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GNOSIS 4/2006
La riduzione delle forze in Afghanistan

Se l'Occidente arretra
tornano i talebani


Franz GUSTINCICH

Il brano propone una chiara descrizione degli eventi che hanno reso l'Afghanistan il centro dell'ecumene neofondamentalista ed è in grado di offrire un quadro ordinato logicamente e cronologicamente. L'autore espone diversi elementi su cui riflettere, e ci riesce, evitando di influenzare l'opinione che nasce dalla lettura. Si tratta, di là delle specifiche e contingenti riflessioni, di un utile promemoria cui ricorrere per ricordare le dinamiche che hanno fatto di quel paese il luogo di genese del neofondamentalismo qaedista.


foto ansa

E’ l’11 giugno 2006. Nella provincia nord occidentale pakistana del Waziristan settentrionale, sono stati affissi dai Talebani numerosi manifesti, nei quali si avverte la popolazione che verranno severamente puniti tutti coloro che contravverranno al divieto di ascoltare musica, guardare la tv o videocassette di contenuto non islamico - nonché a tutti quei divieti tristemente noti dall’epoca talebana dell’Afganistan -. Questo “anche contro il volere delle autorità”, avvertono i manifesti minacciosamente.
Nel Waziristan settentrionale hanno trovato rifugio moltissimi Talebani fuggiti dai bombardamenti americani e, secondo voci, anche il mullah Omar si troverebbe lì, accudito dai servizi segreti pakistani. Nulla di sconcertante, quindi, che in un ambiente con un’alta rappresentanza di estremisti conservatori, qualcuno si prenda la briga di ricordare i divieti imposti durante il periodo afghano più oscuro. Tuttavia, quello che sorprende è che, secondo alcune fonti locali indipendenti riportate dalla stampa, la gente comune abbia accolto con favore tanto i divieti quanto il riemergere di un movimento talebano che fino ad ora - pur presente ed attivo nella zona - non aveva manifestato tali segni di vitalità, pubblicamente, con un’azione politicamente rilevante.
Cinque anni sono trascorsi da quando l’Alleanza del Nord, guidata, sostenuta ed alleata di Washington, ha sconfitto il regime dei Talebani. Cinque anni nei quali si è costantemente sottovalutata l’entità del fenomeno fondamentalista, convogliando tutte le energie nella campagna irachena, in questo modo praticamente abbandonando l’Afganistan, considerato erroneamente un problema risolto o in via di soluzione.


L’ascesa dei Talebani

I Talebani, è bene ricordarlo, erano saliti al potere conquistando militarmente la quasi totalità del territorio afghano. Con il ritiro delle truppe sovietiche, i mujahiddin delle varie fazioni avevano perso il sostegno logistico-finanziario che era garantito loro dagli USA attraverso l’ISI (Inter-Service Intelligence), il servizio segreto del Pakistan. L’alleanza tra i signori della guerra (1) che era stata imposta in chiave anti-sovietica, venuto a mancare il nemico, iniziava a dare i primi segni di cedimento. Presidente della Repubblica era allora Najibullah, sostenuto da Mosca, che riusciva a mantenere la sua posizione grazie agli aiuti alimentari, le munizioni e i pezzi di ricambio inviati da Gorbatchev.
Con la caduta di Gorbatchev, El’Cin aveva sospeso ogni forma di aiuto a Najibullah, accelerandone, qualche tempo dopo, la resa sotto la pressione dei signori della guerra. Ciò aveva costretto il Presidente - incapace persino di scappare, essendo rimasto praticamente solo - a ripararsi nella delegazione delle Nazioni Unite di Kabul.
Era l’aprile del 1992, e Burhanuddin Rabbani diventava Presidente dell’Afghanistan. Alleato del ministro della Difesa Massud, aveva iniziato una guerra contro Gulbuddin Hekmatjar, Primo Ministro, appoggiato dal Presidente pakistano Zia al-Huq e dal generale Akhtar, capo dell’ISI. L’intenzione pakistana era quella di avere un governo afghano, sunnita, subordinato a Islamabad, per mantenere alta la pressione nei confronti degli sciiti di Teheran, il nuovo nemico degli USA dopo la fine dell’impero sovietico. La strategia convergeva con quella della casa Bianca, dove tuttavia non erano ben disposti ad intrattenere relazioni troppo strette con uno Stato islamico fondamentalista quale il Pakistan si stava dimostrando con al potere Zia al-Huq, e temeva che una concentrazione troppo alta di guerriglieri fondamentalisti in Afghanistan, avrebbe finito con l’essere utilizzata da altri paesi islamici nelle aree di frizione tra gli USA ed altri Paesi islamici. Il Pakistan, però, aveva deciso di seguire questa strategia anche perché si aspettava investimenti e consistenti aiuti dagli Americani.
Ma le cose non sono andate per il verso giusto.
La profonda divisione tra le etnie afghane, radicalizzata dai signori della guerra che avevano oramai rotto l’alleanza tra di loro, aveva trasformato il jìhad contro i Sovietici in una guerra civile, alimentata da oppio, contrabbando e mafia dei trasporti. Un affare da miliardi di dollari. Si è calcolato che i soli dazi doganali riscossi illegalmente nella provincia di Herat da Ismail Khan, signore della guerra, ammontassero a duecento milioni di dollari l’anno.
L’instabilità permanente dell’Afghanistan nuoceva ai progetti di sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio del Caspio che esigevano infrastrutture per il trasporto verso il golfo Persico attraverso l’Afghanistan. La prima società ad interessarsi seriamente ad un progetto di gasdotto su questo percorso fu l’argentina Bridas, che riuscì a mettere d’accordo tutte le fazioni in guerra con un intenso lavoro diplomatico. Bridas però venne poi scalzata dall’americana Unocal, che sosteneva che l’unica soluzione per realizzare il colossale progetto, fosse la costituzione di un organismo unico in grado di controllare tutto. Questo aprì di fatto la strada all’idea che in Afghanistan fosse necessario al più presto un forte governo centrale, cosa che avrebbe anche messo a tacere i signori della guerra.


da www.unp.org

E’ a questo punto che il Pakistan decide di investire cospicue risorse per assicurarsi il controllo dell’Afghanistan: la novità consiste nell’implicito assenso degli USA e dell’Arabia Saudita, che coinvolge il Pakistan in un ampio schieramento con un progetto politico definito. All’ISI vengono affidati compiti operativi e strategici, fin dalla ideazione e progettazione degli interventi, presumibilmente con il consenso statunitense.
L’idea dell’ISI è geniale nella sua semplicità: ci sono decine di migliaia di profughi affamati che vivono nelle madrasse del nord del Pakistan. Si tratta di analfabeti che negli studi religiosi imparano a memoria poche e fondamentali sure e il cui sistema di sussistenza è essenziale, e riesce con fatica a soddisfare i bisogni primari. Alla massiccia educazione religiosa, viene affiancato l’addestramento di base all’uso delle armi. Ai mullah responsabili delle madrasse viene offerto il comando dei battaglioni che vengono così a formarsi. Gli studenti, invece, sembra siano stati comperati per una scatoletta di carne e un paio di scarpe nuove, simboli di un benessere che fino a quel momento sembrava irraggiungibile. In questo modo nascono i guerriglieri Talebani, così come sono stati conosciuti in tutto il mondo.
I Talebani sono una potenza, numericamente parlando, ma male addestrata. Gli errori strategici che commettono nelle aree di operazioni costano la vita a centinaia di loro che, dopo ogni battaglia, vengono rimpiazzati con nuove leve. Eppure, malgrado le defiances, l’avanzata del fronte talebano è rapidissima e ciò giustificato da almeno due fattori.
Lo stato di guerra “permanente” (2) aveva spossato la popolazione civile, sempre più povera ed affamata. I Talebani dichiararono di combattere in nome di Allah per portare una pace stabile e duratura, contro ogni fazione, e questo suscitò l’approvazione della moltitudine della gente comune. Ma il fattore più importante fu l’intenso lavoro dell’ISI nei confronti dei signori della guerra che vennero letteralmente comperati con decine di milioni di dollari e accordi sugli utili dei vari traffici illeciti futuri, oltre a quelli che sarebbero derivati dal gasdotto. In pochi mesi conquistarono 7 delle 28 province afgane. Al termine della guerra restò fuori controllo solamente una porzione del nord dell’Afghanistan con la valle del Panjshir. Massud, con un pugno di uomini, grazie all’inaccessibilità della valle, impedì la proclamazione della vittoria finale talebana e il completo controllo del territorio richiesto dalle compagnie per avviare l’investimento di cinque miliardi di dollari nell’infrastruffura per il trasporto del gas. Il gasdotto, quindi, era ancora una volta fuori gioco: troppo alto il rischio di vederlo saltare in aria ripetutamente.
I Talebani, poi, si rivoltarono contro il loro creatore e finanziatore, il Pakistan, alzando sempre di più il prezzo della loro fedeltà.
Venne poi l’offensiva americana, che, guidata dall’Alleanza del Nord, sconfisse quasi completamente i Talebani. L’Afghanistan uscì dall’incubo imposto da un’oligarchia analfabeta, che propugnava un’ideologia rudimentale basata più sulle leggi consuetudinarie degli antichi Pashtun che non sul Corano.
Ma i Talebani, nonostante la vittoria riportata, non sono mai stati sconfitti del tutto.


Il ritorno dei Talebani

E’ il 18 maggio 2006. Da circa un mese le forze alleate conducono azioni decise nel tentativo di sradicare quelle che all’opinione pubblica vengono descritte come “le ultime sacche di resistenza dei Talebani”. Ma proprio in questa giornata le “ultime sacche” scatenano un’offensiva senza precedenti. Hanno iniziato mercoledì 17 attaccando Musa Qala, nella provincia di Helmand a poco più di due ore di strada da Kabul. Fino ad ora non si erano mai spinti così vicino alla capitale. Quando le truppe afgane riconquistano il villaggio, trovano i cadaveri di 13 poliziotti e scoprono il furto di tutte le armi e le munizioni. E’ l’inizio dell’offensiva di primavera proclamata dal mullah Omar.
Nelle province meridionali dove più forte è la presenza dei Talebani se si escludono uomini bomba ed altri attentati, il controllo del territorio ricorda un gioco delle parti dove il palcoscenico è occupato a turno da gruppi di attori che solo raramente si incontrano: forze governative ed alleati di giorno, Talebani e contrabbandieri di notte. Il Waziristan è un grande serbatoio potenziale di ribelli Talebani e le province meridionali dell’Afghanistan sono il terreno di scontro ideale. Qui gli Stati Uniti non hanno mai avuto una presenza sufficiente per garantire la sicurezza, e le azioni di guerra non sembrano essere abbastanza incisive.
La tabella che segue indica la presenza militare straniera impegnata in operazioni di pace nelle aree di crisi (3) .


Teatro/anno

Truppe

Densità: soldati x Kmq

Densità: soldati x abitanti

Kossovo/2004

40.000

1 per 0,3

1 per 50

Bosnia/2004

60.000

1 per 0,85

1 per 66

Afghanistan/2005

36.000

1 per 25

1 per 1115

Iraq/2004

173.000

1 per 1,8

1 per 107



La sicurezza in gran parte dell’Afghanistan non è garantita a causa della scarsezza di uomini e mezzi e della conseguente difficoltà a ricostruire le istituzioni, e la gente si domanda cosa ci stiano a fare tanti soldati se la popolazione non ne ricava alcun beneficio (4) .
La maggior parte delle energie americane è stata distratta dalla campagna irachena, e la missione Afghanistan e rimasta incompiuta, demandata alle forze a comando Nato. Il ritiro di un quinto del contingente statunitense - circa quattromila uomini su ventimila -, è stato interpretato dagli estremisti come l’inizio della ritirata dal Paese. L’offensiva talebana di primavera, dichiarata dal mullah Omar, coincide infatti come periodo con l’annunciato ritiro americano.
La rivolta spontanea innescata a Kabul il 30 maggio 2006 da un incidente automobilistico che ha visto coinvolti mezzi militari americani e civili è la cartina di tornasole di una situazione che si fa ogni giorno più incandescente. Un veicolo militare americano si è schiantato contro un taxi provocando la morte di un passeggero e ferendo altre sei persone. La reazione della gente è violenta: ha inizio una sassaiola al grido di “morte all’America”. Secondo testimoni occidentali, dai veicoli militari parte una raffica di mitragliatrice che uccide quattro civili. La folla respinta dalle forze afghane si dirige verso il quartiere delle ambasciate dove, nel tentativo di forzare il cordone della polizia, altre tre persone rimangono uccise.


L'oppio afghano

Sembra evidente fin dai tempi del “Grande gioco” che contrapponeva Russia e Inghilterra nel dominio dell’Afghanistan, che la percezione afghana dello straniero è essenzialmente utilitaristica. Lo straniero è tollerato fintanto che offre qualche beneficio, aiuti, investimenti, ricostruzione. E proprio la ricostruzione è il punto dolente: le guerre contemporanee per essere vinte richiedono uno sforzo supplementare successivo ai combattimenti, ed un’accorta pianificazione. “Washington” scrive Ahmed Rashid, il giornalista che ha dedicato anni alla documentazione delle vicende afghane, “ha rifiutato di prendere seriamente lo state buildìng dopo il 2001” e continua dicendo: “l’Afghanistan ha ricevuto molti meno fondi per la ricostruzione se comparato con l’ex Jugoslavia, Timor Est o Haiti” (5) . L’agricoltura, ad esempio, che pure rappresenta il reddito di oltre il 70% della popolazione, è stata praticamente abbandonata, secondo alcune ONG presenti sul territorio, e ciò ha provocato il rapido ritorno alle coltivazioni del papavero da oppio, grazie agli incentivi economici offerti dai trafficanti ai coltivatori - quando non si tratta di coercizione -, incentivi che superano abbondantemente gli aiuti distribuiti dalle organizzazioni internazionali per lo sradicamento delle piantagioni. In alcune zone depresse dalla siccità, l’assenza di aiuti costringe le famiglie più povere a dare oppio da fumare anche a bambini di pochi anni, per calmare i morsi della fame.


foto ansa

L’economia dell’oppio genera corruzione e questa condiziona pesantemente il controllo del territorio da parte delle autorità governative: è forse per governare che il Presidente Karzai ha accettato ministri appartenenti alla categoria dei signori della guerra, e questi, per mantenere il loro potere, sono scesi a patti con le piccole bande criminali e i clan locali. Solo formalmente inseriti nel sistema istituzionale, essi dipendono o controllano la diffusa illegalità delle Province.
Un esempio è quello della provincia di Herat, governata per lungo tempo da Ismael Khan, che si è rifiutato di versare al governo centrale le imposte doganali. Per consentire la nomina di un nuovo governatore, fedele all’autorità centrale, Ismael Khan è stato nominato Ministro dell’Energia.
Il rivale storico di Ismael Khan, Amanullah Khan, signore della guerra delle province di Shindand e Farah, non ha digerito bene la nomina e ha minacciato rappresaglie violente. A sud di Shindand la vita non è più garantita da nessuno, e persino le compagnie militari private non danno affidabilità. Durante un attacco, è stata la scorta di un convoglio dell’Unione Europea la prima a fuggire. E’ impensabile che Amanullah Khan non sappia e non controlli tutto ciò che accade nella “sua” zona. Proprio per questo, la minaccia di un uomo potente come lui va sempre presa in considerazione. Così, si racconta di trattative tra un emissario del Presidente Karzai ed Amanullah Khan, al termine delle quali quest’ultimo avrebbe rinunciato ai propositi di estendere più a nord la zona di “insicurezza”. Ignoto il prezzo pagato.
Fuori da qualsiasi controllo, invece, la già citata provincia di Helmand, dove si produce un quarto dell’oppio prodotto in Afghanistan. A Helmand c’è una vera industria del papavero, con quattrocentomila addetti tra coltivatori trasportatori e indotto, che alimentano un giro d’affari di quasi cinque miliardi di dollari sul mercato occidentale secondo l’UNDCP, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di lotta alla droga.
Un tempo, il maggior produttore di oppio dell’area era il Pakistan, poi, con la guerra e la necessità di finanziare armi e logistica senza figurare sul bilancio dello Stato. Secondo Rashid: «un immenso commercio di narcotici si sviluppò sotto l’ombrello legittimante della linea di forniture d’armi organizzata dalla CIA e dall’ISI. (....) Come in Vietnam, dove la CIA scelse di ignorare il traffico di droga delle guerriglie anticomuniste che finanziava, così in Afghanistan gli Stati Uniti scelsero di ignorare la crescente collusione tra i mujahiddin, i trafficanti pakistani di droga e settori dell’esercito» (6) .
Il risanamento della situazione che si è così venuta a creare, richiederebbe probabilmente investimenti talmente consistenti, che si sta facendo largo tra i paesi donatori l’idea che stanziare risorse per la lotta all’oppio significherebbe gettare soldi al vento.


La strategia occidentale
in Afghanistan


La questione, tuttavia, è molto complessa. Il vero nodo da sciogliere riguarda la ricostruzione dello Stato- l’Italia è attualmente impegnata nella ricostruzione del sistema giudiziario afghano - per il quale sarebbero necessarie maggiori risorse e, forse, un maggior coordinamento tra i governi impegnati nel Paese che tenga conto di un interesse collettivo della comunità internazionale ancor prima dei singoli interessi nazionali.
Militari e civili operano insieme nelle Provinciai Reconstruction Team (PRT). Le PRT sono costituite su base nazionale e in questo modo, ad esempio, la PRT di Herat a comando italiano è composta da elementi della Cooperazione Italiana e delle Forze Armate italiane e dispone dei finanziamenti stanziati dal Parlamento italiano. Nella provincia di Badghis la PRT è lituana e i finanziamenti sono decisamente più modesti. Queste disparità nelle operazioni di ricostruzione a livello locale sono dovute in gran parte anche al livello di sicurezza che le Forze Armate riescono a garantire. In questo modo si crea una spirale per la quale nelle province del sud, dove ancora si combatte, i cooperanti sono costretti a vivere blindati in strutture protette, con scarsissime uscite sul campo. Di conseguenza l’attività di ricostruzione in quei luoghi langue, il malcontento tra la gente che percepisce sempre la presenza straniera come inutile cresce, e le simpatie per i combattenti talebani aumentano.
Alla base di questa situazione c’è un errore di valutazione di Washington, lo stesso che Donald Rumsfeld ha fatto per l’Iraq: riduzione delle truppe sul territorio al minimo indispensabile.
Oggi ci si rende conto che lo sforzo militare deve essere aumentato se si vuole garantire sviluppo e autonomia alle popolazioni afgane e sarebbe auspicabile, con il prossimo passaggio di consegne di comando alla NATO, anche un maggior coinvolgimento dell’Europa.
L’Afghanistan non sembra essere più nei pensieri di George W. Bush, se non quale serbatoio di risorse da inviare in Iraq. Un possibile e drammatico scenario futuro vede un ulteriore disimpegno statunitense dall’Afghanistan, secondo la logica - del tutto rivolta alle elezioni americane - che in Iraq non si può perdere, mentre l’Afghanistan ha un’importanza relativa e un impatto mediatico decisamente inferiore.
L’uso strumentale delle truppe statunitensi per la politica interna, costringerebbe l’Europa a farsi carico di un’operazione di ‘peacekeeping’ che è al momento impensabile senza gli USA, sebbene un rafforzamento della presenza europea sia auspicabile nel breve termine.


Scenari futuri

L’aumento della presenza militare, però, dovrebbe avvenire all’interno di un ripensamento strategico rivolto anche alla creazione di un network civile per la ricostruzione, in modo da evitare lo spreco di risorse e la disparità degli interventi.
I sostenitori del ritiro incondizionato dall’Afghanistan, invece, non hanno fatto i conti con la situazione reale e con gli scenari che potrebbero profilarsi in un futuro sempre più vicino. Cosa potrebbe succedere con il ritiro delle truppe occidentali o semplicemente con il mantenimento dell’attuale configurazione?
I Jihadisti avrebbero mano libera e, potendo propagandare il ritiro occidentale come vittoria assimilabile a quelle sulle truppe sovietiche, avrebbero estrema facilità per il reclutamento di nuova manovalanza. Ciò si tradurrebbe in una disfatta anche per le Nazioni Unite, il cui Consiglio di Sicurezza ha approvato l’operazione.
Con l’aumento della spinta jihadista, il governo centrale, privato del sostanziale appoggio internazionale, non sarebbe più in grado di garantire i numerosi accordi presi a livello tribale e, poiché la pace e la stabilità sono garantite da tali accordi, è facile immaginare la ripresa di una nuova guerra civile con più fazioni in lotta.
Sul piano internazionale il rafforzamento dei Talebani e dei Jihadisti provocherebbe danni ancora più profondi, a partire dal delicato equilibrio sul quale Pervez Musharaf, Presidente pakistano, fonda il suo potere. Lo scenario peggiore per il Pakistan e per la comunità internazionale, è un colpo di stato islamico in chiave anti-occidentale, che verrebbe causato direttamente dalla destabilizzazione afghana. L’arsenale atomico pakistano cadrebbe in mani poco sicure.
Anche senza ipotizzare una rapida discesa di Musharraf, le ex repubbliche sovietiche confinanti, sorrette da dittatori, verrebbero rafforzate dall’ascesa islamica percepita come una minaccia. Crescerebbe ulteriormente la produzione di oppio e l’eroina invaderebbe i mercati ancora più massicciamente, a tutto vantaggio della criminalità organizzata.
Il ritiro delle truppe, insomma, sarebbe un danno non solo per l’embrione di democrazia che è stato impiantato in Afghanistan - emblematico il fatto che in tre province nelle elezioni del 2005, tre candidate abbiano riportato un plebiscito di voti superiore a qualsiasi uomo - ma sarebbe una disfatta per l’intera comunità internazionale. Un intervento di ‘peacekeeping’ tra qualche anno, dopo un non auspicabile ritiro oggi, non avrebbe più la credibilità sufficiente per agire con incisività. E nel frattempo milioni di persone sarebbero condannate alla sofferenza e alla fame.


foto ansa


(1) I signori della guerra in Afghanistan sono quei potenti locali che, arricchitisi con la guerra, sono riusciti a controllare eserciti privati di migliaia di uomini. Molti di loro hanno dovuto cedere le armi per raggiungere posizioni elevate nel governo, ma escludendo le armi pesanti, la raccolta dell’ONU all’ottobre 2005 era stata prevalentemente di AK47 inutilizzabili, vecchi moschetti dell’inizio del ‘900 ed addirittura alcune carabine ad avancarica.
(2) Sono 17, ad oggi, le guerre combattute in Afghanistan dal 1816. 10 contro eserciti stranieri e 7 guerre civili.
(3) Politi, A. in Nomos & Khaos Rapporto Nomisma 2005 sulle prospettive economico-strategiche, pag. 85.
(4) Testimonianze raccolte da chi scrive nel periodo Giugno-Ottobre 2005 a Herat, Afganistan.
(5) Rashid, A. Afghanistan: Taleban’s second coming, in BBC news ondine http:www//bbc.co.uk
(6) Rashid, A. Taliban. Islam, Oli and the New Great Game in Central Asia, London, 2000.

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