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GNOSIS 4/2006
Teheran scossa dalla conflittualità interna

La politica iraniana e la variabile 'fazionalismo'


Nicola PEDDE

Mahmood Ahmadinejad ha assunto nel corso degli ultimi mesi un ruolo ed una popolarità inaspettata in larga parte del Medio Oriente, progressivamente trasformandosi un un'icona del sentimento anti-occidentale nell'intera regione, ed ironicamente più nel contesto arabo che non in quello del suo paese. Il programma nucleare iraniano è stato artificialmente trasformato nel punto più importante dell'agenda degli Stati Uniti, dell'Unione Europea e delle Nazioni Unite, mentre il Libano ha dimostrato l'abilità di Teheran nel saper sfruttare una crisi al di fuori dei suoi confini, e nello sviluppare sempre più forti legami con le comunità sciite nel mondo. L'attenzione dei principali attori internazionali, oggi, è tuttavia attratta in larga misura da quello che con ogni probabilità può essere giudicato come un falso obiettivo, o quantomeno un elemento secondario; il programma nucleare iraniano. Al contrario, invece, la reale ragione del sempre più intenso attivismo iraniano è dovuto, in misura maggiore, al crescente e sempre più evidente fazionalismo ai vertici dell'elite della Repubblica Islamica, e non già in un improbabile riproporsi dell'originale - ed anzi accentuato - concetto ispiratore della rivoluzione islamica. Comprendere le reali radici di questo processo di trasformazione interno, e gli obiettivi delle varie fazioni, rappresenta l'unico modo per tracciare un effettivo piano d'azione per diminuire l'influenza negativa del cosiddetto "fattore iraniano". E’ lecito ritenere che attraverso una più mirata indagine sulle dinamiche del problema, invece di eccessive attenzioni e coinvolgimenti sulla questione nucleare, possa essere favorita la soluzione della crisi. Agevolando al tempo stesso la naturale evoluzione di quella che sembra essere la vigilia di una importante trasformazione nel sistema politico della Repubblica Islamica dell'Iran.


foto ansa


Fazionalismo e politica in Iran

Con la vittoria delle cosiddette forze conservatrici tra il 2004 ed il 2005, l'Iran è ritenuto oggi, da una pluralità di esperti, come dominato da un'apparentemente forte e coeso gruppo di esponenti dell'ala radicale e conservatrice che sta conducendo l'Iran in direzione di una oscura forma di neo-khomeinismo.
Questa semplice - ma anche parzialmente erronea - interpretazione rischia di non cogliere la più importante variabile per la comprensione della politica iraniana odierna: il fazionalismo.
È infatti palesemente presente una intensa e crescente conflittualità tra i due principali gruppi di forza del sistema politico iraniano, con l'aggiunta di un ruolo non marginale anche da parte di forze minori ma non per questo ininfluenti.
Da un lato possiamo individuare il gruppo di potere "tradizionale", essenzialmente costituito da una larga porzione di quelli che all'epoca della rivoluzione vennero definiti come i "religiosi combattenti". Oggi non più dominati dalla sola figura della Guida come all'epoca di Khomeini ma, al contrario, in sostanza auto-regolamentati da una struttura collegiale del potere che comprende elementi formali ed informali del complesso sistema istituzionale iraniano. Al vertice di questi individuiamo ancora la Guida (il Rahbar), l'Ayatollah Khamenei, ed un ristretto numero di anziani - e largamente screditati agli occhi dell'opinione pubblica - esponenti del clero asceso al potere all'epoca della rivoluzione.
Dall'altro lato, invece, emerge la nuova generazione del potere. Non si tratta della gioventù che appoggiò il movimento riformista del Presidente Khatami, bensì della generazione del potere politico e militare - essenzialmente composto da laici - proveniente e fortemente radicato all'interno delle istituzioni della Repubblica Islamica.
Questo gruppo è retto essenzialmente attraverso un compromesso di potere adottato da un consorzio di forze sostenuto da un esiguo numero di importanti ed influenti esponenti del clero, come l'Ayatollah Mesbah Yazdi, unitamente ad alcuni tra i principali - ed esperti - rappresentanti di quello che è possibile definire come "l'universo dei Pasdaran". Queste forze sono impegnate in una costante azione politica, premendo dal basso con il vigore di una nuova forza generazionale, e su numerose questioni fondamentali sono in totale disaccordo con la tradizionale concezione del potere così come espressa dal velayat-e faqih.
Ci sono, quindi, due distinti e conflittuali programmi alle spalle di queste due principali forze del panorama politico iraniano. Il gruppo di potere tradizionale composto dal circolo dei "religiosi combattenti", è essenzialmente interessato alla continuità del sistema e persegue questo obiettivo attraverso un parziale isolamento, senza alcuna volontà di provocare mutamenti radicali all'interno del paese e delle istituzioni, beneficiando - quando possibile - degli errori di politica estera nella regione commessi dagli Stati Uniti e più in generale dai paesi occidentali.
Per questo gruppo il programma nucleare potrebbe costituire una risorsa da spendere in termini di influenza regionale. Il programma - come in passato - secondo queste forze andrebbe sviluppato silenziosamente e senza destare clamori di alcun genere, palesando i risultati nelle conoscenze o, ipoteticamente, nel possesso di ordigni, solo nel momento in cui questi siano effettivamente disponibili. Tutto ciò mantenendo il Paese nel suo stato di isolamento parziale e proteggendo la vera ricchezza delle èlite iraniane: il sistema di controllo sul sistema amministrativo ed economico del Paese. In sintesi, la conservazione delle prerogative di un quadro politico dominato da non più di 35/40 influenti esponenti dell'establishment, ognuno dei quali con il suo sistema di potere individuale e di re-distribuzione della ricchezza.
Sul fronte avverso, invece, individuiamo una nuova amalgama di laici, militari e religiosi "puristi", ampiamente supportati da una giovane generazione di tecnocrati e personale militare in larga misura composto da effettivi della Iranian Revolutionary Guard Corp, meglio noto come corpo dei Pasdaran. La raison d'être di queste forze è principalmente legata a due precisi obiettivi: il primo, quello di accedere al potere favorendo una progressiva sostituzione della vecchia generazione di religiosi, ormai non più stimati dall'opinione pubblica e considerati incapaci di fornire risposte alle reali esigenze del paese (questo significa una sostituzione generazionale dell'intero establishment, provocata dal basso ed apertamente orientata in funzione del cambiamento dei tradizionali centri del potere); il secondo, sebbene mai esplicitamente dichiarato, favorire l'eliminazione di quello che, può essere, senza mezzi termini considerato il vero ostacolo per il raggiungimento del primo obiettivo: la graduale trasformazione ed il successivo emendamento della struttura di potere delineata dal velayat-e faqih, favorendo la transizione dalla teocrazia ad un tradizionale presidenzialismo islamico.
Quello che abbiamo potuto osservare durante il primo anno della presidenza di Ahmadinejad, è una costante crescita nella conflittualità tra i due principali blocchi di potere, dopo un breve matrimonio di interesse durante l'ultima fase del mandato presidenziale di Khatami.
La strategia politica di Ahmadinejad è in larga misura impostata sul populismo, attraverso l'estremizzazione dei concetti ispiratori della Repubblica Islamica e con un incremento sostanziale nell'adozione di una retorica aggressiva nei confronti di quella che può essere percepita - soprattutto al di fuori dei confini dell'Iran - come la "madre di tutti i problemi": Israele, o "l'entità sionista" nel gergo ufficiale della politica iraniana. In sintesi, si tratta più di una rivitalizzazione dei concetti espressi a suo tempo da Fardid (famoso filosofo politico tra gli ispiratori delle logiche rivoluzionarie, secondo il quale la violenza costituisce uno strumento fondamentale e necessario del processo di cambiamento) che non di una nuova frontiera politica, con l'aggiunta di una forte impronta nella visione Mahdista, essenzialmente orientata in funzione della pressante necessità di una diffusa e qualificata ostilità al ruolo ed alla figura della Guida.
Tra le più importanti espressioni del suo populismo, Ahmadinejad ha revitalizzato il dibattito sul programma nucleare, trasformandolo definitivamente in una icona dell'orgoglio nazionale e della dignità iraniana.
Dalle scarse e frammentarie informazioni in merito allo sviluppo del programma nucleare iraniano disponibili nel corso degli anni novanta siamo transitati, al contrario oggi, alla completa e dettagliata disponibilità di informazioni sullo sviluppo dello stesso e sulle infrastrutture interessate. E questo non già per un incremento delle attività di SIGINT (Signal Intelligence) o quale conseguenza delle attività clandestine del MEK (Mujahedin-e Kalq), ma grazie invece al ruolo delle stesse forze emergenti dell'ala conservatrice che hanno largamente favorito la diffusione di tutto ciò che un tempo era considerato sensibile e segreto per gli interessi della nazione.


foto ansa

Per queste forze emergenti della compagine conservatrice, lottare contro la struttura tradizionale del potere significa attaccare il sistema spingendone la politica e la retorica al massimo livello possibile. Così facendo, l'essenza dogmatica della retorica rivoluzionaria e quella islamica vengono non solo protette, ma anche trasformate in uno strumento ostile agli interessi delle forze conservatrici tradizionali. Il cambiamento è quindi perseguito attraverso l'esasperazione della stessa retorica dei "religiosi combattenti".
Questo scontro può dunque essere osservato anche come un tentativo concreto di introdurre i concetti di base necessari per un radicale ripensamento della struttura istituzionale del potere iraniano, decisamente puntando in direzione di un emendamento nella natura e nella portata delle funzioni sancite dal velayat-e faqih e al tempo stesso promuovendo una sostituzione generazionale nella rigida struttura teocratica.
Come nel 1980, dunque, l'unica soluzione valida per favorire il cambiamento sembra essere quella dell'isolamento. L'establishment iraniano emergente, quindi, non teme più di tanto per questa ragione un confronto diretto o, anche, uno scontro con l'occidente e con gli Stati Uniti in particolare, ma cerca addirittura di provocarlo. Valutando erroneamente, tuttavia, due importanti fattori: l'imprevedibilità della politica estera statunitense e la sua capacità potenziale di sferrare una nuova operazione militare nella regione.

La definizione della politica estera iraniana ed
il Consiglio Strategico per la Politica estera

Il crescente ruolo del fazionalismo, ed il confronto che ne deriva tra i differenti centri del potere, è particolarmente visibile nell'ambito di tutto ciò che contribuisce a formare ed attuare la politica estera iraniana.
Questa è storicamente il frutto di una mediazione politica ed istituzionale che, ad ogni livello, tende a coinvolgere un gran numero di organi ed apparati all'interno della complessa matrice del potere della Repubblica Islamica dell'Iran.
Non esiste in realtà, né è mai esistito in passato, un processo chiaro e definito per la definizione e la gestione della politica estera. La stessa Costituzione non fornisce elementi chiarificatori in merito, sottolineando anzi il carattere collegiale per la valutazione e la gestione dell'indirizzo della stessa in funzione dell'interesse della nazione.
Storicamente si è sempre cercato di definire le strategie complessive per il perseguimento degli obiettivi di politica estera attraverso il raggiungimento di una sfera di consenso informale tra i principali esponenti del potere politico nazionale. Non già, quindi, attraverso l'emanazione di decreti o la promulgazione di atti ufficiali, quanto invece attraverso la tacita o palese approvazione di una linea generale di indirizzo definita e sostenuta collegialmente.
Sono certamente coinvolti nel processo decisionale, ed in subordine a quello gestionale, almeno quattro tra i principali attori istituzionali del Paese: la Guida, il Presidente, il Governo ed il Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale. Ed è quest'ultimo, in realtà, quello cui sembrerebbe essere stata storicamente demandata la funzione di indirizzo e programmazione della politica estera, apparendo il Consiglio una sorta di organo collegiale rappresentativo delle principali prerogative di potere all'interno della matrice istituzionale iraniana.
Tale procedura è entrata tuttavia in crisi nel corso del doppio mandato presidenziale di Khatami, delineando la formazione di gruppi contrapposti e, più in generale di una doppia e concomitante linea di politica estera. L'una espressa nell'ambito del Governo e del potere riconosciuto al Presidente, l'altra nell'ambito più generico - ma certamente maggiormente dotato sotto il profilo esecutivo - del sistema di controllo della Guida, del Consiglio del Discernimento e del Consiglio dei Guardiani.
Si è assistito costantemente, dalla fine degli anni novanta in poi, ad una gestione della politica estera basata sul forte ed evidente scontro tra centri istituzionali del Paese, con la non infrequente presenza di giudizi e decisioni in netto contrasto tra loro. Non di rado, infatti, decisioni prese e manifestate pubblicamente dal Governo sono state apertamente smentite e, di fatto, vanificate da una successiva pronuncia degli organi istituzionali funzionalmente subordinati alla Guida. Con l'evidente incapacità per gli stranieri di poter comprendere in modo chiaro e, soprattutto, univoco il generale orientamento della politica estera iraniana.
Sebbene apparentemente diversa dopo l'elezione del Presidente Ahmadinejad, la definizione e la gestione odierna della politica estera iraniana continua a rappresentare un'incognita stante la contrapposizione - più o meno palese - tra l'ufficio del Presidente e quello della Guida.
La politica estera del nuovo Presidente si è subito caratterizzata per decisione di indirizzo, asprezza dei toni e chiarezza degli obiettivi. La tradizionale ambiguità politica iraniana ha quindi lasciato spazio ad una decisa e veemente azione di politica estera destinata a chiarire in modo immediato la prevalenza delle scelte presidenziali e di governo rispetto a quelle di ogni altro organo istituzionale del Paese, delineando i contorni di una crisi sempre più evidente con la Guida e gli organi a questa funzionali.
L'elemento di novità rispetto al passato, tuttavia, è stato quello dell'adozione di linee generali decisamente conservatrici ed anzi ancor più rigide rispetto a quelle tradizionalmente adottate in passato in seno all'ala cosiddetta dei conservatori.
In tal modo il Presidente Ahmadinejad ha potuto dettare le linee programmatiche di indirizzo del Governo, senza concedere spazio di manovra alla Guida ed ai gruppi di potere a questa, direttamente o indirettamente, connessi. Definendo una linea politica "dura e pura", di chiara matrice neo-khomeinista, il Presidente ha reso vana ogni azione ostile o contraria alla propria linea politica, esponendo anzi al rischio di biasimo coloro i quali non fossero intenzionati a supportarla.
Un espediente straordinariamente efficace e totalmente inaspettato, che ha colto di sorpresa non tanto - e non già - gli osservatori stranieri, quanto lo stesso tessuto politico iraniano.
La politica estera del Paese dal giugno del 2005 ad oggi, quindi, è stata completamente ridefinita sia in termini di indirizzo che di mera gestione, con l'adozione di quella che apparentemente è sembrata essere l'imposizione di una insensata politica di scontro, attraverso anche una dialettica particolarmente aggressiva ed ostile a tutto campo verso l'esterno.
La politica estera di Ahmadinejad, in realtà, riflette appieno le esigenze di politica interna del Paese ed il complesso e critico andamento delle relazioni tra i principali centri del potere all'interno della Repubblica Islamica. Da una parte, quindi, si è cercato di conseguire il risultato dell'isolamento internazionale soprattutto attraverso una rinnovata retorica di scontro con gli Stati Uniti ed Israele, coadiuvata egregiamente dalle esternazioni circa le modalità generali di gestione del programma nucleare iraniano; dall'altra si è sempre più delineato il margine di una profonda lacerazione all'interno del Paese, laddove la porzione dell'establishment tradizionalmente legata alla Guida ed al gruppo di comando della prima generazione del clero si è vista erodere progressivamente e abilmente, larghi spazi nella definizione delle strategie complessive di indirizzo.


"Centrale nucleare di Bushehr" (foto ansa)

Ed è in questo contesto che, il 25 giugno del 2006, è stato costituito il Consiglio Strategico per la Politica Estera, un nuovo organo destinato a definire e valutare le strategie generali della politica estera iraniana, sottoposto, gerarchicamente, direttamente all'ufficio della Guida.
Il nuovo organo istituzionale (il cui nome in persiano è Shora-yi Rahbordi-yi Ravabet-i Khareji) è stato costituito mediante un decreto emanato per ordine diretto dell'Ayatollah Ali Khamenei, in funzione delle prioritarie necessità di indirizzo della politica estera della Repubblica Islamica dell'Iran. Il ruolo del Consiglio, infatti, dovrebbe essere di ampia portata e destinato a fissare non solo le linee generali della politica estera nazionale ma, soprattutto, favorire un nuovo approccio generale nelle dinamiche di relazione con l'estero ed un più proficuo e strategico utilizzo degli esperti in materia nelle università e nei ministeri iraniani.
Non pochi, tuttavia, hanno letto nella creazione di questo nuovo organo una volontà della Guida di limitare sempre più il ruolo ed il potere del Presidente, sulla cui inesperienza, in materia di politica estera, si è ampiamente dibattuto in seno al Parlamento ed ai maggiori organi istituzionali del Paese. Sembrerebbe poter così delineare, quindi, una strategia per esautorare gradualmente il Presidente ed il governo dalla definizione e dalla gestione delle relazioni internazionali, avocando alla Guida il compito di coordinare attraverso il suo apparato la gestione della politica estera.
Ha colpito soprattutto, con l'istituzione del nuovo organo, l'elencazione degli esperti da nominare alla guida dello stesso. Da Kamal Kharrazi, ex Ministro degli Esteri con il Presidente Khatami, ad Ali Akbar Velayati, predecessore di Kharrazi con il Presidente Rafsanjani, ed oggi stretto collaboratore di Ali Larijani, già a capo del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale. Non ultimo figura tra gli esponenti nominati anche l'ammiraglio Ali Shamkhani, ex alto ufficiale della marina dei Guardiani della Rivoluzione e Ministro della Difesa con il Presidente Khatami. Tutti uomini certamente non legati al gruppo di potere di Ahmadinejad e, anzi, potenzialmente assai ostili all'indirizzo di politica estera del Presidente.
Solo uno dei membri del nuovo organo sembrerebbe potere essere vicino alle posizioni del Presidente. Si tratta di Mohammad Taremi-Rad, l'unico religioso nominato, che è stato in passato il direttore del Centro Iraniano per gli Studi Storici, Ambasciatore in Cina e Arabia Saudita e, soprattutto, ex appartenente al Seminario Haqqani, tradizionale centro del potere degli Hojjati.
Assai complessa la valutazione circa l'effettiva funzione di tale nuovo consiglio. In apparenza non sarebbe necessario un nuovo organo cui delegare i compiti di fatto già assolti dalla mediazione tra i gruppi di potere ed attraverso il ruolo del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, andando anzi in tal modo a complicare di fatto i già farraginosi e complessi meccanismi di determinazione della politica estera iraniana.
In realtà tale nuovo organo potrebbe essere destinato a controbilanciare il ruolo del Presidente, a rappresentare un canale parallelo di dialogo con l'esterno o, alternativamente, fungere da ennesimo organo istituzionale atto a complicare e rendere meno visibile dall'esterno il quadro dei rapporti e della capacità decisionale in termini di politica estera. Funzione quest'ultima non certo nuova né originale nel complesso panorama istituzionale della Repubblica Islamica dell'Iran.

Libano: ha vinto la guerra Hizbollah?
O è l'Iran il vincitore?

Ed anche, quindi, la recente crisi libanese può essere letta come un effetto del fazionalismo iraniano, oltre che come pratica espressione della rinnovata strategia di sicurezza regionale di Teheran.
Il risultato della guerra tra Israele e l'Hizbollah è ancora altamente incerto. Come alcuni analisti hanno correttamente segnalato, la vittoria dell'Hizbollah è oggi più il frutto di una interpretazione occidentale dei fatti, piuttosto che una concreta e reale vittoria sul piano strategico e militare.
L'Hizbollah ha storicamente acquisito un ruolo rilevante in Libano più attraverso l'offerta di infrastrutture e servizi che non per la sua attività militare e politica. Avendo provocato - perché la gran parte dell'opinione pubblica locale è convinta del fatto che il conflitto sia stato chiaramente ed apertamente provocato dall'Hizbollah - la distruzione di una ampia porzione di quanto laboriosamente e faticosamente ricostruito dopo anni di guerra civile, l'evento non è certo stato acclamato come una vittoria da molti libanesi.
L'immagine della gente festosa inneggiante alla vittoria contro l'odiata "entità sionista" è stata in molti casi una “piece” teatrale organizzata e servita ad uso e consumo dei media occidentali e, di quelli europei, in particolare. Molti, in Libano e al di fuori, si domandano chi pagherà il conto della ricostruzione di quanto distrutto durante la breve ma intensa guerra. E la gran parte di questi concordano nel sostenere che sarà l'Iran il principale attore di questo piano di ricostruzione.
Tutto ciò non significa necessariamente che solo l'Iran sia interessato alla ricostruzione del Libano. L'Arabia Saudita e molte fondazioni o gruppi islamici sono certamente pronti ed interessati a partecipare in questo progetto, ma l'Iran cercherà di monopolizzare il programma di ricostruzione capitalizzando la sua influenza su Hizbollah e cercando di agire il più possibile come interlocutore unico. Diminuendo il ruolo e la portata dello sforzo e dell'influenza saudita e della grande rete composta dai finanziatori e dai donatori islamici - in larga misura entità decisamente sconosciute.
Questo provocherà una crescita irreversibile dell'influenza dell'Iran sull'Hizbollah, ma anche un crescente timore ad ogni livello della vita politica e sociale libanese per il rischio di una eccessiva sudditanza in politica interna nei confronti del partito Sciita. In altre parole, al momento sembra chiaro come lo scontro tra Israele e l'Hizbollah abbia generato -sebbene momentaneamente- un solo vincitore: la repubblica Islamica dell'Iran.
Con l'acuirsi della crisi, l'Iran è stato in grado di promuovere la sua fiera retorica sulla questione nucleare, senza concedere alcuna possibilità all'occidente e perfino umiliando la missione del Segretario delle Nazioni Unite a Teheran Kofi Annan, al tempo stesso allontanando lo spettro di una escalation nella regione del Golfo.
Nessuno, peraltro, in occidente sembra quindi in grado di interpretare e comprendere l'intricata matassa delle logiche di confrontazione del sistema politico iraniano, in tal modo concedendo all'Iran di perseguire i suoi oscuri obiettivi: isolare il Paese in modo da favorire la determinazione di un nuovo ordine interno ed una nuova strategia di sicurezza regionale.
E l'esito di questa complessa crisi libanese ha dimostrato che la strategia di sicurezza iraniana è efficace e di successo. Mobilitando un flusso sotterraneo di supporto attraverso le varie comunità Sciite nel Medio Oriente è possibile minacciare concretamente l'intera regione.


Il programma nucleare: vero o falso obiettivo?
Un rischio per l'Europa e per gli Stati Uniti


Senza entrare nel merito circa la natura ed il potenziale del programma nucleare iraniano, sia sotto l'aspetto degli sviluppi civili e pacifici che militari, ma esclusivamente considerando come sia stato - ed è - gestito dall'establishment iraniano, risulta opportuno valutare con attenzione alcuni fatti.
La questione del nucleare è stata, ed ancora lo è oggi, il collante della società e la bandiera della politica estera iraniana ad ogni livello ed in ogni contesto. Gradualmente trasformata nella sola questione oggetto di dibattito con l'Iran, massimizzando l'effetto del suo potenziale e della sua reale struttura, è divenuta la più pubblicizzata e, pubblicamente, trattata faccenda tra tutte le questioni iraniane. E questo non solo a causa delle investigazioni straniere o per le rivelazioni delle forze di opposizione al governo di Teheran, bensì per la gran mole di dati ed informazioni apertamente trasmesse da fonti locali ad una assetata stampa ed opinione pubblica internazionale.
Il modo in cui l'Iran ha condotto il dialogo sulla questione nucleare a livello internazionale, sia con entità singole che con le Nazioni Unite, ha chiaramente dimostrato solo un fattore: non ci sono aperture su questa faccenda da parte dell'Iran o almeno non ci sono nella misura in cui oggi possano interessare a Teheran.
È stato quindi quello del nucleare, senza mezzi termini, un abile e riuscito sistema per incardinare l'intera dimensione delle relazioni internazionali nell'ambito di un meccanismo ad imbuto che ha concesso molto poco spazio ad ogni altro argomento di discussione. Un sistema, in sintesi, nel quale ci si è serviti del nucleare più come pretesto che non in ragione di un reale ed effettivo obiettivo nazionale.
Il "fattore nucleare" ha quindi svolto - e tuttora svolge - il suo ruolo sia all'interno che all'esterno del paese. All'interno ha assunto proporzioni gigantesche il grado di supporto per il programma nucleare da parte dell'opinione pubblica locale, laddove il consenso in funzione dell'accesso del Paese alle specifiche tecnologie è diventato una questione di orgoglio nazionale al quale nessuno - nemmeno i più accaniti oppositori del governo e della Repubblica Islamica - sembrano oggi essere disposti a rinunciare.


foto ansa

Sul versante delle relazioni internazionali, al contrario, lo sviluppo del progetto atomico ha rappresentato il migliore e più efficace sistema per avviare un meccanismo di relazioni a singhiozzo e, soprattutto, per innescare un processo volutamente ambiguo e contraddittorio con l'Europa.
Consci dell'indisponibilità europea, russa e cinese nell'affrontare con gli Stati Uniti lo spinoso tema dell'inasprimento delle sanzioni, i vertici iraniani hanno abilmente gestito una logorante trattativa apparentemente senza uscita e caratterizzata da continue contraddizioni. Così facendo l'Iran ha ottenuto un vantaggio in termini di tempo e, soprattutto, ha favorito le condizioni per la determinazione di quell'isolamento internazionale così agognato in alcuni circoli dell'establishment iraniano.
È quindi assai complessa ed articolata, oggi, la posizione di tutte le nazioni impegnate nel processo di negoziazione con l'Iran.
Attribuire eccessivo peso al fattore nucleare, rischia di innescare un meccanismo non solo improduttivo ma, anzi, di rafforzamento per la politica iraniana. Con il rischio, non certo minimo, di provocare una dèbacle politica per la capacità negoziale europea e, peggio ancora, alimentando sul fronte statunitense il dibattito circa l'opportunità di una ipotetica - quanto sciaguratamente nefasta, nel caso - soluzione militare per risolvere il problema.
Aprire un tavolo negoziale meno costretto e di più ampio respiro, con l'evidente diminuzione della rilevanza del fattore nucleare, sembra tuttavia non essere un'opzione facilmente perseguibile. Spostare i termini della negoziazione con l'Iran su un piano differente da quello attuale, infatti, sembra essere percepito, sia in Europa che negli Stati Uniti, al pari di una sconfitta sul piano diplomatico. Quasi si trattasse di una implicita autorizzazione all'Iran nel perseguire il proprio programma in modo autonomo e senza condizioni e, di fatto, ammettendo l'incapacità negoziale dimostrata nel corso degli ultimi due anni.
Un problema assai complesso, quindi, nel quale si innesca una sempre maggiore difficoltà nel dialogo tra l'Europa e gli Stati Uniti e dove la marginalizzazione di questi ultimi nella definizione delle politiche regionali potrebbe provocare una ulteriore rischiosa deriva nei confronti della strategia da adottare per la soluzione dei problemi con l'Iran.
È quindi necessario che la politica europea, per il tramite dei suoi delegati ufficiali e non in ordine sparso come di consueto, cerchi non solo di definire una strategia comune ma, soprattutto, coinvolga gli Stati Uniti in direzione di una soluzione bilateralmente ritenuta idonea e congiuntamente supportata.


La prossima sfida della politica iraniana

Il 15 dicembre del 2006, gli iraniani saranno chiamati alle urne per eleggere la nuova composizione dell'Assemblea degli Esperti. Tale organo collegiale, il cui rinnovo delle cariche è previsto tramite elezioni pubbliche, ogni otto anni, è un tassello fondamentale dell'architettura istituzionale progettata dall'Ayatollah Khomeini attraverso il velayat-e faqih.

Natura e funzioni dell'Assemblea degli Esperti
L'Assemblea degli Esperti, Majlis-e Kohbregan, è composta da 86 religiosi scelti tra una rosa di candidati "virtuosi ed istruiti" in materia di religione, diritto e tradizione islamica. L'Assemblea resta in carica per otto anni ed ha una primaria funzione politica ed istituzionale: eleggere la Guida (Rahbar) e riconfermarla periodicamente di fatto entrando nel merito e giudicando, sull'operato di questa.


foto ansa

Nonostante l'Assemblea sia scelta pubblicamente dagli elettori, ai sensi dell'art.99 della Costituzione della Repubblica Islamica dell'Iran, i candidati debbono essere -come nel caso del Parlamento e del Presidente- approvati preventivamente dal Consiglio dei Guardiani. Questo implica, come sempre, un accesso al processo selettivo solo nell'ambito di una rosa predeterminata e qualificata sotto il profilo non solo - e non tanto - delle competenze religiose, quanto, soprattutto, di fedeltà ed osservanza ai principi ispiratori della Repubblica Islamica.
La particolarità dell'Assemblea degli Esperti è data dal peculiare e oscuro, sistema di organizzazione e di giudizio dell'organo. Le riunioni si tengono rigorosamente a porte chiuse e solo raramente trapelano indiscrezioni circa il contenuto dei dibattiti.
In linea puramente teorica, oltre all'elezione della Guida nell'ambito del proprio consesso, l'Assemblea dovrebbe riunirsi periodicamente per valutare e giudicare l'operato della Guida, valutarne collegialmente le scelte e, infine, riconfermarla mediante votazione. Non è tuttavia noto quale sia il processo interno di selezione e conferma, essendo il regolamento dell'Assemblea stabilito dalla stessa in seduta segreta. Non è, quindi, possibile valutare quale debba essere il reale grado di coesione interna durante tale scelta.
Ciò che è noto, sebbene in modo assai vago, è la tempistica di tale giudizio, che l'Assemblea deve esprimere "di continuo". Tale agenda, tuttavia, mal si concilia con la disposizione legislativa che impone all'Assemblea di riunirsi una volta all'anno, non potendosi comprendere come un giudizio ed una valutazione "continua" sull'operato possa essere esercitata riunendosi ad intervalli così distanti tra loro.
La sede dell'Assemblea è a Qom, dove per legge si dovrebbero tenere le riunioni periodiche, sebbene in realtà sia ormai prassi che queste siano svolte a Teheran e solo coordinate dalla segreteria basata nella città santa a sud della capitale.
Il fatto di non rispettare l'obbligo di riunione a Qom è dovuto essenzialmente a due ragioni. La prima è una questione di mera opportunità logistica del sistema di potere, certamente interessato a mantenere a Teheran il centro di ogni attività strategica. La seconda è, invece, derivante dalla consapevolezza da parte di molti membri dell'Assemblea, che Qom sia sotto molti aspetti una "piazza ostile". Un luogo, quindi, dove molti religiosi ed alcuni tra i principali esponenti del clero sciita considerano l'Assemblea e l'impianto giuridico, da cui questa discende, una pura e semplice eresia.
Stabilire quindi a Qom il luogo di incontro dell'Assemblea, potrebbe provocare l'esasperazione dei toni critici già largamente presenti all'interno delle strutture del clero e, soprattutto, potrebbe provocare un conflitto gerarchico senza precedenti e dal difficile esito qualora si innescasse un concreto e reale confronto tra l'Assemblea ed il clero locale.
Non sussiste alcuna forma di preclusione, per i membri dell'Assemblea degli Esperti, nel continuare a svolgere la propria professione, sia questa prettamente religiosa, che istituzionale. In tal modo, la gran parte di loro ricopre altri incarichi istituzionali o di governo, consentendo di fatto ai più di confrontarsi costantemente anche in sedi diverse da quelle dell'Assemblea e, soprattutto, di essere attivamente impegnati nel processo di costruzione della propria sfera di influenza politica. Anche al fine di esercitare un ruolo sempre maggiore in seno al consesso dell'Assemblea.

Il potenziale dell'Assemblea degli Esperti
Essendo un organo chiamato straordinariamente ad eleggere la Guida e, ordinariamente, a giudicarne l'operato, ne consegue che all'Assemblea degli Esperti compete un ruolo ed un potere virtualmente illimitato.
In realtà l'Assemblea ha sempre funto da "legittimatore" e da camera di compensazione del sistema di sinergia politica iraniano, senza mai rappresentare un centro reale ed alternativo di potere.
Creato per espressa volontà dall'Ayatollah Khomeini per decidere la prima formula della carta costituzionale iraniana, e volutamente imposto come struttura di ridotte dimensioni ed agile operatività per impedire il sorgere di una costituente tradizionale, la prima Assemblea degli Esperti venne sciolta dopo la promulgazione della prima versione della Costituzione iraniana, per essere ricostituita secondo l'attuale struttura - rigorosamente ed esclusivamente composta da religiosi - solo nel 1982.
Sotto l'influenza di Khomeini, fu chiaramente impossibile esprimere pareri negativi circa l'operato della Guida da parte dell'Assemblea, e l'organo assolse essenzialmente un compito meramente simbolico. Uno strumento, in sintesi, atto a legittimare ulteriormente non tanto il ruolo quanto la figura della Guida.
Ben diverso fu il sistema successivamente alla morte di Khomeini, quando l'intera struttura del potere venne a subire una trasformazione non già nell'architettura, quanto nella logica di funzionamento. La Guida, infatti, perse il ruolo carismatico e dogmatico posseduto dal "padre della Rivoluzione" e si trasformò nel vertice di un sistema di potere gestito, da allora in poi, collegialmente da una sorta di sinarchia religiosa.
L'Assemblea degli Esperti divenne quindi una sorta di parlamento superiore, dove segretamente venivano negoziate e concordate le strategie tra i centri ed i gruppi del potere e, dove senza clamori e pubblicità si componevano le discrepanze ai vertici del sistema.
L'Assemblea ha quindi svolto, sino ad oggi, un ruolo meramente fittizio sotto il profilo della valutazione della Guida e, altamente efficace, invece, in termini di negoziazione, nel segno della continuità e, soprattutto, agendo da pilastro per il velayat-e faqih.
In linea puramente teorica, in conclusione, l'Assemblea avrebbe il potere di squalificare la Guida - mettendo in tal modo apertamente in discussione le stesse fondamenta istituzionali della Repubblica Islamica - ed addirittura di rimuoverla. Qualora questo avvenisse, la Costituzione prevede un interregnum, in attesa della nomina di una nuova Guida da parte dell'Assemblea, in cui le funzioni della stessa sono temporaneamente attribuite ad un consiglio composto dal Presidente della Repubblica, dal vertice del potere giudiziario e da un giurista esperto (faqih) del Consiglio dei Guardiani, scelto e nominato quest'ultimo dal Consiglio del Discernimento (Majma-e Tashkhis-e Maslahate-e Nezam).

Le elezioni del 2006
Già posticipate due volte, rispetto alla data originariamente prevista per ottobre, le elezioni dell'Assemblea degli Esperti per il 2006 si preannunciano potenzialmente determinanti per i futuri assetti del Paese.
Nel 1998, nella precedente tornata di elezioni, l'affluenza alle urne fu particolarmente bassa, con la partecipazione del solo 46% degli aventi diritto. Gli elettori dimostrarono apertamente, in tale occasione, la loro opposizione al ruolo ed all'operato dell'Assemblea, disertando largamente i seggi e dimostrando, al tempo stesso, il desiderio di rafforzare l'allora presidente Khatami (alle elezioni presidenziali del 1997 l'affluenza alle urne raggiunse quasi l'80%).
È difficile oggi stabilire quale potrà essere l'affluenza alle urne, ma alcuni indicatori rendono le elezioni del 2006 particolarmente significative e, quindi, potenzialmente atte ad attrarre elettori alle urne.
Due le principali ragioni di interesse in merito alle elezioni per l'Assemblea: la sua futura composizione (da cui si potrà vedere con maggiore chiarezza quale delle anime politiche del Paese sarà da dicembre in grado di esercitare il reale controllo del potere) e la presidenza del consesso (in base al quale sarà possibile prevedere - o azzardare - l'indirizzo generale dell'Assemblea).
La prima fondamentale valutazione, quindi, riguarda l'identità e la capacità di conquistare seggi da parte dei vari gruppi di potere in competizione.
In apparenza lo scontro potrebbe sembrare limitato alla figura e, alla sfera di influenza, dell'ex Presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e quella dell'Ayatollah Mohammad Taqi Mesbah Yazdi, religioso ultraconservatore e dai più riconosciuto quale vertice dell'Hojjatieh.


"Ali Akbar Hashemi Rafsanjani" (foto ansa)

Certamente una rivalità ed una competizione tra i due è presente. Ritenere tuttavia che la natura dello scontro sia essenzialmente limitata a queste due parti è riduttivo ed erroneo.
Rafsanjani, dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2005, ha più volte manifestato pubblicamente il suo desiderio di non essere coinvolto nella mischia della competizione politica, sebbene resti sempre uno dei principali personaggi del sistema di potere della Repubblica Islamica dell'Iran. L'accusa solitamente mossa a Rafsanjani, anche da ampie fasce dell'opinione pubblica, è quella di essere un elemento cardine del sistema e non un innovatore o, addirittura, un riformatore. Un pragmatico, quindi, ampiamente interessato al proprio tornaconto politico - e non solo - e dai più visto come uno strumento per la continuità del Paese secondo le linee guida dettate dal velayat-e faqih e dall'establishment tradizionale. Non ultimo pesano su Rafsanjani accuse, più o meno pubbliche e circostanziate, di corruzione ed accentramento del potere.
Mesbah Yazdi rappresenta invece l'incognita del futuro iraniano.
Dai molti visto come un religioso ultraconservatore e fondamentalista e, non ultimo, a capo della disciolta - ma non più illegale - società dell'Hojjatieh, vera e propria setta sorta nei primi anni cinquanta in funzione anti-Baha-i e tradizionalmente contraria al velayat-e faqih. Le accuse mosse contro Yazdi sono essenzialmente connesse alla rigida visione religiosa ed in funzione di una presunta capacità di lobbying attraverso l'influenza su diversi esponenti del sistema politico. Non ultimo il Presidente Mahmood Ahmadinejad.
I due religiosi, tuttavia, sono in realtà parte di un più complesso ed articolato scontro politico in atto nella Repubblica Islamica. Uno scontro sorto all'indomani della vittoria delle forze conservatrici - tra il 2004 ed il 2005 con le elezioni politiche e quelle presidenziali - ed espressione del fatto che la sinergia tra tali forze fu resa possibile solo in funzione dell'impegno elettorale anti-riformista.
Emerge, infatti, oggi con una certa chiarezza una profonda lacerazione all'interno della compagine conservatrice, con motivazioni e ragioni che affondano le loro radici nella concezione stessa della Repubblica Islamica e del potere.
Dopo una lunga esperienza militare prima e politica poi, sono oggi ascesi alle soglie del sistema politico iraniano gli uomini della generazione post-rivoluzionaria, sia religiosi che laici e, questa generazione ha maturato e plasmato un eterogeneo sistema di interessi e relazioni completamente differente rispetto a quello della tradizionale cerchia del "clero combattente", ovvero gli artefici della Repubblica Islamica.
Oggi il sistema e la struttura istituzionale sono sempre più divisi e coinvolti nel crescente fazionalismo che sta apertamente contrapponendo la generazione al comando con una parte di quella emergente, e complessi appaiono - almeno in apparenza - gli espedienti per il mantenimento dello status quo.
Soprattutto quando gli equilibri della generazione storica del potere si presentano in modo alquanto ambiguo anche agli occhi dell'opinione pubblica.
Di certo, a dispetto dell'artificiale idillio mediatico tra il Presidente e la Guida, esistono oggi profonde divergenze nella concezione dello Stato e della sua politica di indirizzo.
Il Presidente deve rispondere con sempre maggiore frequenza agli insidiosi tranelli posti sul suo cammino da una cerchia apertamente ostile alla sua politica e, soprattutto, alla dimensione delle sue relazioni personali, politiche e spirituali.
In questo contesto, la figura della Guida appare certamente non già e non più come una figura super partes, bensì come un tassello apertamente schierato a sostenere un ridimensionamento della politica e del ruolo del Presidente. Attraverso l'adozione di provvedimenti - direttamente ed indirettamente - destinati a vanificarne l'operato politico, mediante la costituzione di funzioni politiche ed amministrative e, non ultimo, mediante la costituzione di schieramenti antagonisti e di azioni direttamente mirate a screditarne pubblicamente la reputazione ed il prestigio.
In tale contesto, quindi, la Guida appare oggi come saldamente al comando di una compagine tuttavia sempre più ristretta e minacciata su due fronti: dal basso, dall'emergere di una nuova generazione del potere supportata dalle frange più radicali del clero e orizzontalmente, dalla schiera dei riformisti e dal pragmatico Rafsanjani. Con l'aggiunta della tradizionale e storica opposizione del clero d'alto rango, quello che da sempre ha messo in discussione il principio ispiratore stesso della Repubblica Islamica è l'imposizione di un vertice clericale in un sistema che ne è storicamente privo.
Per ovviare a tale complessa e potenzialmente pericolosa condizione, quindi, la Guida e l'establishment di cui la stessa è parte integrante, hanno adottato, già da alcuni mesi, una strategia essenzialmente orientata a porre in contrapposizione i due principali fulcri dell'opposizione. In tal modo, quindi, lo scontro in atto ha preso le sembianze - soprattutto agli occhi della stampa occidentale - di un mero conflitto tra due contendenti, trascurando, invece, la dimensione complessiva del problema e, soprattutto, il rapporto critico delle forze politiche e religiose con l'establishment e la Guida.



Conclusioni


In dicembre, certamente, la competizione per le elezioni all'Assemblea degli Esperti sarà accesa e non priva di sorprese. Oggi la gran parte degli osservatori, sia interni che esterni al Paese, vede difficilmente possibile - se non impossibile - la vittoria di Mesbah Yazdi e del suo gruppo in seno all'Assemblea. Così come viene giudicata una possibilità difficilmente realizzabile quella di una scalata ostile al controllo dell'Assemblea e, di fatto, l'instaurazione di un sistema direttamente teso a minacciare la Guida, il suo operato e, ipoteticamente, il suo ruolo istituzionale.
È doveroso segnalare, tuttavia, come l'Iran ci abbia abituato nel recente passato a sorprese inaspettate, come la vittoria del Presidente Ahmadinejad e l'apparente radicale mutamento di tendenza in seno all'opinione pubblica iraniana.
Ed è proprio quest'ultima la variabile determinante del futuro prossimo venturo dell'Iran.
La Repubblica Islamica è profondamente cambiata rispetto alla sua natura originaria. Una nuova leva di tecnocrati sta lentamente guadagnando le principali posizioni del potere, quale conseguenza di un lento e naturale processo di sostituzione generazionale all'interno delle istituzioni e del sistema economico.
Una sterminata nuova e giovane generazione spinge, al contempo, sul fronte dell'opinione pubblica, nel momento in cui nuovamente - a dispetto degli ingenti introiti petroliferi di questi ultimi due anni - i problemi strutturali dell'economia e della capacità occupazionale dell'Iran tornano a minacciare direttamente la programmazione economica ed infrastrutturale.
E, soprattutto, l'opinione pubblica appare sempre meno disposta a concedere tempi e spazi alla tradizionale retorica della politica locale, aprendo al contrario - come nel caso delle elezioni di Ahmadinejad - alle opzioni apparentemente più radicali ma certamente percepite come reali spinte in direzione del cambiamento.


foto ansa



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