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GNOSIS 4/2006
STORIE DI CASA NOSTRA

Sicilia latitante
quando l'ora si avvicina


articolo redazionale

Il racconto si propone di sondare la complessa e caduca emozione di un latitante siciliano alla vigilia della sua cattura, quando i mille rivoli dell’esperienza che portano con sé i detriti e le piene degli anni più intensi dell’esperienza mafiosa, dal dopoguerra ad oggi, sfociano nella ineludibile fine dettata dalla cattura. Il personaggio, di fantasia anche se strumentalmente indossa la maschera provenzaniana, testimonia il disagio di una generazione mafiosa che ha attraversato le fasi dell’aggressività dei giovani mafiosi del dopoguerra, ribelli al giogo dei boss “antichi”, dell’affermazione violenta e subdola sia all’interno dell’organizzazione sia nel contesto esterno, dell’ipertrofia delirante e terroristica dello scontro allo Stato e del tentativo di mimetizzazione del defilamento successivo degli ultimi tempi. L’Autore, quindi, cerca un’analisi possibile dell’attuale schizofrenia mafiosa, della probabile fine del padrinato. E’ forse il confronto tra vecchia e nuova mafia osservato dagli occhi della prima, entrambe feroci e violente, distinte forse solo dalla storia diversa e irripetibile che apre iati incolmamabili. E’ anche l’immagine mafiosa dell’odio verso il nemico ma nel contempo della necessità di conoscerlo, che è alla base dello spirito dell’analisi e incuriosisce vederlo coltivato dal nemico tra le pareti unte e latitanti dell’ovile.


foto ansa


Tano ha gli occhi chiusi ma non dorme.
L'eco del notiziario della radio scava i suoi pensieri, li confonde e li macera.
"Alle prime luci dell'alba, è stato arrestato per associazione mafiosa Francesco Mileo, l'imprenditore di riferimento del noto latitante Tano Corleo. Nell'operazione, tuttora in corso..."

Negli occhi di Tano danzano già le ombre dei suoi amici stretti da catene sbirre, trascinati in macchine scure con sirene singhiozzanti.
Volti fantasmi che i flash dei giornalisti rapiscono al silenzio della sconfitta.
Avverte anche un cerchio che stringe sul petto, un senso di assedio.
Tornano alla mente le parole di don Ciccio, affidate a un pizzino che ha letto troppe volte.

"… quindi, caro zio, che devo fare di quel cornuto? Non mi avete ancora risposto, conosco i problemi di vossia, non metto fretta. Ma questo cornuto, come sapete già, non sente ragione. E' indemoniato. C'è un via vai di gente forestiera, penso da Roma.
Gli angeli s'accoppiano in cielo, i cornuti in terra. Non si riesce a sapere che vogliano, nemmeno le orecchie amiche sanno cosa fare… Se non si riesce a girare intorno al muro, come pure ho cercato dopo i vostri consigli, occorre forse farlo saltare con il botto? Come invidio i bei tempi! Oggi si ni futtunu di nuatri, o almeno non si scantano più. Se vossia mi fa un cenno… altro che fuochi d'artificio… se vossia mi fa un cenno…"
Ad ogni rilettura, Tano avvertiva lo schianto di don Ciccio, rancido di paura di quel fiato sbirro che non riusciva a evadere.

"compare mio, abbiate fede e pazienza, perché il momento ancora non è dei migliori. Non possiamo aggiungere guai a guai e abbiamo il dovere di pensare anche al domani, che è già incerto. Ci sarà una strada per spuntare le corna. Per ora ci vuole pazienza. Cercate l'ombra e confondetevi dentro quelle macchie invisibili. Non è tempo di festeggiamenti, né con botti né con fuochi d'artificio. Viviamo esistenze difficili, non dimenticatevelo. Dobbiamo pensare anche alle famiglie dei poveri sfortunati condannati dagli infami e sbirri che, si sa, hanno bisogno di calma assai. Il cuore vorrebbe ma la responsabilità mi dice di fermare la tua rabbia e conservarla per un momento migliore. Che Dio vi accompagni e vi faccia stare in salute".

Queste parole, però, non sarebbero giunte a destinazione. Scritte in ritardo, solo qualche giorno prima.

"Cu minchia fici, cu minchia fici, si fici futtiri come nu crastu".

Ora si sente più solo.
Negli ultimi anni ha preso l'abitudine di contare i suoi compari rimasti liberi dopo l'ennesima operazione di polizia. Gli sembra di dissanguarsi, progressiva anemia che indebolisce e ammala i nervi.
La richiesta di don Ciccio di fare il botto non gli appare innaturale.
L'avrebbe voluto, un tempo.
Oggi, non potrebbe acconsentire.

Non vuole botti. Non li vuole più.
Legato all'albero maestro, con la cera nelle orecchie, vuole resistere alle sirene dei falchi della mafia. Preferisce le oblique correnti odissee che non agitano le onde, non irritano gli dei del mare, rallegrano le ninfe ed evitano di scuotere le già deboli zattere dell'organizzazione.

"Calàti, ancora calàti si deve rimanere. Calàti"
Càlati junco quando passa la piena.
Lo ha imparato subito, primo avvertimento dei pugni di terra selvaggia stretti ai suoi vagiti.
Non è passata la piena, i pupi devono rimanere nella sacrestia del teatrino, al buio, senza spettatori e gendarmi.
Troppi resti, detriti infami, fanghiglia.
Troppe paure, troppi i porti chiusi, gli argini assottigliati che fanno tracimare.
Non è il momento di andare in alto mare, di alzare le vele.
Di fare fuochi d'artificio.
Meglio l'attesa.
Quell'attesa che in Sicilia taglia il tempo, sprofonda nei miraggi d'infiniti attimi.
Meglio girare intorno alle cose, senza romperci le corna contro.

Lo scirocco avvolge Tano, tinge il sudore di polvere, stringe il taurino collo dei pensieri che fuggono nei vicoli e nei bagli sotto i carrubi. Macchia la siesta di un lento rancore.
In questa dimensione sospesa Tano si guarda intorno, s'agita sul materasso di lana che la rete trattiene a stento nell'angolo oscuro e basso della stanza.
Accanto, sulla cassa di legno che funge distratta da comodino, s'affollano stretti come schiera macedone una pila di fogli tenuti da un elastico giallo, una bibbia per ancorare al cielo e un libro minuto e consunto che ha l'aria di zavorra.
E' il suo piccolo mondo, stretto al suo fisico malato, alla sua anima logora.
E' la candela con cui sconta la sua volontaria clausura di monaco.
Le dita di Tano scivolano sulle minute coste del libro…
I suoi artigli lo stringono mentre con un colpo di schiena cerca di mettersi seduto.
Quando supera le vertigini che ormai conosce, recuperando un centro fragile di equilibrio, fissa la copertina come un ubriaco.
C'è una macchia di vino sull'immagine di una giacca verde oliva su di un appendiabiti.
Si perde spesso in quella foto essenziale eppure tanto inquietante.
"Azione".
Il titolo è breve come il libro. Eppure il suo peso è un macigno nello stomaco malato.
Tano lascia la presa e il libro gli scivola accanto, sinuoso e invadente.
"Cornuto, tu. Cornuto. Cornuti gli sbirri"

Aveva iniziato a leggerlo a fatica, per curiosità. U dutturi lo aveva portato qualche Natale prima, perché voleva conoscere cosa scrivesse chi aveva perso la testa appresso a lui e ai suoi compagni.
U dutturi era incuriosito e divertito. Molti dottori sono "Cosa Nostra", fratelli e compagni d'avventura. Lo avevano aiutato a tirare avanti quando le speranze di durare su questa terra erano al lumicino.
I dottori sono meccanici del corpo, i maghi della salute. Hanno l'istintiva capacità di metter le mani nei sistemi complessi e incomprensibili. Hanno la voglia antica di stare accanto al potere, come gli stregoni di un tempo. Lui conosce i suoi compari medici e sa da tempo che la salute, proprio la salute che a lui iniziava a mancare, è un bene cui nessuno è disposto a rinunciare. Dal povero al ricco, dal privato allo Stato.
Era grato ai dutturi, si, grato, anche perché, quando altri volgevano le predone mani altrove, gli avevano aperto un mondo di affari che lo aveva reso ricco e potente. I medici, certo, lo avevano siddiato, tavolta, con la loro voglia di potere e di denaro.
Forse conoscono il corpo, sanno prima di tutti che siamo fango…
"zu Tano, avete già letto?"
"Che ho studiato io? No. Io vado lentamente, perché ogni parola è una cifra e penso che non sia messa a caso. Piano piano, devo acchianare piano piano, per trattenere quel gioco cornuto di vipere di chi scrive di mafia."

Avrebbe voluto scrivere un libro anche lui?
Che sciocchezza!
Certo, un boss americano aveva scritto sul mondo di Cosa Nostra di New York. Regole. Organizzazione. Il meschino aveva raccontato la vita che normalmente un mafioso apprende dalla strada. Oppure dalla voce e l'esempio di anziani, di veterani, di antichi sacerdoti di quella che riteneva la religione mafiosa.
Svelando le segrete umide della vita mafiosa, il narciso scrivano armò gli sbirri d'oltreoceano e il potere italoamericano che, tagliando il braccio siciliano sporco di sangue, avrebbe voluto rivendicare una faccia più pulita.
Sorride, pensando all'America, agli spazi immensi che sembrano non finire, senza frontiere, con ogni ben di Dio.
Quell'immensità è stata sempre un ottimo affare. Indispensabile per fare soldi davvero. Soprattutto all'America deve il salto di qualità e di ricchezza di Cosa Nostra negli anni della droga.
Eppure … l'America è… troppo grande. Troppi soldi. Troppi soldati. Troppo di tutto.
Certo, l'odore intenso dei dollari, con cui ha spesso misurato la sua potenza è dolce più della zagara a primavera. Ma non basta. Non può bastare.
Per questo gli piace la figura del boss, del padrino, del seme siciliano che non si perde nella prateria e che germoglia tra i grattacieli di New York con la stessa sanguigna forza di un'arancia spaccata, di un aratro di quercia, di una pietra assolata di Rafuti.
Per questo si diletta a sentire la colonna sonora del film americano sui Corleone.
La musica aiuta a ripercorrere la trama, ogni scena, ogni gesto, anche quello eccessivo che fa sorridere chi la verità la vive ogni giorno. Li mescola ai ricordi. Sfuma i contorni in una dissolvenza che restituisce Marlon Brando, Al Pacino e Duvall ai tratturi della Ficuzza, alla rocca Busambra, alle ginestre divelte ancora in fiore.
Quell'America straniera, né America né Sicilia, eppure conserva i resti di entrambe, tra i fitti orditi in trasparenza.
All'estero Cosa Nostra e Palermo sembrano ancor più grandi, cerchio che ruota ma si spinge sempre verso quel centro mafioso di giuramento, di sangue e di santino.
Lui è siciliano. Di quei siciliani che fanno affari nel mondo, ma che rimangono come polipi attaccati allo scoglio isolano.
Non era nemmeno tanto sceccu da scrivere cose sue. La mafia si vive, non si scrive.
Se fosse stato per lui, avrebbe distrutto anche i pizzini, li avrebbe ingoiati, lasciandoli assorbire nel magma della memoria, semi che fioriscono e si perdono nel frutto.
Eppure… avrebbe voluto quel padrinato mitologico del film!
Eccessivo. Diverso dal tavolo grezzo di campagna di troppe riunioni.
Poi la vita…

Ha inseguito se stesso, trascinato dalla vita. Si è osservato a lungo, adeguandosi alla corrente più veloce, certo di arrivare, alla fine, di arrivare lontano.
Osservare insegna molto. Aiuta a conoscere l'umana debolezza e soprattutto gli anfratti ambigui dell'anima. Non solo di coloro con cui faceva affari. Anche i suoi.
Si è mai perso in quei bugiardi guadi interiori?
Trasformista innato è lesto a indossare l'abito più utile alle scene.
Perché s'accorgano tardi di lui che, quando s'approssima lo sguardo altrui, è già lontano, dall'altra parte dei suoi danni.
Eppure…
Si guarda allo specchio, sfuggente come con i forestieri.
Il riflesso tradisce una frattura. Coglie i segni di quella svolta che divide la sua vita in ere distinte.
"Dove eravate nel 92 ? Dove eravate? Tutti voi, carabinieri o poliziotti comunque la stessa pasta cornuta, dove eravate? E voi, nuovi capi cresciuti nell'allevamento dei quartieri, dove eravate quando la corona sgranava rosari di piombo? Non sapete cosa sia stato. Cosa abbiamo vissuto."
Lo ripete spesso.
Per lui c'è un prima e un dopo il 92, trafitti dalla linea nera di quegli anni.
Nel 92 folle, Cosa Nostra smette il vestito della festa e indossa l'abito da guerra riposto tra le anticaglie di dieci anni prima.
Ricorda bene quel prima, lo rimpiange, quando il potere era il ventaglio che allietava le serate di calura, quando il passo regale dei mafiosi faceva tremare i quartieri, quando la gente ti amava e la lava di cemento bruciava ogni periferia, ogni campagna, lasciando scie di piccioli e occupazione agli amici.
Non c'erano solo minuetti con il potere locale e "baciolemani" diffusi come salamelecchi.
Era pure un tempo violento di assassini impietosi, di barbarie, di violenze. Morti ammazzati reclamavano vendetta. Funzionari dello Stato venivano trucidati. Sindacalisti. Uomini di potere. Sbirri. Tutti in una guerra siciliana, con la presunzione che l'isola fosse il giardino dei principi mafiosi.
Eppure, era ancora il tempo di una mafia che sapeva regolare se stessa prima che il contesto. Era il tempo dei padrini che sapevano dosare il braccio armato, sapevano scegliere il nemico, il tempo e il luogo della battaglia, senza perdersi in campagne smisurate.
Non dispensavano violenza inaccettabile, sapendo bene che la mafia è forte solo quando sostenibile.
"U cuntinenti, cu ci ni futti a nuatri!""
L'ultima inutile resistenza della cupola.
Il dopo... un'anabasi sconfitta di sopravvissuti, un assedio che non finisce.
Sparecchiati i tavolini che funzionavano, divisione equa dei pani e dei pesci, bruciati molti dei rifornimenti, Cosa Nostra si è reinventata, per essere più uguale a se stessa.
Catturati i migliori, restano generali litigiosi, come lo sono gli sconfitti, e pochi picciotti ubriachi di avidità e votati al tradimento.
]

da www.repubblica.it

"Avresti dovuto scrivere prima. Avremmo tutti dovuto studiarvi prima. Invece.. Vi pensavamo più deboli…magari siete diventati forti combattendo con noi…Vi pensavamo più indecisi, soldati guidati da abili pupari. Abbiamo reciso chi avesse i gambi più alti, chi non volesse reclinare il capo, chi non partecipasse al gioco comune dei bravi fratelli. C'è sempre un desco dove sentirsi fratelli, dove dividere gli interessi, dove sentirsi meno soli, dove cercare scorciatoie."
Le labbra si stringono in un conato di stizza.
"Oggi ti leggo e riconosco gli errori. Tu, come altri, poliziotti o carabinieri è la stessa sbirritudine, avete scelto di fare sistema. Non siete più isolati né soli. Invece, ci avete isolato e costretti alla solitudine, al tradimento, alla paura. Perché scontassimo le vertigini che vi abbiamo dato..."
Suda, lo scirocco affanna.
Un tempo lo sopportava. Ora gli manca il respiro.
"chi minchia sei? Sai quanto ti ho cercato? Quanto? Ti avrei fatto a pezzi, per odio, per odio, ma anche perché eri l'immagine che dovevo bruciare per vendetta, per rabbia, per dare voce all'ansia di tutti."
Le labbra sono asciutte di vecchiaia e di sete.
"minchia tu scrivi, non di te ormai, ma di voi tutti, dell'azione. Scrivi la vittoria che pensi incompiuta. Scrivi e dietro ogni parola ti vedo, con il volto coperto, le mani sulle nostre case, gli occhi nelle nostre banche, l'anima rabbiosa e affamata contro di noi. Senza perdere l'equilibrio. Tu scrivi ma con le parole e l'inchiostro di cento altri come te che pazienti tessono la rete che ci stringe, fino a soffocarci".
Avrebbe voluto torturarlo. Per aver tempo di conoscerlo un po'. Intercettare i pensieri. Capire quel meccanismo che aveva inceppato Cosa Nostra, che aveva segnato l'inizio della fine. E' il suo gioco preferito capire gli altri, maieutica siciliana, per sondarne le profondità, l'onestà e la pericolosità.
E' dote di salvezza, il suo ruolo. L'assicurazione per la vita. E' anche la condanna di un uomo solo, superstite di un'età al tramonto che già avverte ciauru 'i tautu.

Vorrebbe sfogliare i pizzini. Vorrebbe incominciare a lavorare. Deve rispondere a tanti, risolvere questioni, sapere cosa accade. Dal suo banchetto sbilenco e sporco di ricotta domina e gestisce il suo sistema sparso in Sicilia e oltre… molto oltre…, ragionando di conti, dividendo potere e affari, stringendo tra le dita l'ultima polvere d'oro nella clessidra traballante.
Non ne ha voglia.
Levitano i pensieri.
Tano si rivede nei ricordi, immagine sbiadita di un privato improbabile, fatica più che mestiere di vivere.
C'è Giuseppina, il suo passo di aquilotto che esce dal nido, con il viso di chi si sia appena svegliata, immersa nei suoi libri che tanto amava.
La vedeva spesso immersa tra le pagine che lui non conosceva, delicata e sicura, con le labbra strette in un leggero morso che segnava il livello d'attenzione.
Gli occhi siciliani sono i più profondi, ti ci perdi, tra sogni e carezze che si effondono nell'aria.
Quando passava accanto con i suoi tacchi affilati come freccia sentiva il cuore battere come prima di un omicidio. Seguiva il ritmo del passo che si perdeva altrove. Già gli mancava.
Da latitante avverte l'assenza delle sue mani minute e sicure, che tanto apprezzava quando stringeva una matita, s'inventava grafi sul foglio, trafiggeva l'aria come una mitraglia. Si sente solo. Senza quella grazia che non ha pari, che adora.
Non rammenta se le abbia detto quanto fosse importante.

I figli, poi. Non sono picciotti.
Non li vuole, non li ha mai voluti picciotti come lui.
Il rischio dei mafiosi è che i figli inizino da viddani, anche se con un grande nome. Viddani di altro tempo, quando anche i viddani facevano paura.
Altri capi si sono orientati diversamente. Lo sa bene lui. Figli importanti. Con una professione dignitosa, che sanno parlare le lingue, che conoscono il computer, che elevano la normalità svelata, così che la notte, nelle caverne ideali dei Beati Paoli, sappiano modernizzare l'organizzazione. Che sappiano aprirsi a sempre nuovi mondi.
Certo, i figli devono imparare il rispetto e la misura. Poi… Quando il nome sarà solo una traccia, un'imbastitura di sarto miope, potranno scegliere in libertà cosa fare del loro sangue.

Dietro al breve privato, stretto tra rocce che lo stritolano e cui forse danno anche un verso, si staglia netta la sua carriera di mafioso.
Oltre i fumetti di cronaca, tutta coppola e lupara, e ancor più lontano dal nebbioso complottismo di maniera e di palazzo, più mascariamento che tragedia, Tano si sente il centro di un universo quotidiano che ha voluto e saputo gestire.
Il passato e il troppo passato, sembrano una sceneggiata napoletana. Per questo adora le musiche partenopee. Riflettono i film tutti passione e coltelli.
C'è tanta verità nell'esasperata macchietta di quel genere cinematografico. Tanta verità, per chi la conosca e vi abbia dedicato una vita.
Il suo successo, invece, è scritto sull'equinozio del vero e del falso.

"Ero giovane, anch'io sono stato giovane. Ma erano altri tempi e quando penso ai nostri giovani mi siddio. Vorrei capirli, ma non ci riesco. Da giovane avevo la guerra addosso, era l'unica cosa oltre la povertà ruvida come la rocca Busambra."
Pensa ai tanti volti del passato.
"Non ero giovane da solo. Eravamo in branco. Siamo cresciuti insieme, amandoci e odiandoci allo stesso modo. Il sangue e l'omicidio ci hanno cementato ma mai come l'odio, la voglia di non stare dietro".
Uno stanco bagliore di scirocco si riflette sull'orlo emaciato del libro.
"Era il tempo della lupara, della paura, della povertà violenta e rabbiosa, dell'aridità che t'asciugava le vene, dei giardini infiniti in cui ti perdevi, delle Madonie inestricabili e irragiungibili."
Maledetta vecchiaia.
Questa distanza dai ricordi offende, ammala, dilania. Allontana da una geografia espropriata e dileggiata che ti appartiene e che da vecchio caglia con tormento, sale in cima alla quartara e trabocca di fiele e malinconia.
Rafuti era contadina, aveva il respiro pieno della terra.
Oggi le città sembrano tutte frazioni di Palermo, il contado è sparito, nell'immensa periferia della provincia. Se ne è andato con la povertà, quando u sceccu dormiva al fianco ed era già una proprietà. Quando dovevi mettere pane sulle spalle per misurarne il peso.
Era facile rubare, contrabbandare. All'aria aperta. Scegliere i muretti degli agguati, il volo dell'attimo che fulminava i cornuti.

Aveva conosciuto presto la latitanza. Come aveva conosciuto presto l'odore del sangue e del potere.

"Minchia, una brigata di scellerati con il futuro negli occhi. Perché sapevamo di non dover sopravvivere, perché la roba che girotondava negli occhi ci appartenesse di più.
Magari anche morendo giovani.
Oggi, scappare ha un altro sapore. Freddo. Sciapito.
Gli spazi sono occupati, il formicaio ti morde il collo, gli sbirri sono ovunque, dentro il telefono, nelle macchine, anche nell'aria, con quegli strumenti infernali che t'ingabbiano con la loro ragnatela invisibile.
Non era così, quando si marciava la notte tra bagli e giardini, tra sassi e tratturi invernali, guardando la polvere delle camionette, delle biciclette e degli stivali degli sbirri. Come si faceva da carusi al tempo degli americani, tra le macerie di una Sicilia che aveva aperto le braccia e le gambe allo straniero. Abbracciava e scappava.
C'era spazio. Quando mancava l'aria, come mancava ai tempi di don Michele, allora dietro la curva la doppietta tagliava i fili della miseria e mandava l'ostacolo al creatore."
S'oscura come nero di seppia.
"Tu perché hai scelto di fare lo sbirro? Quando sei diventato sbirro? Perché tu sei sbirro come io sono mafioso. Non è questione di giustizia, di anagrafe o di forma. E' la malattia dei geni. Pensi di fare il tuo e giorno dopo giorno la voglia di sopravvivere e i fatti della vita si fanno sipario e diventi un teatro in cui puoi solo recitare. Attore di te stesso diventi simbolo di qualcosa di più grande. Qualche volta di diverso. Tornare indietro non è possibile. Ecco perché gli altri ti vogliono morto. Per voltare pagina, per trovare anche loro… meschini… uno spazio, magari quello che hai lasciato e che loro conoscono da spettatori. Se fosse diverso il prezzo, a questi spettatori della domenica farei provare la nostra vita…"
Sorride della complicità con il nemico.
"minchia, li vorrei vedere…"
Sorride di quegli spettatori che conosce, e che immagina pertugiati anche nella parte del nemico.

"Ce ne sono migliori di te, giovani con talento. Bravi. Forse più di te. Ma tu sei il cornuto numero uno. Sai perché? Per merito nostro, di noi che c'eravamo nel fango della guerra, vivi, morti o incarcerati. Si. Perché…."
Tano si alza. Apre lo scuro della finestra. Guarda il pomeriggio siciliano con la malìa di chi vive in cattività. Guarda il cielo opaco e caldo. Guarda lo scirocco scendere sui giardini, quasi a soffocarli. Pensa che quella terra sia sua. Debba essere sua.
"Noi siamo legati come la vittima e il carnefice. Noi siamo reduci nemici che si sono studiati e conosciuti e che vedono nuove armi avanzare al loro posto. Noi siamo un'altra età, spinta dal vuoto che ci segue, da gente che s'arrampica senza salire. Noi abbiamo scorso la vita della guerra, noi siamo stati la guerra. Quando le battaglie non erano mai isolate. Quando i comandanti non guardavano solo l'esito di un assalto. Quando il clamore era il rombo delle lupare e lo squillo delle sirene. Oggi è diverso."

Gli sbirri si sono attrezzati, pensava spesso. Noi ci siamo impoveriti. Divisi. Loro non hanno bisogno di ammazzare. Mandano al 41, che è la morte del mafioso, che recide i tentacoli e rende eunuchi.

Soprattutto, e questo lo irrita di più, con i mezzi invasivi gli sbirri registrano il quotidiano mafioso, lo riducono alla bieca e spesso squallida realtà che dietro la ferocia non trova le luci e i fulgori della mitologia di Cosa Nostra.
La mafia si nutre anche di ciò che la gente pensa essa sia.
Aveva letto qualche carta dei processi. Piena di discussioni, di cunti tra compari. Di quei dialoghi che aveva fatto a migliaia. Eppure… leggerli era diverso.
Rimane sempre basito, disgustato dalla banalità e dalla leggerezza di alcuni. Dall'infingarda doppiezza di altri.
E' irritato, invece, offeso al pensare gli sbirri con la cuffia intenti a ridersela del mafioso sceccu o traditore. Senza onore. Senza faccia.
Poliziotti svelti, pronti a far magie, più leggeri dell'aria.

Un tempo…Il suo passato confonde.
Avevano fatto fortuna. Con il fuoco avevano ripulito Palermo. Potevano mettere le mani sul cemento. Rispettati. Cercati. Onorati.
Negli attacchi era il più bravo, più per la cecità della rabbia che per la luce del coraggio, come un trattore che demolisce i muri, lento e inesorabile.
Era viddano. Puzzava di terra e di sangue.
La testa, intanto, come sul tavolo dell'arrotino, s'affinava come una punta di coltello. Mentre sparava già filava l'ordito della sua carriera.


foto ansa

Navarra. Strage di viale Lazio. Bontade.
Sintesi della sua fuga in avanti. Lastricata di morti e di denaro. Non solo.
Gli anni scorrevano nell'alveo muto di fiumi di soldi. Attraversano la storia d'Italia e la colorano di polvere.
"Minchia, il principe, minchia di crastu".
Odia il principe di Villagrazia. L'aveva odiato con l'orrore e la rabbia di chi si sente diverso e sa che c'erano solo remote speranze di essere come lui, un domani.
Era il Padrino, che aveva trasferito New York nelle strade odorose di Palermo.
Nella diarchia del potere degli anni '80 lui aveva scelto di essere invisibile.
Un passo indietro.
Per guardare meglio.
Per curare le sue tasche, lontano sia dai colpi della trincea avanzata, sia dalle infami retrovie. Circondato non da arditi guerrieri che insanguinano gli angoli delle strade ma da ragionieri come lui, pronti come talpe a scavare nei caveau delle ricchezze.
Il secondo impara presto ad esser doppio, scivoloso, a ritagliare una riserva in cui sopravvivere.
Taliava il suo capo, spesso. Taliava, attraverso lui, l'impero d'argilla che andava costruendo.
Non si era accorto che il mondo cambiava.
Non bastavano le sue mani di viddano, la sua barbara onnipotenza che tanto piaceva ai sopravvissuti, più selezione che elezione della specie mafiosa.
Lo seguiva, certo. Legato al suo destino dalla paura che cementa e che, invecchiando, si veste di saggezza.
"No. Non era un padrino. No. Lui no."
Si scuote come un faggio al vento, lento e silenzioso.
Tocca il nervo scoperto che ogni volta dilania l'anima.
Sarebbe dovuto morire prima.
L'avrebbero ricordato come un mito, forse.
Ora è un ingombro. E' zavorra che non fa volare i pensieri e la fantasia. Che richiama epigoni nostalgici più dei privilegi che dell'identità. Tano ha condiviso con lui la stagione delle bombe, degli attentati, della rabbia per sentenze che resistevano, nonostante tutto, nonostante tutti. Ha colto, però, l'afra deriva del martirio e del suicidio, pensandosi diverso.

"Voi sbirri avete a poco a poco svuotato Cosa Nostra. Avete spezzato le catene con cui la mafia tiene le sue forze.Avete comprato l'anima dei traditori, degli infami, togliendo l'onore e svelando la miseria. Nessuno si guarda più dritto. Nessuno parla e condivide, perché è avvelenato il pane sulle nostre tavole. Sgretolato, il sistema s'allaga come una granita a mezzogiorno. Tanti, che piangevano come miracolati alla punciuta, oggi hanno lo sguardo stupido e mesto, come avessero fatto una minchiata. Minchiata! Disonorati! Comprando i capi, anche i gregari sino all'ultimo soldato hanno ceduto. Anche i nostri pochi sopravvissuti sanno che cederanno, che sono già sull'orlo dell'argine, pronti a saltare il fosso quando la fortuna volta la faccia.
Quel tradimento brucia. Quella magia di un tempo appare come un trucco, la nostra vita una vocazione di criminali senza quei miti che oggi sono inutili fronzoli."

Tano pensa a com'era Cosa Nostra ai tempi dell'onore!
Vile d'agguati, violenta e predona, come sempre.
Sibilo di coltelli e lacci intorno al collo degli amici. Sangue per aprire varchi all'onnivoro appetito dei più.
Eppure… commuoveva il Padrino di Frank Coppola, gli amici erano cosche di una cacocciola, la brigata rispettava, aveva la sicumera dell'eternità.

E' spezzato quell'ordito.
Forse era già sfilato, quando il capo tracciava linee trasversali nella gerarchia e nella geografia rigida di ciascun potere, pretoriana furia dell'onnipotenza. Cedeva la fiducia, s'arrampicava l'edera dell'astuzia pesante nei piedi e nel cuore di Cosa Nostra.
Anche a quel tempo era solo.
Lo sarebbe stato sempre di più.
Prima lo era per scelta, per curare i suoi affari, per conservare uno spazio esclusivo nel magma degli interessi di tutti.
Poi per necessità.
Tragediato. Inseguito da latrati sbirreschi e mafiosi, entrambi oleosi ed eccitati.
Solo come un capo, circondato sempre da tradimenti, incomprensioni, invocazioni.
Oggi, privato della sua rete informativa, vuci che sondano le vie più recondite di Cosa Nostra e che trasferiscono messaggi, auguri e ordini, si sente lontano dal potere che avrebbe voluto.
Si ritrova con la sua bibbia e con il libro del nemico.
Questa solitudine lo rende ieratico, messianico, sempre più oracolo tra litigiose tribù e picciotti con il cuore bonsai e l'avidità di sequoie.

"Pochi. Siamo rimasti pochi. I vecchi. Io, poi, sono il più vecchio, il più incarognito. Tanto che le iene girano intorno, odorano le mie tracce. Zio qui. Zio lì. I miei rispetti. Che Dio ti lasci in salute. Sta minchia. Leggo in loro la stessa ansia che fu mia davanti a Navarra, davanti a Bontade. Magari mi dicono sceccu, scimunitu. Invece, io sono solo stanco di questi anni che pesano, di questo padrinato senza mafia o con la mafia rotta, alla deriva. Vogliono la mia sedia e non sanno quanto sia sconnessa. Guardate fuori. Guardate. Schifiati anche dai picciriddi. L'esercito è fatto di bambini, di gente senza badde. Nemmeno si possono punciri. Ce ne hanno sangue? Prima… prima di gente d'onore, anche cornuta, ce n'era ad ogni strada. Ora t'affidi a qualche giovanotto di buona famiglia… ma… i figli non sono i padri. Gli sbirri a uno a uno se li vanno a prendere. Tutti. Per mandare i pizzini a qualcuno tra poco mi tocca nesciri io stesso. Se ne prendono uno e gli chiedono il nome, quello se la canta dal battesimo all'olio santo.
Prima… prima c'assettavamo ovunque. A sedere pieno. Oggi devi stare attento che la sedia si fa stretta e ti ci devi arrampicare.
Da sempre abbiamo mediato. Più c'è mediazione più c'è potere. Gli uomini, si sa, hanno ciascuno una testa e non è facile farle girare insieme. Ci vuole qualcuno che abbassi qualche testa, che ne alzi altre. In questo è maestra Cosa Nostra. Nel cerchio il mafioso tiene il ritmo. Gli altri, i potenti amici, danzano allegri, sicuri che noi facciamo buona guardia.
Se il gioco piace, se il girotondo accontenta tutti, allora in un modo o nell'altro chi è meno veloce, chi è fuori dal coro sono i giocatori stessi a metterlo da parte. Lo isolano. Prendono le distanze. Se gli esclusi fanno rumore, noi ci pensiamo. I coccodrilli piangono un po' ma il girotondo li risucchia perchè la ruota del mulino dà farina a tutti."

In quel girotondo Cosa Nostra aveva speso le energie migliori.
Aveva stretto le mani per legare ancor più il cerchio.
Chi girerà poi? In quel poi che la sua vecchiaia rende più vicino?
Il pugno di Tano cade sui tasti della macchina da scrivere, che si intrecciano come i suoi pensieri.
"Malacarne! Compare Roberto ha penuria di uomini. Dice, che faccio? Arruolo le sedie? Così siamo? Quando l'acqua scarseggia sale la melma. Senza i pescecani anche i lucci si sentono padrini".
Tano sa bene che la macchina di Cosa Nostra è complessa, che riesce a guidarla per carisma e necessità, ma già ognuno pensa più al suo futuro che a quello dell'organizzazione. Magari illudendo di legare i moventi, di farsi avanti ea fovore di tutti come n'sceccu o e il padrone.
Dopo di lui?
Tutti si preoccupano.
Anche Tano.
"Nel girotondo degli affari questa volta non siamo i più forti. Ma continuerà la giostra e magari da quel cerchio verrà l'investitura, il riconoscimento, la richiesta che legittima un primato…"
Ha urgenza di scrivere.
Fissa per un attimo quel libro, che identifica il volto unitario e indefenito della sbirritudine, dell'assedio a Cosa Nostra che s'espande e s'affina…
"Caro Iano"
E' Sebastiano, l'antico nemico, che ha parole convertite alla pace, che gli mette nell'anima una speranza, tra le tante certezze d'intrigo, da Catania a Palermo, da Messina ad Agrigento.
Tano sorride.
Beffardo e pazzo, come fosse un unto del Signore, doppio e talvolta disumano nella sua ostentata umanità.
I suoi movimenti trattenuti non cancellano l'ansia di non riuscire a mantenere un impero, di cui, in fondo, posseduto solo un simulacro, un ordito sotterraneo e parallelo.
Lui, il migliore dei mediatori, Richelieu mentore di ogni nefandezza ma con le mani strette in una messianica preghiera.
Schiacciato dalla sua intelligenza furba di ragioniere.
"Caro Iano.."
Tano sa di essere il gestore di un meccanismo, che può invitare, consigliare, presagire, che tanti aspettano che sbagli… un errore… magari che sparisca mell'acido o allestero è la stessa cosa….
C'è guerra sul suo cadavere. C'è assedio.
Molti rivendicano appartenenze antiche, vecchi lignaggi per alzare la testa.
Altri vogliono che i privilegi legati al capo arrestato non si perdano e quindi non si perda il potere del detenuto.
Qualcuno ancora spende amicizie per raccattare i resti della tavola.
"Caro Iano"
Vorrebbe dire che sente la notte avvicinarsi, che la musica del Padrino scorre lenta, più lenta del suo passo vecchio.
“Caro Iano… se avete tempo, leggete questo libro…"
Non sa perché lo scrive, ma sente l'anima equorea vagare tra gli scogli di follia.
Fuori, in lontananza, si sente un sordo rumore che s'apparecchia.
Tano si gira. Muove febbrile gli occhi.

La porta si spalanca, lo scirocco asciuga le vene e ha il tempo di vedere solo una casacca della polizia.
Una folata di vento caldo muove le pagine del libro, verso la fine….


foto ansa



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