in un'attività di studio e di riflessione silenziosa sul marxismo-leninismo, in una sorta di scuola quadri.
Il trasferimento dell'intero gruppo a Milano costituì una scelta precisa ed emblematica: non erano gli studenti di Trento il soggetto rivoluzionario ma gli operai milanesi della Pirelli e della Sit Siemens, contesti dove era diventato necessario essere presenti.
Per quasi tutta l'intera storia brigatista i militanti "regolari", cioè i quadri dirigenti clandestini, furono scelti con fanatica preferenza nell'ambito delle avanguardie di fabbrica, sintomo di una costante diffidenza nei confronti di quei militanti che provenivano da altre esperienze: movimento studentesco, gruppi extraparlamentari. Fu una diffidenza "di classe", corollario di un giudizio negativo sullo sviluppo del '68 e soprattutto sulla leadership generata da quella congiuntura storica.
Negli anni dello stalinismo i militanti della Terza Internazionale dovevano presentare un curriculum personale, che sarebbe poi stato oggetto di indagine sulla provenienza sociale, non solo personale ma anche di genitori e parenti: le B.R., pur non arrivando a tanto, hanno sempre coltivato una visione mitologica dell'o-peraio di fabbrica considerandosi un "partito operaio"; peraltro costituivano - come in parte anche Prima Linea - una struttura di quadri, cioè di militanti rivoluzionari di professione che, almeno nelle intenzioni, credeva di esprimere i più alti livelli di coscienza del movimento operaio.
Queste avanguardie, dopo il passaggio in clandestinità, vissero in modo molto accentuato una netta "separatezza" dai movimenti e dalle masse, nel cui interno pur avevano iniziato la loro parabola esistenziale e politica.
Il giudizio complessivo di questi quadri rivoluzionari sui militanti rimasti dentro ai movimenti non fu dunque mai positivo: si trattava di compagni che non erano ancora in grado di operare il salto rivoluzionario per porsi in aperto contrasto con lo Stato e di rompere la gabbia della legalità democratica. Di qui una difficoltà anche psicologica nell'approccio con i militanti di movimento e una riserva mentale sulla effettiva disponibilità eversiva degli stessi, incapacità fors'anche ritenuta genetica: giudizio che esprimeva in realtà un esasperato narcisismo.
Dalla voluminosa quanto noiosa pubblicistica delle B.R. è chiaramente comprensibile come l'unico efficace tentativo di interagire con un movimento di massa da parte dell'organizzazione sia stato compiuto nel 1977 dalla colonna romana, che aveva matrice più movimentista e meno "bolscevica". Proprio da quella specifica area, soprattutto dopo la violenta contestazione di Lama all'Università di Roma, entrarono nell'organizzazione decine e decine di militanti che andarono a costituire la base operativa e di supporto alla "campagna di primavera" del 1978: come già detto le B.R. avrebbero pagato un alto prezzo a causa della convulsa gestione del caso Moro: l'eccessivo quanto inusitato livello di scontro proposto venne a depotenziare ulteriormente il movimento del '77, già in sé declinante, spostando all' interno della colonna romana tutte le contraddizioni fra avanguardie e masse, rimaste insolute dopo la scelta di "portare l'attacco al cuore dello Stato".
Dall'estate del 1978 alla "rotta" del 1982 le B.R. capitalizzeranno in termini quantitativi la crisi dei movimenti antagonisti, avviando numerosi reclutamenti di militanti dell'Autonomia rimasti privi di riferimenti organizzativi e di prospettive politiche. In quegli anni le B.R., ma anche Prima Linea, prosciugarono i movimenti di lotta nel nome di un effimero disegno di rafforzamento organizzativo senza avere tuttavia la capacità di analizzare lucidamente prospettive politiche di medio termine.
Nel contesto della fine simbolica del ciclo di lotte operaie iniziato nel 1969 quella marcia dei quarantamila contro l'occupazione della Fiat fu sottovalutata, rimase senza risposta. La colonna torinese era stata peraltro quasi annientata dalla collaborazione di Patrizio Peci. Proprio quando le B.R. avrebbero potuto impiegare la loro struttura militare in sinergia con il movimento operaio, contrastando la controffensiva sociale del padronato, rivelarono invece incapacità politica e strategica e una sostanziale estraneità alle dinamiche della classe operaia.


La colonna romana e il Movimento del '77.
L'azione Moro


La colonna romana, pur preesistendo all'azione Moro, era stata allestita da poco tempo, nel 1976: i contatti coltivati due anni prima tra i brigatisti milanesi ed elementi romani erano rimasti infruttuosi. In quel periodo a Roma operavano già strutture informali di lotta armata quali le F.A.C. di Morucci e gruppi già orientati verso la lotta armata come i Co.co.ce. di Seghetti.
Quella colonna, pur avendo ovviamente lo stesso obiettivo dell'organizzazione, ha rivestito sempre caratteristiche particolari sia in ordine alla genesi che all'organizzazione. Il protocollo relativo al reclutamento era stato sempre di carattere individuale ma con quell'adesione di intere parti del movimento che aveva abbandonato l'Autonomia romana si realizzò la prevalenza dell'unica ipotesi ritenuta credibile e praticabile: la lotta armata regolamentata dalle B.R.. La conseguenza fu la sparizione dei gruppi di lotta armata rivelatisi capaci solo di attuare una continuativa propaganda intervallata da poche azioni.
Le B.R., sorte fra Milano e Torino, avevano formato i primi quadri rivoluzionari fra le avanguardie di fabbriche della Pirelli, della Sit-Siemens e della Fiat. Fino al 1977 nessuna azione politico-militare era stata effettuata oltre la Val Padana. L'organizzazione era comunque ben consapevole che i centri nevralgici del potere politico si trovavano nella capitale. Occorreva, dunque, allestire a Roma una struttura logistica adeguata per supportare l'attacco al cuore dello Stato. I primi tentativi in questo senso furono fatti da Franceschini, nel 1974, perché l'organizzazione aveva coltivato l'idea - prima del sequestro Sossi - di compiere un'azione contro l'on.le Andreotti.


foto redazionale

Nel 1976, dopo gli arresti che progressivamente avevano decimato il nucleo storico, il progetto romano aveva ripreso vita per iniziativa di Mario Moretti e di Maria Carla Brioschi, ideatori di una struttura di colonna idonea a fungere da retroterra logistico alle azioni. Non si pensava alla possibilità di intervenire nel movimento rivoluzionario romano. I militanti che dal nord "calavano" a Roma avevano solo bisogno di case sicure e di una limitata rete di sostegno. Mentre questi preparativi erano in essere, il movimento antagonista romano - come nel resto d'Italia - implodeva per la concomitante fine dei gruppi extra-parlamentari e per il sorgere delle prime forme organizzate di lotta armata.
A Roma la geografia politica della sinistra extra-parlamentare era stata segnata dalla fortissima presenza di Potere Operaio che, dall'iniziale esperienza universitaria, si era esteso e radicato nei quartieri periferici e popolari. La controversa fine di questo gruppo - era sopravvissuto il nucleo legato a Franco Piperno con il giornale "Il Potere Operaio del lunedì" - aveva prodotto una serie di comitati di zona molto radicati e su posizioni politiche ormai prossime alla violenza, soprattutto nell'ambito dell'antifascismo militante. Quasi contestualmente, alcuni militanti legati a Valerio Morucci - responsabile nazionale del servizio d'ordine di P.O. - si erano, come già detto, muniti di strutture clandestine e di armamento.
Le B.R. quindi, nella loro "marcia su Roma" si trovarono di fronte una situazione inattesa e variegata che finì per modificare i progetti iniziali e per costringere l'organizzazione su un terreno di confronto con il movimento per molti aspetti inedito e non nelle corde dell'esperienza originaria: per la prima volta non furono le B.R. a dover "stimolare" il movimento per intraprendere la strada della lotta armata ma i vari organismi di massa a volersi dialettizzare con l'esperienza politico-militare proveniente dal nord.
Con molta difficoltà l'organizzazione riuscì a decrittare le logiche e le dinamiche del movimento romano, nato nelle assemblee universitarie e nelle infuocate riunioni inter-gruppi dei quartieri popolari. Peraltro, dopo l'evasione dal carcere di Treviso - gennaio '77 - a comandare la colonna di Roma si trovò Prospero Gallinari, militante della vecchia guardia brigatista e perciò poco esperto quanto all'enucleazione di forme di mediazione. In questa magmatica situazione politico-organizzativa esplose, a Roma, il movimento del '77 che, nel contesto della piena crisi della sinistra extra-parlamentare, pose di fatto le B.R. come unico riferimento politico per migliaia di giovani militanti. Alcuni comitati di quartiere - come quello comunista di Centocelle - passarono armi e bagagli alla lotta armata. Ebbero una struttura organizzativa, e soprattutto un livello di direzione politica, ancora incompiuti e complessivamente inadeguati. Molte regole di compartimentazione delle B.R., sacre e rigidissime per i primi anni, al nord, si frantumarono o divennero impossibili da applicare.
I nuovi militanti romani, pur investiti di un nuovo compito, erano rimasti comunque legati a tematiche di movimento. Per essi il richiamo delle masse e degli scontri di piazza era stato spesso assai più forte e cogente delle regole della clandestinità: molti nomi noti della colonna avevano partecipato infatti da protagonisti alla violenta contestazione contro Luciano Lama all'Università. Erano pure state organizzate vere e proprie spedizioni di militanti dell'organizzazione al convegno bolognese contro la repressione.
Non vi furono solo violazioni alle regole della clandestinità in quella colonna: sotto traccia allignava un diverso approccio strategico all'intervento politico-militare. La tradizionale linea brigatista di "attacco al cuore dello Stato", seppur suggestiva, sembrava a molti militanti insufficiente e impossibile da declinarsi per l'insieme del movimento. I neofiti, provenendo tutti da esperienze di militanza "diffusa", non avevano coltivato, a differenza degli militanti operai del nord, il mito della lotta di classe e avvertivano l'eccessiva rigidità dell'"operaismo" brigatista.
Per un certo periodo - dal '76 al '78 - il contrasto restò in nuce ma non potè non emergere con dirompenza con il caso Moro, soprattutto dopo gli esiti drammatici del sequestro. La conseguente scissione del gruppo Morucci-Faranda, pur se numericamente irrilevante, assunse per le B.R. un significato politico molto forte. Gli stessi distinguo sulla strategia complessiva, elaborati dagli scissionisti, saranno poi ripresi dalla colonna milanese Walter Alasia e, in parte, dal Partito Guerriglia. Anche il nucleo storico, pur dovendo difendere l'organizzazione dall'interno del carcere, continuò a essere assai dubbioso sulla linea militarista portata avanti da Moretti, trovandosi a subire, sulle stesse posizioni di Morucci e Faranda, la dolorosa defezione di Alfredo Buonavita, uno dei fondatori delle Brigate Rosse a Torino, che si dissociò nel carcere di Paliano, nel 1980.
La fine effettiva della colonna romana sarà scadenzata dalla continua messe di arresti successivi al 1982 e dalle collaborazioni conseguenti, ma la sconfitta politica di quell'esperienza resta, comunque, incardinata nella primavera del 1978, nella cd. "campagna di primavera".
La capitalizzazione dell'organizzazione brigatista e il consenso acquisito, si erano realizzati tuttavia solo a livello di militanti, non a quello generale. E recarono un paradosso: l'intuizione di esso e del conseguente pericolo erano stati percepiti, va ribadito, dal nucleo storico incarcerato che, nel periodo del primo processo guerriglia svoltosi a Torino e che riguardava anche i fatti del sequestro Sossi - iniziato il 17 maggio 1976 e poi aggiornato al maggio 1977 - aveva già ravvisato in quel recente consenso l'assenza, in capo all'organizzazione, di strumenti di mediazione volti a dialettizzarsi con la nuova truppa.
L'azione Moro nacque da questa sorta di impotenza. Solo il nucleo storico, in quel 1977, aveva ipotizzato la elaborazione e proposizione anche di forme legali di lotta e di trattativa con lo Stato per arrestare la lotta armata e dar vita a una formazione politica del tipo di quella originata storicamente dalle formazioni dell'ETA basca. Fu in particolare Franceschini a essere sensibile all'ambivalenza di quel successo percependo l'enorme difficoltà in atto rappresentata da quei segnali giunti dall'esterno provenienti dalle assemblee di Bologna ove era prevalsa, anche sulle piazze, soltanto la proposta brigatista: si realizzó che a quella crescita avrebbe dovuto accompagnarsi l'analisi del problema della creazione di una nuova proposta politica.
Con il sequestro dell'on.le Moro quella contraddizione latente, intuita solo in carcere e rimasta inespressa, non poteva che esplodere all'interno della colonna romana. La conseguenza di questo status provocò la dominanza della linea politica militare, conducente al fatidico sequestro nonché ad una moltiplicazione di azioni omicidiarie ma anche la progressiva disgregazione di tutte le altre colonne.
È perciò nel passaggio da organizzazione combattente a partito comunista combattente - P.C.C. - che può essere individuato il punto di rottura dello schema politico delle B.R..
Di converso, la spaccatura provocata durante il sequestro dall'atteggiamento di Morucci fu la cartina di tornasole di un ritorno a un dibattito sul movimento, tant'é che Morucci fu emarginato per aver avanzato le stesse critiche fatte in passato da Potere Operaio all'organizzazione brigatista, dicendola distante dalle realtà territoriali e contestando la permanenza della figura dell'operaio come centralità dello scontro. La coppia brigatista Morucci-Faranda aveva peraltro continuato a coltivare rapporti con i più rappresentativi esponenti dell'Autonomia romana, non vigendo il divieto, per i brigatisti, di rapportarsi a soggetti di altre organizzazioni o che avessero fatto parte, negli anni precedenti, di un movimento. Proprio questa vicinanza tuttavia si era rivelata idonea a condurre il partito armato alla possibilità della comprensione dei termini del dibattito in corso all'interno dell'area semilegale. L'atteggiamento di quest'ultima intelligenza politica - che pensava a un partito che coagulasse esperienze di massa, fatte negli anni Settanta, e quelle delle lotta armata - nel corso del sequestro di Moro voleva dimostrare che le B.R. erano riuscite ad attuare solo la parzialità di un progetto e pertanto a considerare un errore l'omicidio dello statista. Tuttavia si assistette al sequestro non in maniera antagonista, calcolando come utile la trattativa: posizione che non risiedeva nel comitato esecutivo ma all'interno della colonna. Moretti, che era a conoscenza della gestione dei contatti trattativismi, non vi conferì alcun peso, autorizzando solo i contenuti delle richieste di Morucci verso la Democrazia Cristiana.
In realtà la cattiva gestione del sequestro e il fatto che l'azione aveva rappresentato il massimo risultato che l'organizzazione brigatista potesse esprimere determinarono la tendenza del ritorno delle forze di Morucci verso il movimento e il tentativo di creare un'altra organizzazione con contenuti simili a quelli dell'Autonomia Operaia: siamo alla fine cronologica delle Brigate Rosse storiche che, convenzionalmente, viene collocata nel 1982 sull'onda degli effetti negativi del sequestro Dozier e della successiva caduta della colonna romana.


La ritirata strategica. La Iª e IIª Posizione.
Il cosiddetto Movimento dei Movimenti


Il nucleo dirigente brigatista sopravvissuto, Balzarani e Lo Bianco, aveva lanciato in quella primavera la parola d'ordine della "ritirata strategica" evocando la "lunga marcia" maoista che nel secolo scorso aveva spostato l'esercito popolare di Liberazione dal Sud al Nord della Cina per sfuggire all'accerchiamento delle truppe nazionaliste.
In seguito, principalmente nell'ambito dei dibattiti sviluppatisi fra i latitanti espatriati in Francia, le B.R. si divisero fra Iª e IIª Posizione.
La Iª Posizione considerava la "ritirata strategica" come momento di accumulo di forze e consolidamento logistico prodromico alla ripresa dell'attacco al "cuore dello Stato": non si modificava quindi la linea politica generale, ritenuta corretta, ma ci si limitava ad affrontare una fase difensiva.
I militanti che avevano condiviso invece le tesi della cd. IIª Posizione, elaborate dopo il sequestro Dozier, ritenevano che le recenti sconfitte fossero ascrivibili ad errori strategici profondi e che quindi sarebbe stato necessario correggere la linea politica dell'organizzazione.
L'asse portante della strategia, secondo questi militanti, doveva incentrarsi sulla propaganda in seno alle masse con la proposizione di azioni militari praticabili dal movimento antagonista: la IIª Posizione si pone, perciò, come ritorno alla fase della "propaganda armata", concetto che implicitamente significava che le più eclatanti azioni del ciclo brigatista avevano costituito delle fughe in avanti. Quasi tutti i militanti della IIª Posizione abbandonarono le B.R. scegliendo soluzioni personali o di movimento.
Fino al 1989 un frammento di organizzazione rappresentato da Ravalli e Cappelli, sorto dal comitato regionale rivoluzionario toscano - C.R.R. - sopravvisse in zona tosco - laziale anche militarmente, compiendo attacchi significativi come gli omicidi di Conti e di Ruffilli (febbraio 1986 e aprile 1988) per poi essere decimato da un'indagine dei Carabinieri.
Il dibattito sulle prospettive della lotta armata continuò in carcere dialettizzandosi con alcuni gruppi esterni che intendevano relazionarsi con l'esperienza storica delle B.R..
A Roma in particolare cominciarono a operare i Nuclei Comunisti Combattenti - N.C.C. - che ben presto sarebbero riusciti a ricostituire un gruppo di fuoco agguerrito e determinato, munito di ramificazioni in Toscana e Lazio, tanto da essere in grado di allestire gli attentati a D'Antona (maggio 1999) e Biagi (marzo 2002).
Queste "nuove B.R." si rifacevano ai temi classici delle B.R. storiche - l'attacco al cuore dello Stato - e della Iª Posizione: con l'arresto di Desdemona Lioce e l'uccisione di Mario Galesi la breve parabola della struttura criminale si esaurì grazie a una tenace e brillante indagine della Digos di Roma.
Dopo le manifestazioni ai vertici internazionali di Seattle e di Genova, quel composito insieme che aveva poi contestato le modalità della "globalizzazione" è stato definito "movimento dei movimenti": cosa nuova alludente al carattere egualitario e non verticistico di un'esperienza che ancora oggi si rappresenta, appunto, come la risultante di varie concezioni e sensibilità.
Le analogie con i movimenti del '68 e del '77 risultano semplicemente formali: all'epoca si trattava di fenomeni generazionali di ampio spettro che mettevano in discussione la struttura profonda del sociale. Oggi siamo in presenza di esperienze parcellizzate e disperse che trovano una instabile unità d'azione in momenti estemporanei collegati ai grandi eventi internazionali.
Ancora: mentre le insorgenze degli anni Sessanta e Settanta contestavano in toto l'organizzazione della società - dai suoi aspetti classisti a quelli culturali - il "movimento dei movimenti" tende a denunciare e ad opporsi alle conseguenze più eclatanti della globalizzazione quali la sperequazione nella distribuzione delle risorse, la "guerra permanente", la questione ambientale anche nelle dimensioni localistiche (il contrasto alla costruzione della Tav in Val di Susa, le lotte contro le discariche…).
Nell'ultimo trentennio grandi eventi hanno dunque completamente ridisegnato l'orizzonte utopico della sinistra.
La fine del "socialismo reale", l'affievolirsi delle lotte rivoluzionarie del Terzo Mondo - oggi in qualche modo sublimate dall'integralismo islamico - le trasformazioni industriali che hanno marginalizzato la classe operaia tradizionale hanno privato i movimenti contestativi di una prospettiva visibile e realistica.
Lo slogan più noto del movimento No Global è stato, durante le manifestazioni contro il vertice G8 di Genova, "un altro mondo è possibile". L'apparente suggestione di questa parola d'ordine non può nascondere l'indeterminatezza della prospettiva strategica, svincolata ormai da qualsiasi ipotesi di palingenesi rivoluzionaria e tesa, semmai, a rendere "sopportabile" la vita sul pianeta per le popolazioni meno fortunate.
In Italia questo movimento antiglobalizzazione si è innestato, in parte e per un periodo iniziale, su un filone preesistente, quello dei centri sociali: l'esperienza del Leoncavallo risale al 1982 ed è da considerarsi residuale del movimento sconfitto.
La galassia, per molti versi indistinta, di queste strutture, fino ai fatti di Genova, comprendeva tre specifici e spesso contrastanti "cartelli":
a) l'area dell'autonomia di classe;
b) l'area dell'autonomia del possibile;
c) l'area dell'autonomia diffusa.
Nell'accezione "autonomia di classe" potevano essere inclusi tutti i centri sociali che ponevano al centro della loro azione l'antagonismo allo Stato borghese ma anche all'interno di questa particolare area le differenziazioni sono state molte, soprattutto di tipo ideologico: dall'anarchismo dei centri torinesi al marxismo-leninismo del "Gramigna" padovano.
L'area dell'"autonomia del possibile" -maggioritaria- comprendeva, e ancor oggi include, i centri sociali del nord-est che, pur essendo gli eredi diretti dell'Autonomia operaia degli anni Settanta, principalmente padovana, hanno scelto una strategia che può in qualche modo interagire o relazionarsi alle Istituzioni anche se non rinnega antagonismo e scontro.
Quanto all'area dell' "autonomia diffusa", essa includeva una serie di movimenti specifici quali: la rete antirazzista, la rete lilliput di origine cattolica, gli ambientalisti. Nel tempo questo spezzone di movimento si è sempre più avvicinato al partito di Rifondazione Comunista sortendo dall'area antagonista propriamente detta.


foto Ansa



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA