Putin e il Rinascimento russo
Sergio Romano
Successivamente alla Prima guerra mondiale, Hollywood diventa il centro
dell’industria cinematografica statunitense. In quegli anni, mentre il quartiere
di Los Angeles attira celebrità da ogni parte del mondo e una moltitudine
di sconosciuti fa anticamera attendendo pazientemente l’occasione
favorevole per affermarsi, esiste un attore molto popolare, alto, robusto, di grande
fascino, vestito frequentemente con abiti di taglio militare. Si tratta di Erich von
Stroheim, al secolo Erich Oswald Stroheim (1885-1957), il quale era riuscito a gabbare
il prossimo sostenendo di chiamarsi Erich Oswald Carl Marie Stroheim von
Nordenwald, e di essere figlio di un colonnello di cavalleria (in realtà il padre era
un modesto mercante ebreo) e di una dama di corte dell’imperatrice d’Austria.
Nel 1909 raggiunge gli Stati Uniti dove, in principio, svolge ogni genere di mansioni.
Le doti fisiche e l’acuta intelligenza gli consentono comunque di accedere
alla “mecca del cinema” ritagliandosi degli spazi quale stuntman e comparsa; partecipa
così – pur nell’anonimato del figurante – ad alcuni film tra cui The Birth of
a Nation (Nascita di una nazione, 1915) di David Wark Griffith, il primo capolavoro
fra i lungometraggi americani del periodo del muto, il più controverso (vi si tessono
le lodi del Ku Klux Klan e dileggiano i “negri”) e il più fortunato sul piano
commerciale. Le (false) peculiarità biografiche e il fatto di parlare la lingua inglese
con un marcato accento tedesco assicurano a von Stroheim numerosi ruoli di personaggi
violenti e crudeli che interpreta in modo eccellente. Divenuto in seguito sceneggiatore e regista, sarà vittima dei produttori e della censura per le sue
opere intransigenti e al di sopra delle regole. Ora considerato il terzo grande
maestro del muto di Hollywood, dopo Charlie Chaplin e Buster Keaton, per i
soggetti malvagi che portò sulle scene fu additato, probabilmente per finalità
promozionali, come “l’uomo che si ama odiare”.
Il mondo della politica non è certamente quello del cinema e del teatro, ma
è anch’esso un palcoscenico sul quale si affacciano personaggi ambiziosi, alla
ricerca del successo e per i quali l’applauso, cioè la manifestazione di spontaneo
consenso rivolta dal pubblico a un artista, è sostituito dalle cariche conferite,
dalle prebende conseguite e dalla popolarità goduta nel corso della
carriera. Se mi chiedessero chi è, sulla scena teatrale della politica contemporanea,
l’uomo più detestabile, almeno per una larga parte della società internazionale,
risponderei senza esitazione che è Vladimir Putin, presidente
della Federazione Russa dal 7 maggio 2012 (al quarto mandato, non consecutivo).
Questo personaggio suscita diffidenze e preoccupazioni. Molti sono
convinti che abbia conquistato il potere con la forza e l’inganno, grazie al controllo
sui Servizi segreti del suo Paese.
La giornalista con cittadinanza russo-statunitense Anna Politkovskaja (1958-
2006) – particolarmente attiva sul fronte dei diritti umani e nota per i reportage
sul conflitto in Cecenia e le forti critiche rivolte alle Forze armate e ai governi
presieduti proprio da Putin – nel 2004 (due anni prima di essere assassinata)
al riguardo pubblicò in inglese il libro Putin’s Russia, titolo conservato integralmente
nell’edizione italiana, La Russia di Putin, edito da Adelphi nel 2005.
Nel volume il protagonista è frequentemente indicato come il tenente colonnello
nominato alla testa di quello che noi definiremmo controspionaggio e
che i russi chiamano Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (Kgb, Comitato
per la Sicurezza dello Stato), dal 1954 al 1991 la principale Agenzia di sicurezza
dell’Unione Sovietica e, come tale, al centro di molte delle vicende che hanno
reso la Russia sgradevole e pericolosa agli occhi di svariati Paesi europei.
Oltre a essere chiamato a rispondere di tutte le attività del Kgb, su Putin graverebbe
– secondo Politkovskaja – un altro misfatto non meno grave: quello
di avere appreso dal suo predecessore e tutore (Borís Él’cin) l’arte di arricchirsi
grazie agli intimi rapporti intessuti e intrattenuti con aziende che avevano bisogno,
per crescere, di facilitazioni statali ed erano disposte a compensare
molto generosamente il benefattore.
È molto probabile che Politkovskaja avesse ragione, ma a noi oggi interessano
in maggior misura le motivazioni politiche sulla base delle quali Putin ha conquistato
la presidenza del suo Paese e qual è l’uso che farà dei suoi poteri.
Vladimir Putin nasce nell’ottobre del 1952 a Leningrado (la città che è ridiventata
San Pietroburgo soltanto dopo la rivoluzione del 1991) e cresce negli
anni in cui l’Urss è ancora una potenza imperiale circondata da Stati di media
grandezza (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria) che l’Armata Rossa
ha conquistato combattendo contro la Germania di Hitler fra il 1941 e il 1945.
Mosca governava con la forza delle armi, ma anche con l’attrazione morale e
intellettuale di una ideologia, il comunismo, che annoverava molti fedeli sostenitori
anche nelle democrazie occidentali. Questa doppia autorità, unita al
possesso dell’arma nucleare, collocava l’Unione Sovietica su un piano di parità
con gli Stati Uniti, la Cina e – quando ancora esistevano – i grandi imperi coloniali
dell’Occidente. Il patriota Putin rimpiange adesso quegli anni e vorrebbe
ridare al suo Paese almeno una parte del potere e del prestigio perduti.
Suppongo che sia troppo intelligente per ignorare che questo sogno è difficilmente
realizzabile. Egli sta cercando di attirare verso l’area d’influenza della
sua patria almeno quelle regioni in cui ancora sussistono popolazioni russofone
o regimi che desiderano mantenere o instaurare amichevoli e concreti
rapporti con Mosca. Ha tuttavia commesso un considerevole errore di valutazione,
e la sua intelligence ancor prima di lui, affrontando una guerra con un
quadro analitico situazionale non corrispondente alla realtà. Basta solo ricordare
il forte nazionalismo ucraino che l’attacco del 24 febbraio ha sprigionato
e reso manifesto.
Invece di fare ricorso ai carri armati, il Presidente avrebbe potuto proporre
al governo di Kiev un legame associativo simile al Commonwealth (da
common “comune” e wealth “benessere”, ovvero “benessere comune”)
che il Regno Unito aveva creato con le sue vecchie colonie dopo la scomparsa
dell’Impero britannico.
Putin ha invece voluto la guerra intendendo dare prova dei metodi di cui la
Santa Madre Russia si sarebbe avvalsa per riconquistare le proprie dimensioni
imperiali. Era convinto, molto verosimilmente, che la conquista militare dell’Ucraina
avrebbe fatto apparire il suo Paese rispettabile e temibile. E in tale
modo sta rendendo ancora più problematico quel Rinascimento cui la Russia,
con altre maniere, potrebbe legittimamente ambire.