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GNOSIS 4/2006
Il nuovo soggetto del conflitto sociale

Antagonismo all'attacco dell'obiettivo precariato


articolo redazionale

Perché negli ambienti antagonisti - e anche altrove - l'espressione "lotta alla precarietà!" è diventata la nuova parola d'ordine? Per quale ragione si parla di precarietà con riferimento a contesti diversi da quelli "propriamente economici" (precarietà e repressione, precarietà ed immigrazione, precarietà della "formazione e dei saperi", precarizzazione dei diritti)? Come mai è in atto, oggi, un processo di estensione semantica del concetto di precarietà? Precarietà ed incertezza - sostiene il pensiero di matrice alternativa - formano il cuore del sistema economico e sociale post-fordista. Secondo questa tesi, perché il "nuovo capitalismo" possa celebrare la propria apoteosi è necessario che vengano travolti tutti gli ostacoli che si frappongono all'affermazione incondizionata dei suoi poteri. Non basta, dunque, flessibilizzare la produzione, ridurre il costo del lavoro, "disarticolare" il movimento sindacale: occorre anche precarizzare i diritti, rendere aleatoria la loro tutela, contrastare la diffusione di un sapere critico. La flessibilità, in quest'ottica, lungi dall'essere un portato inevitabile della globalizzazione, appare come il frutto di una chiara scelta di politica economica. E tutto ciò mentre si assiste alla comparsa di un "homo novus": un individuo sempre più fragile, incapace di progettare il proprio futuro, angosciato dal vuoto di un'esistenza incerta.


foto ansa

La precarietà: una categoria
non soltanto economica


"Flessibile, dipendente, autonomo, parasubordinato, in bilico, intermittente, instabile, fluido, a termine….In una parola precario.
Questo il tratto che descrive non semplicemente la tipologia dei nostri lavori ma definisce la cifra della nostra esistenza". (1)
La consapevolezza che la precarietà non sia una categoria soltanto economica fa parte ormai del comune sentire della gente. Si parla di precarietà della formazione, di precarietà dei saperi, di precarietà dei diritti. E' in atto un processo di estensione semantica del concetto di precarietà che, muovendo dall'originario ambito lavorativo, ha finito per investire a pieno l'arena politica.
Tutto nasce con l'affermazione del post-fordismo. Il sistema economico attuale è dominato da forme di accumulazione flessibili capaci di coniugare e mettere in rete modi, tempi e luoghi di produzione molto diversi. Il capitale non è più soltanto "fisico" (danaro ed impianti): il suo valore principale è dato dalla condivisione delle conoscenze, dall'informazione. L'offerta non soddisfa una domanda generica (produzione in serie) ma fa proprie, in tempo reale, le specifiche esigenze del consumatore (produzione "personalizzata" "just on time"). La forza lavoro post-fordista, per adattarsi ad una produzione elastica, deve possedere un'elevata mobilità spaziale ed una forte flessibilità. Le mansioni dei lavoratori attengono sempre più alla sfera delle attività immateriali; frattali di info-lavoro parcellizzato circolano nella rete globale e vengono ricombinati in una sede diversa da quella in cui sono erogati.
Nella società post-industriale la "fabbrica" perde la sua centralità. Non si lavora più tutti nello stesso luogo e, tendenzialmente, alla stessa maniera. Anche la disciplina sembra dissolversi. Alla rigidità fordista fa seguito la flessibilità del post-fordismo. Diventa difficile, per i lavoratori, acquisire una propria identità, esprimere il senso di appartenenza ad una classe. La loro forza contrattuale si affievolisce, essi si trovano spesso a trattare, direttamente, da soli, con il datore di lavoro.
La logica del confronto paritario tra capitale e operai riuniti in sindacati viene meno: essa è sostituita da un semplice rapporto mercantile in cui una delle parti versa in situazione di palese inferiorità. L'antica concezione del lavoro attorno alla quale, nei decenni trascorsi, si è sviluppata una parte importante del confronto sindacale e politico rischia di venire, in breve tempo, archiviata.
I mutamenti in atto vengono interpretati in maniera diametralmente opposta. Se gli economisti tendono a leggere il modello di produzione post-fordista in termini asettici di domanda-offerta, di equilibrio tra differenti variabili, l'universo antagonista preferisce, invece, un approccio politico. Nel quadro di una libera economia di mercato il prezzo e la quantità del fattore lavoro sono determinati dall'azione delle diverse componenti macroeconomiche ed il lavoro non può essere considerato una variabile indipendente. La flessibilità, nell'ottica liberista, è dunque connaturata ai modelli organizzativi e tecnologici del XXI secolo.
Opposta l'analisi di chi sostiene che l'economia, lungi dall'essere una scienza oggettiva, sia invece "una tecnica di modellazione dei rapporti sociali". La precarietà, in quest'ottica, non è una condanna biblica ma il frutto di una precisa scelta di politica economica: essa si configura come l'esito di interventi sociali, economici e legislativi che hanno prima modificato e poi sancito definitivamente rapporti sociali di potere a favore delle imprese. In base a questa tesi la flessibilità è servita a frammentare, isolare ed indebolire la forza lavoro secondo l'antica logica del "divide et impera". E la precarietà non sarebbe una condizione di vita indissolubilmente legata al paradigma economico dell'economia post-industriale ma un astuto stratagemma con cui il capitale ha intensificato lo sfruttamento della forza lavoro (pagandola di meno) ingabbiandola, al tempo stesso, nella stretta morsa di un ferreo controllo.
La "costruzione" della precarietà, secondo il pensiero di matrice "alternativa", è avvenuta su molteplici piani:
- su un piano legislativo (leggi Treu e Biagi in Italia, Cpe e Cne in Francia,…);
- su un piano più propriamente "culturale" (con teorie e slogan, diffusi da intellettuali ed operatori dei mass-media, che fanno apparire la flessibilità un portato inevitabile dei tempi moderni, un male necessario rispetto al quale non possono esserci che rimedi parziali - le reti di protezione o gli ammortizzatori sociali per il lavoro atipico -).


Effetti della precarietà.
"Precarietà effettiva e precarietà percepita"


Indipendentemente dalle cause che sono alla base della flessibilità post-fordista, gli effetti prodotti sugli individui dalla precarizzazione del lavoro (2) appaiono particolarmente gravi. Il sociologo Luciano Gallino (3) ne "Il costo umano della flessibilità" parla correttamente di tre generi di oneri:
- una precarietà esistenziale, dovuta alla limitata possibilità di formulare progetti per il futuro;
- una precarietà professionale, causata dalla eterogeneità delle esperienze lavorative e dalla conseguente impossibilità di acquisire un know-how adeguato;
- una precarietà sociale, consistente nel venir meno dell'identità e della coesione sociale, in seguito all'assenza di referenti spaziali e relazionali stabili (la fabbrica come luogo privilegiato di formazioni identitarie).
Dal canto suo, il sociologo americano Richard Sennett in "The Corrosion of Character" arriva ad ipotizzare una probabile mutazione antropologica indotta dal nuovo stile di vita. Il lavoro flessibile genererebbe un "homo novus" divorato dall'ansia di un'esistenza incerta, diffidente verso il futuro, incapace di solidarietà, privo del senso di appartenenza ad un gruppo.
Fin qui gli effetti della precarietà. Ma per comprendere i possibili sviluppi a cui può dar luogo un fenomeno sociale occorre analizzare anche come lo stesso viene "percepito" dai suoi attori. La precarietà "percepita" risulta infatti di gran lunga superiore alla precarietà "reale" (4) .
La flessibilità non è più limitata, come un tempo, alle classi subalterne (braccianti e addetti al settore dell'edilizia): ora interessa tutte le fasce sociali e, in particolare, le classi medie (impiegati della pubblica amministrazione, precari della scuola). Sono proprio i ceti medi, abituati alla sicurezza di un impiego fisso, a vivere le maggiori apprensioni. Senza contare i molti "lavoratori atipici" coinvolti nel settore dell'informazione che contribuiscono a dare visibilità alla protesta e a veicolare lo scontento nella giusta direzione.
Tra la gente è diffuso il timore di una precarietà che si estende anche al livello delle retribuzioni (la flessibilità comporta una riduzione generalizzata del costo del lavoro) e che mette in pericolo le prestazioni assistenziali e previdenziali erogate dallo Stato. La precarietà è vista come un male che accompagna tutte le fasi della vita degli individui, dall'entrata nel mondo del lavoro alla vecchiaia (5) .


foto ansa


La precarietà: cuore nero del
nuovo ordine economico e sociale?


Gli aspetti or ora esaminati sarebbero già di per sé sufficienti a fare del precariato "un nuovo soggetto del conflitto sociale". Ma il fenomeno non resta confinato al puro "ambito economico": si parla, infatti, di precarietà dei diritti, di precarietà della formazione e dei saperi, di precarietà ed immigrazione. Negli ambienti antagonisti la nuova parola d'ordine è: "lotta alla precarietà!" Il tema del precariato figura costantemente accanto alle rivendicazioni sindacali, alle proteste ambientaliste, agli appelli alla mobilitazione contro la "repressione".
La precarietà e l'incertezza sono viste, dal pensiero di matrice alternativa, come l'altra faccia della medaglia del capitalismo post-moderno. La precarietà e l'incertezza sarebbero il mezzo di cui si serve il "capitale" per tenere sotto controllo l'intero ordine economico e sociale. Secondo tale interpretazione, non sarebbe sufficiente "flessibilizzare" il lavoro, abbattere i costi, "disarticolare" il movimento sindacale. Un controllo totale - globale - esige il superamento di ogni possibile barriera. I diritti, la loro tutela, un sapere ed una formazione critica costituirebbero altrettanti limiti nonchè pericolose minacce all'affermazione incondizionata del potere del nuovo "Moloch".
Tutto, allora, è reso precario, aleatorio, evanescente: il diritto al lavoro, il diritto al reddito, il diritto alla casa, il diritto alla salute. La lotta per ognuno di questi diritti, in area antagonista, acquista la valenza di una battaglia combattuta nell'ambito di una più ampia guerra contro la precarietà e, dunque, contro il "capitale".
Anche il rapporto tra precarietà e "repressione" segue la stessa logica. Gli arresti seguiti alle occupazioni e alle iniziative di protesta contro il caro-vita, le condanne inflitte per "reati associativi" rappresentano, nell'ottica dei dissidenti, altrettante aggressioni volte a precarizzare - a rendere più difficile e aleatoria - la tutela dei diritti degli sfruttati. Non è possibile, infatti, precarizzare i diritti senza precarizzarne la tutela e la "repressione" va interpretata, in tale contesto, come una forma di precarizzazione della tutela dei diritti.
Se poi esiste una categoria in balia della precarietà, questa è costituita dagli immigrati: la mancanza di un'occupazione sicura, oltre a produrre tutti gli effetti negativi esaminati in precedenza, condiziona pesantemente il processo di integrazione degli stranieri. Il rischio di espulsione, la negazione della cittadinanza e della pienezza dei diritti pongono gli immigrati in una situazione di oggettiva debolezza. Ancora un esempio di come "la precarizzazione" di un gruppo sociale sia funzionale al pieno esercizio del potere su di esso.
La precarietà vista come strumento di potere e di controllo al servizio del capitale non può non intervenire sulla formazione e sui saperi. In area antagonista, tra gli studenti e gli universitari, si parla di "riappropriazione del tempo di vita", di "catena di montaggio formativa", di "mercificazione della conoscenza". L'imposizione di ritmi che fagocitano per intero il tempo a disposizione dei giovani (gli obblighi di frequenza, il moltiplicarsi di corsi ed esami) e i piani di studio vincolati (lo studente viene privato quasi totalmente della libertà di scegliere gli insegnamenti da seguire) sarebbero funzionali alla creazione di una figura nuova: quella dello studente massa, del precario in formazione. Perché si è deciso di "rubare" e di "gestire" tutto il tempo agli universitari?
Perché li si deve abituare ad essere flessibili, ad adattarsi a qualsiasi input esterno, li si deve privare della convinzione di essere padroni del proprio futuro.
Tempo ed obbiettivi, si insegna, vengono definiti altrove. Secondo questa tesi, l'università prepara i giovani a diventare precari; la cultura non è più sapere critico ma coacervo di nozioni tecniche (6) pronte ad essere utilizzate dall'azienda di turno. E' in tale contesto che si colloca la dura opposizione, da parte del
movimento studentesco, alla "istituzione dei poli universitari di eccellenza", centri iperfinanziati dove la ricerca è pensata in funzione del mercato e del potere.


Inquadramento teorico del
fenomeno del precariato


Gli studenti d'oltralpe che si sono opposti al CPE hanno avuto come referenti, oltre agli autori della Scuola di Francoforte, anche filosofi e pensatori francesi quali Gilles Deleuze, Felix Guattari8 e Guy Debord9. I loro modelli teorici paiono possedere una singolare valenza esplicativa in relazione all'attuale ordine economico e sociale. Deleuze e Guattari sono ricorsi alla metafora del rizoma (radice che si propaga con nodi multidirezionali senza che si possa capire dove essa abbia inizio o fine) per illustrare un tipo di conoscenza e di società policentriche, prive di gerarchia, che si sviluppano da sé, mediante il solo apporto non preordinato dei rispettivi attori.
Tutto, oggi sembra essere "rizomatico": dalla rete internet ai movimenti no-global. Ed è dall'azione spontanea - non preordinata - di una molteplicità connessa che si è sviluppato il marzo francese.
Guy Debord ha illustrato le caratteristiche di quella che egli definisce "società dello spettacolo". La moda, la pubblicità, l'intero sistema mediatico e relazionale offrono un'immagine illusoria e seducente della realtà. Ciò è indispensabile perché nuove merci possano essere prodotte e vendute e perché l'economia di mercato possa autoriprodursi. Ma più la forza delle immagini si afferma più l'esperienza deperisce: la vita reale lascia il posto allo splendore del suo simulacro.
Un incolmabile vuoto di senso affiora. Per impedire che "il vivo si trasformi nel morto" Debord propone, con procedimento opposto a quello dell'alienazione spettacolare, di creare delle situazioni10 di rottura (detournement) che "recuperino" la naturale vita di relazione. Gli studenti francesi che hanno lottato contro il CPE hanno inteso, con una prova di forza, "recuperare alla vita" un individuo sempre più fragile, sempre più precario, esposto, da un lato, alle insidie della flessibilità post-fordista e dall'altro alla natura totalitaria dell'apparato produttivo11.
La precarietà riconferma, in sintesi, il superamento di un'idea di modernità edificata sulle grandi certezze12 (le principali correnti filosofiche dell'800, positivismo e storicismo) e pone alla società contemporanea la sfida di preservare la propria identità e coesione sociale.

Il fenomeno del precariato viene letto da differenti prospettive teoriche. La componente marxista, per spiegare i mutamenti in essere, fa riferimento alla dottrina secondo cui "la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali…il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le istituzioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi tra tutte le epoche precedenti…" (7) .
Gli studenti d'oltralpe che si sono opposti al CPE hanno avuto come referenti, oltre agli autori della Scuola di Francoforte, anche filosofi e pensatori francesi quali Gilles Deleuze, Felix Guattari (8) e Guy Debord (9) . I loro modelli teorici paiono possedere una singolare valenza esplicativa in relazione all'attuale ordine economico e sociale. Deleuze e Guattari sono ricorsi alla metafora del rizoma (radice che si propaga con nodi multidirezionali senza che si possa capire dove essa abbia inizio o fine) per illustrare un tipo di conoscenza e di società policentriche, prive di gerarchia, che si sviluppano da sé, mediante il solo apporto non preordinato dei rispettivi attori.
Tutto, oggi sembra essere "rizomatico": dalla rete internet ai movimenti no-global. Ed è dall'azione spontanea - non preordinata - di una molteplicità connessa che si è sviluppato il marzo francese.
Guy Debord ha illustrato le caratteristiche di quella che egli definisce "società dello spettacolo". La moda, la pubblicità, l'intero sistema mediatico e relazionale offrono un'immagine illusoria e seducente della realtà. Ciò è indispensabile perché nuove merci possano essere prodotte e vendute e perché l'economia di mercato possa autoriprodursi. Ma più la forza delle immagini si afferma più l'esperienza deperisce: la vita reale lascia il posto allo splendore del suo simulacro.
Un incolmabile vuoto di senso affiora. Per impedire che "il vivo si trasformi nel morto" Debord propone, con procedimento opposto a quello dell'alienazione spettacolare, di creare delle situazioni (10) di rottura (detournement) che "recuperino" la naturale vita di relazione. Gli studenti francesi che hanno lottato contro il CPE hanno inteso, con una prova di forza, "recuperare alla vita" un individuo sempre più fragile, sempre più precario, esposto, da un lato, alle insidie della flessibilità post-fordista e dall'altro alla natura totalitaria dell'apparato produttivo (11) .
La precarietà riconferma, in sintesi, il superamento di un'idea di modernità edificata sulle grandi certezze (12) (le principali correnti filosofiche dell'800, positivismo e storicismo) e pone alla società contemporanea la sfida di preservare la propria identità e coesione sociale.


foto ansa


Precarietà: che fare?

Friedrich A. von Hayek, in un classico sulla natura e sul ruolo della razionalità (13) , ha parlato di "presunzione fatale" della ragione umana: l'idea di poter tutto valutare, pianificare, piegare alle esigenze e ai desideri degli individui viene considerata come un atto di ubris dell'uomo contemporaneo, un portato della tradizione dell'illuminismo francese.
Gestire direttamente "la flessibilità" e le sue conseguenze presuppone la capacità di orientare i meccanismi dell'economia di mercato nella direzione voluta. Solo in un'economia rigidamente pianificata il fattore lavoro diventa una variabile dipendente plasmabile "ad libitum" da esperti e politici.
Al di fuori di questa ipotesi, resta la prospettiva di una flessibilità "pilotata" e non "vissuta", una condizione lavorativa ed esistenziale alla quale gli individui devono prepararsi al meglio. Se, da un lato, l'economia post-fordista richiede un'elevata qualificazione professionale, dall'altro la precarietà degli impieghi non consente a chi già lavora di accumulare conoscenze e know-how adeguati. Sarebbe, quindi, utile che, ai giovani, sin dalla prima età scolare, venissero proposti "percorsi formativi di eccellenza" in grado non solo di trasfondere saperi ma anche di stimolare il senso di intraprendenza.
Determinante al pari della formazione e prodromico alla stessa è il ruolo della comunicazione. Istituzioni, mass-media e famiglie dovrebbero essere consci dei tratti essenziali del nuovo sistema di produzione mettendo in guardia chi si predispone a farne parte. Il problema esiste e mancano “bacchette magiche” in grado di risolverlo: affrontarlo è comunque un impegno obbligato per consentire alla flessibilità di non trasformarsi in precarietà diventando, al contrario, fattore di stimolo nell'ambito di un processo di mobilità sociale verso l'alto.


(1) AA.VV. Falso movimento. Dentro lo spettacolo della precarietà, Derive Approdi, Roma, 2005, p.61.
(2) Secondo Doing Business 2006, rapporto commissionato dalla Banca Mondiale sui problemi dell'impresa nel mondo, sono molti i paesi in cui è facile licenziare. Hong Kong, Thailandia, Singapore, Giappone, Costa Rica, Oman, Arabia Saudita, Kuwait sono solo alcuni degli Stati dove il rapporto di impiego può essere risolto a discrezione del datore di lavoro. Al contrario, in Tunisia, Nepal ed India risulta pressochè impossibile licenziare. In una scala da 0 (nessun ostacolo ai licenziamenti) a 100 (virtuale impossibilità di licenziare), Italia e Francia si collocano su posizioni medio-basse, con valori, rispettivamente, di 30 e 40.
(3) Luciano Gallino, Il costo umano della flessibilità, Laterza, Roma-Bari, 2001.
(4) Una misura della differenza esistente tra precarietà "effettiva" e precarietà "percepita" è data dal numero di persone che sono già ricorse allo strumento della pensione integrativa o hanno espresso l'intenzione di ricorrervi: a fronte di una percentuale di lavoratori atipici che, comunque calcolata, in Italia, non supera il 15%, sono molti i cittadini che hanno sottoscritto o si accingono a sottoscrivere una polizza o altri strumenti finanziari aventi finalità previdenziali.
(5) Per Aris Accornero la precarietà , in Italia, è particolarmente sentita anche a causa della mancanza di "un aggiornato sistema pubblico di sicurezza sociale"; Aris Accornero, San Precario lavora per noi, Rizzoli, Milano, 2006.
(6) E' il concetto alla base della "Dialettica dell'Illuminismo" di Marcuse e Adorno, secondo cui, nell'età contemporanea, la conoscenza non serve ad arricchire e liberare l'umanità ma ad asservirla al giogo del potere. Il sapere critico che avrebbe dovuto indicare delle mete, illuminare la via del progresso si è rovesciato in sapere tecnico, al servizio del "capitale". Sono frequenti, fra gli universitari italiani e francesi, i riferimenti a Marcuse ed Adorno e, in generale, agli altri autori della Scuola di Francoforte.
(7) K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista.
(8) Gilles Deleuze, Felix Guattari, Rizoma, Edizioni Pratiche, Lucca, 1978.
(9) Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari, 2002.
(10) Da cui il nome del movimernto, situazionismo.
(11) Secondo Herbert Marcuse, nella nostra società, l'apparato produttivo tende a diventare totalitario, in quanto determina non solamente le occupazioni e gli atteggiamenti socialmente richiesti ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali.
(12) Ulrich Beck "Il lavoro nell'epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile" Einaudi, 2000.
(13) F.A. von Hayek, La presunzione fatale, Rusconi, Milano, 1997.

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