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punto di vista 3/2022

punto di vista Putin e il Rinascimento russo
Sergio Romano biografia

Successivamente alla Prima guerra mondiale, Hollywood diventa il centro dell’industria cinematografica statunitense. In quegli anni, mentre il quartiere di Los Angeles attira celebrità da ogni parte del mondo e una moltitudine di sconosciuti fa anticamera attendendo pazientemente l’occasione favorevole per affermarsi, esiste un attore molto popolare, alto, robusto, di grande fascino, vestito frequentemente con abiti di taglio militare. Si tratta di Erich von Stroheim, al secolo Erich Oswald Stroheim (1885-1957), il quale era riuscito a gabbare il prossimo sostenendo di chiamarsi Erich Oswald Carl Marie Stroheim von Nordenwald, e di essere figlio di un colonnello di cavalleria (in realtà il padre era un modesto mercante ebreo) e di una dama di corte dell’imperatrice d’Austria. Nel 1909 raggiunge gli Stati Uniti dove, in principio, svolge ogni genere di mansioni. Le doti fisiche e l’acuta intelligenza gli consentono comunque di accedere alla “mecca del cinema” ritagliandosi degli spazi quale stuntman e comparsa; partecipa così – pur nell’anonimato del figurante – ad alcuni film tra cui The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915) di David Wark Griffith, il primo capolavoro fra i lungometraggi americani del periodo del muto, il più controverso (vi si tessono le lodi del Ku Klux Klan e dileggiano i “negri”) e il più fortunato sul piano commerciale. Le (false) peculiarità biografiche e il fatto di parlare la lingua inglese con un marcato accento tedesco assicurano a von Stroheim numerosi ruoli di personaggi violenti e crudeli che interpreta in modo eccellente. Divenuto in seguito sceneggiatore e regista, sarà vittima dei produttori e della censura per le sue opere intransigenti e al di sopra delle regole. Ora considerato il terzo grande maestro del muto di Hollywood, dopo Charlie Chaplin e Buster Keaton, per i soggetti malvagi che portò sulle scene fu additato, probabilmente per finalità promozionali, come “l’uomo che si ama odiare”.
Il mondo della politica non è certamente quello del cinema e del teatro, ma è anch’esso un palcoscenico sul quale si affacciano personaggi ambiziosi, alla ricerca del successo e per i quali l’applauso, cioè la manifestazione di spontaneo consenso rivolta dal pubblico a un artista, è sostituito dalle cariche conferite, dalle prebende conseguite e dalla popolarità goduta nel corso della carriera. Se mi chiedessero chi è, sulla scena teatrale della politica contemporanea, l’uomo più detestabile, almeno per una larga parte della società internazionale, risponderei senza esitazione che è Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa dal 7 maggio 2012 (al quarto mandato, non consecutivo). Questo personaggio suscita diffidenze e preoccupazioni. Molti sono convinti che abbia conquistato il potere con la forza e l’inganno, grazie al controllo sui Servizi segreti del suo Paese.
La giornalista con cittadinanza russo-statunitense Anna Politkovskaja (1958- 2006) – particolarmente attiva sul fronte dei diritti umani e nota per i reportage sul conflitto in Cecenia e le forti critiche rivolte alle Forze armate e ai governi presieduti proprio da Putin – nel 2004 (due anni prima di essere assassinata) al riguardo pubblicò in inglese il libro Putin’s Russia, titolo conservato integralmente nell’edizione italiana, La Russia di Putin, edito da Adelphi nel 2005. Nel volume il protagonista è frequentemente indicato come il tenente colonnello nominato alla testa di quello che noi definiremmo controspionaggio e che i russi chiamano Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti (Kgb, Comitato per la Sicurezza dello Stato), dal 1954 al 1991 la principale Agenzia di sicurezza dell’Unione Sovietica e, come tale, al centro di molte delle vicende che hanno reso la Russia sgradevole e pericolosa agli occhi di svariati Paesi europei. Oltre a essere chiamato a rispondere di tutte le attività del Kgb, su Putin graverebbe – secondo Politkovskaja – un altro misfatto non meno grave: quello di avere appreso dal suo predecessore e tutore (Borís Él’cin) l’arte di arricchirsi grazie agli intimi rapporti intessuti e intrattenuti con aziende che avevano bisogno, per crescere, di facilitazioni statali ed erano disposte a compensare molto generosamente il benefattore.
È molto probabile che Politkovskaja avesse ragione, ma a noi oggi interessano in maggior misura le motivazioni politiche sulla base delle quali Putin ha conquistato la presidenza del suo Paese e qual è l’uso che farà dei suoi poteri.
Vladimir Putin nasce nell’ottobre del 1952 a Leningrado (la città che è ridiventata San Pietroburgo soltanto dopo la rivoluzione del 1991) e cresce negli anni in cui l’Urss è ancora una potenza imperiale circondata da Stati di media grandezza (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria) che l’Armata Rossa ha conquistato combattendo contro la Germania di Hitler fra il 1941 e il 1945. Mosca governava con la forza delle armi, ma anche con l’attrazione morale e intellettuale di una ideologia, il comunismo, che annoverava molti fedeli sostenitori anche nelle democrazie occidentali. Questa doppia autorità, unita al possesso dell’arma nucleare, collocava l’Unione Sovietica su un piano di parità con gli Stati Uniti, la Cina e – quando ancora esistevano – i grandi imperi coloniali dell’Occidente. Il patriota Putin rimpiange adesso quegli anni e vorrebbe ridare al suo Paese almeno una parte del potere e del prestigio perduti. Suppongo che sia troppo intelligente per ignorare che questo sogno è difficilmente realizzabile. Egli sta cercando di attirare verso l’area d’influenza della sua patria almeno quelle regioni in cui ancora sussistono popolazioni russofone o regimi che desiderano mantenere o instaurare amichevoli e concreti rapporti con Mosca. Ha tuttavia commesso un considerevole errore di valutazione, e la sua intelligence ancor prima di lui, affrontando una guerra con un quadro analitico situazionale non corrispondente alla realtà. Basta solo ricordare il forte nazionalismo ucraino che l’attacco del 24 febbraio ha sprigionato e reso manifesto.
Invece di fare ricorso ai carri armati, il Presidente avrebbe potuto proporre al governo di Kiev un legame associativo simile al Commonwealth (da common “comune” e wealth “benessere”, ovvero “benessere comune”) che il Regno Unito aveva creato con le sue vecchie colonie dopo la scomparsa dell’Impero britannico.
Putin ha invece voluto la guerra intendendo dare prova dei metodi di cui la Santa Madre Russia si sarebbe avvalsa per riconquistare le proprie dimensioni imperiali. Era convinto, molto verosimilmente, che la conquista militare dell’Ucraina avrebbe fatto apparire il suo Paese rispettabile e temibile. E in tale modo sta rendendo ancora più problematico quel Rinascimento cui la Russia, con altre maniere, potrebbe legittimamente ambire.

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