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GNOSIS 4/2006
Pragmatico all'interno - internazionalista all'estero

La strategia del Giappone contro il terrorismo


Luigi RAFFONE

C'è stato un tempo, non così lontano, in cui la società giapponese aveva catturato l'attenzione degli analisti occidentali. Non si trattava soltanto della esigenza di conoscere un sistema che, in economia, si riteneva unico nel mondo, ma c'era qualcosa in più, che andava oltre il fascino esotico della terra del Sol Levante. La cultura giapponese si stava dimostrando in grado di adottare alcuni degli schemi occidentali e di salvaguardare gelosamente, numerose proprie caratteristiche: questo mix rendeva il sistema particolarmente efficace. Agli occhi dei politici e dei sociologi occidentali, il Giappone poteva costituire l'esempio di una alternativa di sviluppo possibile. Oggi la situazione è cambiata: mentre altri sistemi hanno catturato la nostra attenzione, il Giappone ha evidenziato molti limiti, differenze difficili da comprendere. Tra queste ve ne sono diverse che riguardano le strategie di gestione del sistema della sicurezza. L'articolo propone, a questo proposito, una analisi degli strumenti adottati in quella terra per ostacolare le diverse forme di terrorismo. Le differenze tra quanto accade in Europa e le dinamiche del Sol Levante sono così evidenti da imporre interessanti riflessioni.


foto ansa


Gli attentati terroristici dell'11 Settembre 2001 hanno avuto un notevole impatto sulla percezione della sicurezza in tutti i paesi del mondo. Il terrorismo non è certo un fenomeno nuovo: gli avvenimenti del "nine-eleven" hanno avuto l'effetto di modificare la percezione e la concezione della sicurezza nazionale, ponendo l'attenzione su temi prima sottovalutati o ignorati. La minaccia terroristica è balzata in cima all'agenda delle priorità, per le agenzie di difesa di gran parte degli stati sulla terra.
La strategia antiterrorismo utilizzata dalle potenze occidentali, in particolare dagli Stati Uniti, consiste principalmente nell'utilizzo di azioni di forza dimostrativa, come rappresaglia o come strumento di pressione contro governi e gruppi non statali.
Le dimensioni raggiunte dalla "guerra al terrorismo", che ha portato all'invasione di ben due Stati nel giro di un anno e mezzo, sono senza precedenti, ma ad un'analisi attenta ai principi già adottati in precedenza.
In questo articolo, cercherò di mostrare come la strategia antiterroristica del Giappone si discosti da quella delle maggiori potenze occidentali. Vedremo che il paradigma utilizzato dal governo giapponese è quello del pragmatismocase-by-case e della strategia diplomatica ad ampio respiro, di stampo internazionalista. Evidenzieremo, dunque, le strutture interne che si occupano del "crisis management" e la filosofia di lotta al terrorismo del Giappone.
Poi, esamineremo nel concreto i due casi di attacco terroristico più eclatanti avvenuti in Giappone: il caso della Aum Shinrikyo e quello dei Tupac Amaru. Infine vedremo i cambiamenti nella strategia giapponese in seguito a questi avvenimenti e, in particolare, in seguito agli attentati dell'undici Settembre.
Seguendo una linea di continuità con le politiche tradizionali di controterrorismo, il Giappone ha teso a migliorare da un lato la capacità di risposta alle crisi, incluse quelle legate ai disastri naturali, dall'altro la collaborazione internazionale nei settori di intelligence e di polizia.


Counter-terrorism in Giappone

In Giappone il terrorismo è percepito come un problema nel più vasto campo del "crisis management". Non esiste un quadro legale o esecutivo che si occupi esclusivamente di controterrorismo, bensì tali attività sono inserite in un contesto più ampio. L'autorità preposta è l'Agenzia Nazionale di Polizia (ANP - keisatsuchô) sotto la supervisione della Commissione Nazionale di Pubblica Sicurezza.
L'ANP si occupa di un ampio spettro di attività legate alla sicurezza: dalla gestione del traffico autostradale, alla risposta nel caso di disastri e catastrofi naturali.
Il terrorismo viene dunque inquadrato nel sistema di lotta al crimine, prediligendo, nel caso del terrorismo internazionale, la collaborazione e lo scambio di informazioni con le organizzazioni di polizia straniere. Si preferisce, inoltre, una gestione caso per caso, dando massima priorità alla salvaguardia delle vittime, piuttosto che alla repressione dei terroristi. Le autorità giapponesi, come nel caso di una catastrofe naturale, si attivano per limitare la perdita di vite umane, lasciando alle autorità giudiziarie il compito di giudicare e punire i responsabili.
Indicativa è l'inesistenza di un organismo specifico di antiterrorismo, presente in Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti, anche se le recenti crisi, hanno spinto all'istituzione di una Squadra Speciale di Assalto, con elevate capacità di intervento armato e di raccolta delle informazioni (1) Le crisi legate al terrorismo che coinvolgono cittadini giapponesi all'estero sono, inoltre, gestite dall'Ufficio Speciale per i Cittadini Giapponesi (giap. hôjin tokubetsu seisakushitsu) in seno alla struttura del Ministero degli Affari Esteri (gaimushô).
Come ha evidenziato David Leheny, professore di Studi dell'Asia Orientale nel Dipartimento di Scienze Politiche all'Università del Wisconsin, il Giappone ha preferito evitare una politica rigida di anti-terrorismo, cercando piuttosto di tutelare ad ogni costo la salvaguardia dei propri cittadini coinvolti. Ciò ha portato quasi sempre al negoziato con i terroristi (2) .
Nel caso del dirottamento aereo da parte dell'Armata Rossa Giapponese (ARG) del 1977, ad esempio, fu pagato un riscatto di 6 milioni di dollari, pur di assicurare il rilascio degli ostaggi. Benché dal 1996 abbia aderito alle convenzioni internazionali contro il terrorismo e adottato il principio di "nessuna concessione" nelle trattative con i terroristi, sembra che in seguito sia stato fatto ugualmente ricorso al pagamento dei riscatti.
Anche le compagnie giapponesi sono pronte ad intervenire in aiuto dei propri dipendenti presi in ostaggio, accondiscendendo alle richieste dei rapitori. Nel 1996, ad esempio, il signor Konno, presidente della filiale americana della Sanyo Video Components (SVC), fu preso in ostaggio mentre era in Messico, dove erano situate numerose fabbriche della ditta. La compagnia entrò prontamente in azione per ottenerne il rilascio, dietro il pagamento di due milioni di dollari. Allo stesso modo il governo è intervenuto per salvare quattro geologi in Kyrgystan e tre cittadini in Iraq (3) .
Sebbene intuitivamente il pagamento dei riscatti creerebbe un circolo vizioso, volto all'aumento di rapimenti e di rapitori, non sembra esserci corrispondenza statistica tra l'accondiscendenza di un paese e l'incidenza degli attentati (4) . Martha Crenshaw, esperta di terrorismo della Wesleyan University di Middletown, ha evidenziato la scarsa efficacia delle politiche di coercizione sulla proliferazione di gruppi terroristici (5) .
Nella sua storia recente il Giappone ha dovuto confrontarsi con due gravi crisi legate al terrorismo.
La prima, nel 1995, fu un problema di natura interna: l'attentato della setta religiosa Aum Shinrikyô nella metropolitana di Tokyo all'ora di punta. La seconda, svoltasi tra il 1996 e il 1997, fu il più grave caso di crisi di ostaggi mai fronteggiato dal paese: le truppe del Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru (MRTA) presero d'assalto la residenza dell'ambasciatore del Giappone a Lima, catturando circa 600 ostaggi.
Entrambi questi avvenimenti, in modo diverso, hanno scosso profondamente l'opinione pubblica giapponese e costretto il governo a prendere misure adeguate per gestire la crisi.
La risposta incerta del governo giapponese nel caso di queste due crisi terroristiche, oltre che in seguito al terremoto del Kansai (17 gennaio 1995), creò un clima di incertezza rispetto alle strutture di sicurezza.
Numerose voci di critica si levarono contro l'incapacità del governo ad intervenire velocemente per limitare la perdita di vite umane. Da allora è stata forte la pressione delle forze politiche, per espandere la capacità delle agenzie di crisis management e, soprattutto, migliorarne la rapidità di intervento (6) .


L'attentato alla metropolitana di Tokyo

Il caso della setta Aum Shinrikyô (Aum) è stato il primo atto di terrorismo condotto su vasta scala ricorrendo ad armi chimiche batteriologiche. La setta fu fondata nel 1987, da Matumoto Chizuo, conosciuto come Asahara Shoko. Nella dottrina professata convivevano elementi mistici e millenari del Taoismo, del Cristianesimo e dell'Induismo, combinati al Buddismo Tantrico. Lo scopo ultimo dell'organizzazione era quello di raggiungere il potere politico, soppiantare lo Stato in modo da poter guidare il Giappone attraverso la fine del mondo.


foto ansa

Asahara si convinse che l'unico modo di salvare il Giappone sarebbe stato accelerare l'avvento dell'apocalisse. Per far ciò era necessario produrre un evento distruttivo catalizzatore; a tal fine il culto si attrezzò con armamenti e produsse autonomamente gas nervino. L'organizzazione poteva godere di una relativa immunità dalla polizia, grazie alla legislazione che protegge le attività religiose (7) .
Asahara, credendo che il disastroso terremoto del gennaio 1995, nel Kansai, confermasse la veridicità delle sue profezie, decise di catalizzare la distruzione dell'ordine costituito. La mattina del 20 marzo 1995 furono lasciati alcuni ordigni, su cinque treni diversi nel sistema della metropolitana di Tokyo, dai quali si sprigionò il gas. Contemporaneamente, in diversi punti della linea metropolitana si verificò il più grave attentato terroristico con armi chimiche mai visto.
Il computo totale delle vittime fu meno drammatico di quanto si era temuto: le morti furono contenute a 12, mentre ben 3800 persone rimasero colpite dalle emanazione del gas, di cui un migliaio necessitarono di cure ospedaliere. L'accaduto causò un fortissimo shock nell'immaginario collettivo giapponese e del mondo intero, in qualche modo paragonabile all'effetto che l'undici Settembre ha avuto sul popolo americano.
Il risentimento rampante all'interno del Giappone portò ad una decisa e coordinata azione di polizia che smantellò numerosi complessi di proprietà della Aum e arrestò centinaia di seguaci, incluso lo stesso Asahara, catturato il 16 maggio.
La prima reazione del governo fu quella di revocare alla Aum lo status di organizzazione religiosa (shûkyô hôjin). Tale status le era stato conferito non senza difficoltà nel 1989 e, in base alla legge del 1951, permetteva all'organizzazione di intraprendere attività economiche per sostenere la diffusione del proprio credo religioso.
Nel 1995, con un larghissimo consenso popolare, lo status venne così revocato, sostenendo che gli scopi della Aum si erano dimostrati contrari al pubblico interesse. In seguito alle numerose richieste di risarcimento, inoltrate dalle vittime degli attentati, e all'ovvia defluenza di donazioni e iscrizioni la setta fu costretta a dichiarare bancarotta (8) .
Venne anche avanzata la proposta di applicare la Legge contro le attività sovversive. Questa era una legge del 1952, promulgata in primo luogo per combattere attività sovversive da parte di organizzazioni comuniste rivoluzionarie o gruppi politici estremisti, mai utilizzata. La sua applicazione avrebbe impedito ai membri della Aum sia di intraprendere attività di raccolta fondi o reclutamento di nuovi membri, sia di pubblicare materiale informativo dei propri insegnamenti; inoltre le forze dell'ordine avrebbero avuto pieni poteri di ispezionarne e monitorarne le attività.
Ovviamente ciò avrebbe comportato di fatto la distruzione dell'organizzazione. L'Agenzia di Pubblica Sicurezza invocò formalmente l'applicazione della Legge contro le Attività Sovversive, sollevando forti critiche dalla società civile. Molti esperti di diritto, infatti, dubitavano che la definizione di "organizzazione sovversiva" potesse essere legittimamente estesa al caso della Aum Shinrikyô, né era probabile che essa avrebbe rappresentato un pericolo anche in futuro.
In special modo veniva paventata l'eventualità che si applicasse una simile legge ad un'organizzazione religiosa, creando un pericoloso precedente. Le pressioni dell'opinione pubblica spinsero, nel 1997, la Commissione di Pubblica Sicurezza, cui spettava la decisione finale, a non applicare la legge (9) .
Ciò nonostante, restava forte la richiesta di misure speciali, al fine di evitare che la Aum si ripresentasse come pericolo per la sicurezza nazionale. La Dieta emanò, quindi, delle leggi ad hoc perché la Public Security Investigation Agency (PISA) fosse incaricata di monitorare le attività della setta.
Nel 2003 questa legge è stata rinnovata per ulteriori tre anni, considerando che l'atteggiamento era stato collaborativo e nessuna attività terroristica era stata più riscontrata.
Il caso Aum è indicativo nel mostrare come le autorità giapponesi, invece di distruggere l'organizzazione responsabile o di creare un principio guida per la gestione di avvenimenti simili nel futuro, abbiano preferito un approccio molto pragmatico.
Con la creazione di una legge ad hoc, si riuscì ad accontentare quasi tutti, tranquillizzando le altre organizzazioni di stampo religioso, senza lasciare impuniti i colpevoli.
La mancanza di una struttura di antiterrorismo ben definita, quindi, lasciò un più ampio margine d'azione alle autorità per la sicurezza, che poterono agire come meglio ritenevano.


"Comandante Evaristo" (foto ansa)


La crisi di ostaggi
all'ambasciata giapponese


Il Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru (MRTA) era un movimento rivoluzionario marxista-leninista, fondato da militanti di sinistra con lo scopo di liberare il Perù dall'imperialismo e sovvertire il governo per istituire un regime comunista, prendendo come esempio la rivoluzione castrista di Cuba. Il loro leader, il Comandante Evaristo, guidò l'attacco alla residenza dell'ambasciatore giapponese a Lima, il 17 dicembre 1996, mentre si stava svolgendo una festa in occasione del compleanno dell'Imperatore giapponese Akihito. L'assalto portò alla cattura di circa seicento ostaggi e nessuna vittima. Fra i prigionieri figuravano l'ambasciatore Morihisa Aoki e importanti figure del governo peruviano, oltre a numerosi diplomatici stranieri e manager delle aziende giapponesi.
I rapitori chiesero il rilascio di tutti i componenti del MRTA detenuti in prigione, il pagamento di una "tassa di guerra", la possibilità di rifugiarsi senza interferenze in una zona della giungla peruviana e cambiamenti nella politica economica (soprattutto l'inversione della politica di privatizzazioni). Quasi subito vennero liberati circa duecento tra donne e anziani, come gesto di buona volontà. Il 19 dicembre, il governo giapponese inviò l'allora Ministro degli Esteri Ikeda Yukihiko a Lima per gestire la crisi.
Venne formata una task force composta da Sato Shun'ichi, Direttore Generale del Bureau ministeriale per gli Affari Latino Americani e Caraibici, e Terada Terusuke, ambasciatore in Messico. La linea di condotta adottata dal Presidente peruviano Fujimori fu di non trattare con i terroristi, pur dovendo rispettare la posizione giapponese, che poneva la salvezza degli ostaggi come priorità assoluta.
La stampa occidentale pose l'accento su questa differenza di approccio, sottolineando che al cospetto di simili situazioni, il Giappone aveva sempre trattato con i terroristi.
Il governo statunitense, a sua volta, fece pressioni sulle parti del negoziato per esortare a non far concessioni. Per venir fuori da questa complessa situazione, fu istituita una commissione di garanti, incaricata di trovare una soluzione pacifica alla crisi. Facevano parte della commissione insieme a rappresentanti del governo peruviano e del MRTA, anche esponenti della Chiesa Cattolica, della Croce Rossa e l'ambasciatore canadese (uno degli ostaggi rilasciati) Anthony Vincent, in qualità di parti terze (10) .
Nel periodo immediatamente seguente la cattura degli ostaggi, la stampa nipponica appariva divisa sul giudizio da dare rispettivamente agli atteggiamenti del Primo Ministro giapponese Hashimoto (1996-1998) e del Presidente del Perù Fujimori (1992-2000). Due dei maggiori quotidiani, Asahi Shimbun e Mainichi Shimbun, sostenevano due opinioni diverse in merito al modo migliore di trattare con i terroristi. Il primo, nell'editoriale del 20 dicembre, dava la priorità alla salvezza degli ostaggi, sostenendo la linea tradizionale della diplomazia giapponese, avvertendo dei possibili rischi in cui si sarebbe incappati se si fosse ricorso alla linea dura nelle trattative.
Il secondo, invece, apprezzava l'operato di Fujimori, che era riuscito, nel suo mandato di Presidente, a combattere efficacemente i terroristi, attraverso una politica dura e severa. Allo stesso modo il quotidiano conservatore Yomiuri Shimbun, secondo per tiratura in Giappone, sosteneva il Presidente peruviano ed esortava il Primo Ministro Hashimoto a cooperare con lui per risolvere la crisi. In modo più critico nei confronti del governo, il Tokyo Shimbun, sosteneva nell'editoriale del 19 dicembre che il Giappone avrebbe dovuto rivedere la sua politica di "crisis management" (11) .
Con il proseguo delle trattative furono progressivamente rilasciati numerosi ostaggi, cosicché il 26 gennaio quelli ancora prigionieri erano ridotti a 72. Nessuna delle richieste dei rapitori fu esaudita, rispettando le disposizioni base della politica di controterrorismo di Fujimori. Quindi, il 22 aprile, un commando composto dalle forze armate peruviane e da unità speciali della polizia irruppe nella residenza liberando gli ostaggi. Uno dei prigionieri e due militari persero la vita nello scontro a fuoco, mentre tutti i 14 rapitori furono uccisi. Per il MRTA, già fortemente indebolito, quello dell'ambasciata di Lima fu il canto del cigno (12) .
La violenta conclusione della crisi generò da una parte l'ammirazione di coloro che sponsorizzavano la linea dura contro il terrorismo, dall'altra critiche sull'avventatezza di una simile decisione, ma la gratitudine per aver liberato i 24 nazionali giapponesi superava di molto le perplessità sul modus operandi. Secondo la versione ufficiale dei fatti, Alberto Fujimori aveva autorizzato l'intervento dei militari sul territorio controllato da Tokyo, senza però avvisare le autorità giapponesi.
La ragione di questo mancato avviso sarebbe stata finalizzata non soltanto a mantenere l'effetto sorpresa, ma anche ad evitare repliche dal governo Hashimoto, che sosteneva la causa di una soluzione pacifica.
Per il Primo Ministro giapponese l'esito degli eventi fu fortemente positivo: la decisione di Fujimori, dichiarata unilaterale da ambo le parti, fu per lui un vantaggio, poiché, in quel modo, si trovò in una situazione dalla quale non poteva uscire sotto luce negativa. Qualora il raid della polizia si fosse concluso in tragedia, infatti, avrebbe potuto addossare la colpa al Presidente del Perù, che aveva agito senza avvisarlo. Se, al contrario, fosse stato avvertito, avrebbe subito forti pressioni interne e probabilmente sarebbe stato costretto ad impedire lo svolgimento dell'operazione di salvataggio (13) .
Per il premier Hashimoto, l'ignoranza, reale o di comodo, fu effettivamente una benedizione.
Il successo dell'operazione militare sollevò, da parte sia dei media che dei rappresentanti politici, numerosi interrogativi sull'efficacia delle misure di "crisis management" in vigore, per salvaguardare la sicurezza dei cittadini giapponesi all'estero. Ozawa Ichiro, leader del nuovo Partito Liberale, in un discorso del 23 aprile 1997 criticava la politica "soft" del governo, argomentando che la mancanza di principi guida era il maggior problema del Giappone e ciò avrebbe trasmesso scarsa fiducia a livello internazionale sulle capacità del paese di rispondere alle crisi (14) .
Alcuni osservatori criticarono la strategia di controterrorismo: il Nihon Keizai Shimbun scriveva il 24 aprile "I metodi del Presidente Fujimori provano che, nell'era del terrorismo, una forte politica di "nessuna concessione" è il mezzo più efficace di crisis management. Le azioni del presidente impartiscono una grande lezione al Giappone. […] Alla fine la salvezza degli ostaggi è stata preservata dal metodo a cui il Giappone si è opposto di più" (15) .
Lo Yomiuri Shimbun approvò la decisione presa dal presidente peruviano descrivendo l'operazione come "quasi perfetta" e giustificando la mancata notifica al governo giapponese ritenendola indispensabile. L'Asahi Shinbun, invece, sollevò dubbi sulla concezione che la linea dura sia sempre quella migliore da seguire in simili circostanze, pur ritenendo che nel caso specifico era inevitabile.
Il Tokyo Shimbun espresse approvazione per l'operato del Primo Ministro Hashimoto, che pur non ostacolando le decisioni di Fujimori aveva mantenuto fermo il principio di considerare priorità massima la sicurezza degli ostaggi (16) .
Quasi unanime, nella stampa giapponese, fu l'invocazione perchè il governo delineasse una nuova politica, che coinvolgesse sia il settore privato che quello pubblico, in modo tale da essere preparati per il peggio; le disposizioni in vigore, infatti, sembravano gravemente carenti.
In questo frangente, la mancanza di un quadro normativo o di una organizzazione rigida portò ad un esito positivo. Il governo ebbe, infatti, ampio margine di discrezionalità nelle trattative, sia con i terroristi, sia con il governo cileno.
L'elasticità di non dover sottostare ad un principio generale prestabilito (ad es. "nessuna concessione ai terroristi"), diede modo di valutare i pro e i contro di ogni azione. Ciò provocò un lungo periodo di trattative e valutazioni, ma si risolse infine con il pieno successo.


La strategia internazionalista
e il post undici settembre


In seguito agli eventi di Lima, crebbe sempre più l'interesse del Giappone nell'organizzare una collaborazione internazionale che fosse in grado di migliorare la risposta al terrorismo.


foto ansa

Nel suo discorso all'ASEAN, in occasione della visita ufficiale del gennaio 1997, il Primo Ministro Hashimoto esortava i paesi membri ad aumentare gli sforzi di cooperazione in materia di intelligence, sottolineando che, assieme al problema ambientale, quella del terrorismo è una sfida a cui la comunità internazionale deve rispondere in modo compatto (17) .
Allo stesso modo, ripropose l'intenzione di implementare questo impegno nel suo discorso alla 140esima sessione della Dieta (18) .
Da allora è rimasta viva l'attenzione dei giapponesi per una collaborazione internazionale antiterrorismo, sempre nell'ambito dell'intelligence e delle operazioni di polizia. Anche in seguito agli attentati dell'undici Settembre i leader giapponesi sono apparsi riluttanti nel perseguire una politica di "nessuna concessione", preferendo di solito ricorrere alle trattative.
La Dieta ha approvato la "Legge Speciale Anti-Terrorismo", con la quale è stato permesso l'invio di truppe in appoggio logistico (trasporto e rifornimento) ai soldati americani impegnati nella guerra contro l'Afghanistan e, in seguito, per facilitare il trasporto di viveri e medicinali per i profughi della guerra.
Essa piuttosto che delineare una politica a lungo termine, ha predisposto le misure da adottare per sostenere la campagna militare americana (19) .
La legge speciale sul terrorismo non si occupa del terrorismo in generale, bensì degli specifici attacchi dell'undici Settembre. Non prescrive, inoltre, il sostegno alle forze statunitensi in generale, ma solo a quelle impegnate nella lotta contro i responsabili di quegli attacchi (20) .
Oltre al sostegno di tipo militare, il Giappone è stato attivo nel contesto di organismi multilaterali quali Nazioni Unite, ASEAN Regional Forum, APEC e ASEM, al fine di promuovere un rafforzamento degli standard anti-terrorismo a livello globale. Non solo, ha anche pagato tremila miliardi di yen per finanziare la sola guerra in Afghanistan, senza contare gli investimenti devoluti per la ricostruzione: cifra che supera di più del doppio quella spesa per la prima Guerra del Golfo.
Come è evidente nel rapporto all'ASEAN, del maggio 2002, sulle misure antiterrorismo adottate a partire dall'11.09.2001, le iniziative più importanti sono quelle che riguardano la sicurezza aerea e il congelamento dei conti bancari usati per finanziare il terrorismo (21) .
Nel rapporto all'ASEAN dell'ottobre 2002, che presenta le misure concrete adottate da Tokyo, venivano evidenziate sei aree in cui era necessaria la collaborazione internazionale e in cui il Giappone aveva già provveduto a investire risorse (22) .
Le aree indicate erano: controllo dell'immigrazione, sicurezza aerea, cooperazione delle dogane, controllo delle esportazioni, polizia e law enforcement, misure contro il finanziamento dei terroristi.
Nel gennaio 2004, quando le autorità americane dichiararono terminate le ostilità in Iraq, la Dieta, sulla base delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, in special modo della n°1511, ha approvato la "Legge Speciale per Assistere la Ricostruzione dell'Iraq". La legge ha disposto l'invio di un migliaio di soldati delle FAD (per ora solo 550 unità sono arrivate sul posto) con l'obiettivo di sostenere le forze d'occupazione e di aiutare il popolo iracheno.
Le truppe si sono insediate a Samawah, una città nel sud dell'Iraq, la quale, secondo un rapporto investigativo, è considerata zona a bassissimo rischio per la sicurezza dei militari, poichè situata molto distante dai luoghi in cui avvengono gli scontri armati con le forze di guerriglia (23) .
A ben vedere, l'intervento militare sembra più una mossa di facciata, che punterebbe ad ottenere dei "crediti politici" presso gli Stati Uniti. Crediti da spendere per la risoluzione della crisi legata alla Corea del Nord, e per la questione riguardante l'allargamento dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.


Conclusioni

In Giappone il terrorismo non è percepito come minaccia di primo piano, bensì allo stesso livello di altri problemi legati alla sicurezza. Diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, dove la prima preoccupazione è posta sulla caccia ai gruppi terroristici e sulla loro distruzione, in Giappone è data massima priorità alla salvaguardia della vita umana.
Sul piano interno non esiste un quadro legale o esecutivo che si occupi esclusivamente di controterrorismo. A livello giudiziario, il terrorismo è ricondotto a casi di crimini ordinari e affrontato caso per caso.
Talvolta, come per la Aum Shinrikyo, si arriva anche alla creazione di strumenti legali ad hoc. A livello esecutivo, le strutture che gestiscono la normale amministrazione e intervengono nelle crisi alla sicurezza nazionale (ad es. nel caso di catastrofi naturali), si occupano anche di affrontare volta per volta i problemi legati al terrorismo.
Per quanto riguarda la lotta al terrorismo internazionale, il governo giapponese ha preferito esortare la creazione di un sistema internazionale di collaborazione, piuttosto che investire ingenti risorse nello sviluppo di unità speciali di antiterrorismo e potenziare il controllo sulla società civile da parte delle forze dell'ordine. Cosciente che è impossibile per uno Stato combattere il terrorismo da solo, per quanto potente, ricco o tecnologicamente avanzato esso sia, Tokyo ha preferito intraprendere la strada dell'internazionalismo, ritenuta un'opzione più efficace.
I problemi legati alla lotta contro il terrorismo, infatti, non possono essere considerati di competenza di un singolo Stato poiché essi sono intimamente legati al processo di globalizzazione. Le organizzazioni terroristiche internazionali sfruttano i meccanismi perversi di quel che il sociologo polacco Zygmunt Bauman chiama "modernità liquida" (24) .
Esse attingono al risentimento popolare dei paesi impoveriti e riescono ad ottenere e occultare i loro finanziamenti, sfruttando i meccanismi indesiderati del mercato finanziario mondiale. Le organizzazioni come Al Qaeda possono contare su complessi intrecci di società legali (imprese di costruzione, di beneficenza ecc.) e attività illegali (traffico di droga, armi, persone), utilizzando le opportunità della globalizzazione come qualsiasi azienda multinazionale.
Al Qaeda è dunque molto simile ad una multinazionale globale (25) . Una delle ragioni principali per cui la guerra contro il terrorismo è presumibilmente interminabile è proprio il fatto che ci siano forti interessi a perpetuare le condizioni di un ordine internazionale, quanto più privo di regole e di vincoli (26) .
La costruzione di un ordine sovranazionale o la globalizzazione di giustizia e intelligence (27) sono degli strumenti possibili per controllare e gestire la fluidità delle relazioni internazionali, ma l'attuazione di tali progetti incontra numerosi ostacoli. Si osserva, infatti, la difficoltà ad abbandonare gli schemi della Guerra Fredda e ad accettare la crisi dello Stato nazionale, sostenuta da numerosi politologi (28) .
Il Giappone ha forse avuto meno problemi ad adattarsi a tali cambiamenti, almeno in tema di sicurezza. Fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, la Costituzione vieta ogni tipo di forze armate e la sicurezza nazionale è stata garantita attraverso l'alleanza con gli Stati Uniti e, soprattutto, attraverso un abile lavoro diplomatico (29) .


foto ansa

La resistenza del Giappone ad utilizzare gli strumenti tradizionali dello Stato nazionale (politica di potenza e balance of power) hanno spinto gli analisti a coniare un nuovo paradigma: il concetto di "potenza civile" (giap. minsei taikoku). Hanns Maull ha definito il concetto di potenza civile in base a tre parametri:
- 1. accettazione della collaborazione al fine di perseguire obiettivi internazionali;
- 2. concentrazione su mezzi non militari, prevalentemente economici, per l'interazione internazionale;
- 3. volontà di sviluppare strutture sopranazionali per gestire problemi generali di particolare importanza (30) .
Una potenza civile sarebbe dunque uno Stato che ha compreso come meglio adattarsi alle nuove sfide del sistema internazionale e ha abbandonato schemi interpretativi ritenuti obsoleti.
Analisi successive hanno sostituito tale concetto con quello di paese postmoderno, che ha superato cioè la logica dello Stato moderno.
Come è stato recentemente sostenuto, tale definizione si potrebbe allargare anche agli Stati che formano l'Unione Europea (UE) (31) .
Il Giappone utilizzando gli strumenti di potenza civile, o paese postmoderno, tenta da oltre cinquant'anni di rafforzare la creazione di un sistema di regole e di collaborazione internazionale.
È il secondo maggior contributore delle Nazioni Unite e di molte altre istituzioni internazionali, ed è fortemente impegnato per potenziare le organizzazioni regionali, cioè l'ASEAN o l'ASEAN Regional Forum. Abbiamo più volte rimarcato come non abbia una politica specifica di antiterrorismo, ma gli sforzi sul piano della collaborazione internazionale, affiancati dalla generosità e dalla prontezza nell'inviare aiuti economici ed umanitari nelle zone in difficoltà, rappresentano una strategia ad ampio raggio di cui la lotta contro il terrorismo ricopre un aspetto centrale.
Con la sua duplice strategia (internazionalismo e lotta case by case), il Giappone potrebbe aver trovato un sistema più efficace per affrontare le nuove sfide alla sicurezza, poste dalla globalizzazione.


(1) Ved Marwah, "Japan", in Yonah Alexander (a cura di), Combating terrorism : strategies of ten countries, Michigan 2002, pp. 350-373.
(2) David Leheny, "Tokyo Confronts Terror", in Policy Review, no. 110, dicembre 2001, disponibile sul sito internet http://www.policyreview.org/DEC01/leheny.html.
(3) Ibidem.
(4) Christopher B. Johnstone, op. cit.
(5) Martha Crenshaw, "Terrorism, Security, and Power", Middletown 2002, disponibile all'indirizzo http://apsaproceedings.cup.org/Site/papers/018/018012CrenshawMa.pdf.
(6) Ved Marwah, op. cit.
(7) Meredith Box, Gavan McCormack, op. cit.
(8) Mark R. Mullins, "The Legal and Political Fallout of the AumAffair", in Robert J. Kisala, Mark R. Mullins ed., Religion and Social Crisis in Japan: Understanding Japanese Society through the Aum Affair, Palgrave 2001, pp. 71-86.
(9) Ibidem.
(10) Johan Galtung, Dietrich Fischer, "The Lima Hostage Crisis: A Possible Conflict Transformation", in TRASCEND, 11 febbraio 1997, disponibile al sito internet http://www.transcend.org/LIMA.HTM; "The Peru Crisis and the Japanese Media", in Foreign Press Center, 19 febbraio 1997, disponibile al sito internet http://www.fpcj.jp/e/shiryo/jb/j42.html.
(11)"The Peru Crisis and the Japanese Media", cit.
(12)"Lima Hostages Freed", in Foreign Press Center, 30 aprile 1997, disponibile sul sito internet http://www.fpcj.jp/e/shiryo/jb/j9712.html.
(13) Ibidem.
(14) Christopher B. Johnstone, "Lessons Learned in Peru; Tokyo takes stock as ex-hostages return home", in Japan Economic Institute Report, no. 17, 2 maggio 1997, disponibile sul sito internet http://www.jei.org/Archive/JEIR97/9717w4.html.
(15) Ibidem.
(16) "Lima Hostages Freed", cit.
(17) Ryûtarô Hashimoto, "·ASEAN" (seikakuenzetsu nichi ASEAN shinjidaihe no kaikaku - hirokuyori fukai paatonaashippu), 14 gennaio 1997, disponibile sul sito internet http://www.mofa.go.jp/mofaj/kaidan/kiroku/s_hashi/arc_97/asean/enzetu.html.
(18) Ryûtarô Hashimoto, "140" (dai 140 gaikokukai niokeru ikeda zengaimudaishin no kaikôenzetu), 20 gennaio 1997, disponibile sul sito internet http://www.mofa.go.jp/mofaj/press/enzetsu/09/ei_0120.html.
(19) Nukaga Fukushiro, op. cit.
(20) David Leheny, op. cit.; Nukaga Fukushiro, op. cit.; per l'analisi della Guerra in Afghanistan si veda il Capitolo II "Temi della Guerra al Terrorismo Lanciata dagli USA".
(21) "Japanese Report on Implementation of the APEC Leaders Statement on Counter-terrorism", disponibile sul sito internet http://www.mofa.go.jp/policy/ economy/apec/2002/terro.html.
(22)"Japan's Actions and Measures on Capacity Building for Combating Terrorism- Supporting capacity for counter-terrorism in Asian region", disponibile sul sito internet http://www.mofa.go.jp/policy/econo-my/apec/2002/announce-2.html.
(23) "Japan says its Iraq base safe as poll shows opposition to deployment", in Channel News Asia, disponibile sul sito internet http://www.channelnewsasia.com/ stories/afp_asiapacific/view/115974/1/.html.
(24) Zygmunt Bauman, Modernità Liquida, Bari 2002.
(25) John Gray, Al Qaeda el il significato della modernità, Roma 2004.
(26)Zygmunt Bauman, "Vivere e Morire nella Terra di Frontiera Planetaria", in Missione Oggi, Brescia 2002 disponibile sul sito internet http://www.saveriani.bs.it/missioneoggi/arretrati/2002_07/bauman.htm.
(27) Ciro Sbailò, "Primato politico e primato giudiziario", in Gnosis n°3 Anno XI, Roma 2005.
(28)John Gray, op. cit.; Zygmunt Bauman, Modernità Liquida, cit.; Ciro Sbailò, "La nuova sintassi del terrore e la crisi dello Stato nazionale", in Gnosis, n°1/2005, Roma; Rockmore, Margolis, Marsoobian (ed.), The Philosophical Challenge of September 11, Oxford 2005.
(29)Sebbene interpretazioni più estensive abbiano permesso la creazione di un esercito, il limite al suo utilizzo è sempre stato quello della difesa del territorio da un attacco straniero. I politici giapponesi hanno preferito mantenere il limite autoimposto all'uso delle forze armate, la società civile è perfettamente identificata con l'immagine di "potenza civile" o "paese pacifista" del Giappone.
(30)Hanns W. Maull, "Germany and Japan: The new civilian powers", in Foreign Affairs, vol. 69 n. 5, 1990, pp. 91-106.
(31)Robert Cooper, direttore generale per le relazioni esterne e gli affari politico militari dell'UE, ha sostenuto che la globalizzazione sta producendo una rinascita dell'impero. Non un impero di stampo coloniale ed espansionista, bensì "difensivo e cooperativo", che chiama rete postmoderna. L'estensione di questo nuovo tipo di impero è basata sulla volontà degli altri Stati di aderirvi: rinunciare in parte alla propria sovranità nazionale al fine di guadagnare sicurezza e prosperità. Allargando questa rete basata sull'adesione e la cooperazione si attenuerebbero le tensioni di conflitto e, contemporaneamente, si rafforzerebbero le risorse difensive, senza dover ricorrere alla militarizzazione. Robert Cooper, La fine delle Nazioni, Torino 2004.

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