Due crisi medio-orientali: da Gerusalemme a Teheran
Sergio Romano
Gli storici ricordano che alla fine della Grande Guerra il costo della sconfitta, in Europa, fu saldato a Versailles con il pagamento di indennizzi e cessione di territori. Sono meno numerosi, invece, quelli che ricordano dove furono regolati i conti con un Paese sconfitto, la Turchia, che era solo parzialmente europeo.
Alcuni incontri ebbero luogo in Italia, a Sanremo. La cittadina sul mare dovette piacere al sultano di Costantinopoli perché Mehmet VI, quando dovette abdicare, abbandonò il suo Paese, scelse la Riviera Ligure e morì in un palazzo di Sanremo nel 1926. Lì, in quegli anni, venne anche disegnata la nuova carta geografica di una vasta zona che ora chiamiamo Vicino e Medio Oriente, mentre allora sarebbe stata chiamata, più semplicemente, Impero ottomano. Sono vecchie vicende, ma possono servire a comprendere ciò che sta accadendo ora nella regione.
La spartizione del bottino di guerra, in realtà, era già cominciata durante il conflitto. La Gran Bretagna aveva messo gli occhi su territori che saranno chiamati Iraq e Giordania; la Francia puntava sul Libano; gli Stati Uniti, con maggiore distacco, sull’Arabia Saudita; e all’Italia sarebbe stata riconosciuta la proprietà delle regioni mediterranee per cui si era battuta contro la Turchia nel 1911. Esisteva anche un popolo senza Stato (il Movimento sionista) che aveva antichi legami religiosi con la Palestina e, da qualche tempo, aveva cominciato ad acquistare terre palestinesi popolate da arabi per insediarvi i suoi membri. Il ministro degli Esteri della Gran Bretagna, Lord Balfour, spiegò al suo governo che se avesse promesso di dare agli ebrei, dopo la fine della guerra, quel territorio, la Gran Bretagna avrebbe potuto contare sulla simpatia e sul sostegno dell’ebraismo mondiale. Nella lettera che inviò al presidente del Movimento sionista, il 2 novembre 1917, scrisse: «Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni». Quando i vincitori si riunirono a Sanremo, la sorte della Palestina, sulla carta, era già stata decisa. Ma né Balfour né il suo governo avevano tenuto conto, se non superficialmente, degli arabi, presenti con importanti comunità, spesso maggioritarie, in tutti i Paesi della regione, e nemmeno delle dimensioni che il Risorgimento arabo avrebbe raggiunto negli anni successivi. Mentre gli ebrei, sempre più numerosi, si stavano installando in Palestina, gli arabi facevano altrettanto. Lo Stato d’Israele fu proclamato il 14 maggio 1948 e le Nazioni Unite sanzionarono l’annuncio il giorno successivo. Ma una coalizione di Stati arabi aggredì Israele e da quel momento cominciò un conflitto, con fasi alterne, che dimostrò le straordinarie capacità militari degli israeliani. L’ultimo episodio risale al maggio di quest’anno, quando il governo di Tel Aviv decise di allargare le dimensioni del proprio territorio con una operazione militare che avrebbe costretto molti arabi a lasciare le loro case.
Abbiamo assistito ad altri conflitti arabo-israeliani, conosciamo gli argo-menti delle due parti e le formule di compromesso con cui si ritorna, quasi sempre, a una temporanea normalità. Sappiamo anche che entrambe hanno diritto alla loro terra e che hanno sempre qualche argomento per giustificare i propri comportamenti o attribuire all’altro ogni responsabilità. Ma in questo ultimo caso esistono novità che rendono la vicenda più complicata.
Anzitutto la crisi, secondo «The New York Times» del 17 maggio, è cominciata con la peggiore delle provocazioni quando una squadra di poliziotti israeliani, il 13 aprile, ha profanato la moschea di al-Aqsa, il più importante edificio musulmano di Gerusalemme. Vi sono entrati e hanno tagliato i cavi elettrici collegati agli altoparlanti dei minareti. Lo avrebbero fatto per evitare che le preghiere disturbassero il discorso del presidente israeliano nel giorno della Memoria.
La crisi si è ulteriormente politicizzata quando è stato chiaro che le reazioni di alcune personalità nascondevano un calcolo politico strettamente personale. Il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, era afflitto da un calo di popolarità e sembrava essere convinto che una prova di forza gliel’avrebbe restituita, soprattutto nelle aree più battagliere della società israeliana dove gruppi di estremisti, secondo la stampa americana, si sarebbero serviti di WhatsApp per diffondere il motto “Morte agli arabi” e invitare i cittadini israeliani a scendere in piazza contro i palestinesi residenti in Israele.
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ambizioni medio-orientali soprattutto nelle zone più ricche di carburanti (lo ha dimostrato in Libia recentemente), e non può voltare le spalle ai palestinesi.
Nelle politiche interne di alcuni Paesi (fra i quali l’Italia) il favore riservato a Israele sembra essere dovuto ai sentimenti anti-musulmani piuttosto che a simpatie filo-israeliane. E Israele, infine, in queste circostanze, non ha fatto molto per conquistare nuove simpatie. La distruzione del palazzo della stampa nella striscia di Gaza è stata una mossa che un brillante politico democristiano avrebbe definito “improvvida”.
In una situazione così imbrogliata vi era il rischio che la posta in gioco di questo ennesimo scontro arabo-israeliano fosse soprattutto la reputazione e la credibilità di Israele nella società internazionale. Per molti anni il trattamento riservato allo Stato ebraico, nelle sue frequenti crisi con il mondo arabo e in altre vicende internazionali, teneva conto delle ingiustizie subìte soprattutto (ma non solo) nei lager tedeschi; e perdonava o ignorava ciò che in altri casi sarebbe stato considerato una colpa o un errore. Oggi, la società internazionale potrebbe non essere più disposta a permettere che gli orrori sofferti durante le persecuzioni naziste consentano agli eredi delle vittime di cacciare i palestinesi dalle loro case. Il problema, fortunatamente, è stato risolto dall’intervento con cui il presidente degli Stati Uniti è riuscito a convincere Netanyahu ad accettare il “cessate il fuoco”. Joe Biden vi sarebbe riuscito perché aveva fatto amicizia con l’uomo politico israeliano quando questi era il numero due dell’ambasciata del suo Paese a Washington e, beninteso, non voleva perdere l’amicizia degli Stati Uniti.
Si sono accesi nel frattempo altri focolai medio-orientali. Il più pericoloso è quello iraniano. Durante la presidenza di Barack Obama i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e la Germania si erano accordati (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) per consentire all’Iran l’arricchimento del suo uranio, ma a una percentuale che non avrebbe dovuto superare il 3,67%. L’accordo fu firmato a Vienna il 14 luglio 2015 e sembrava aver risolto uno dei maggiori problemi della regione. Ma Donald Trump, non appena eletto alla Casa Bianca, aveva ceduto alle richieste d’Israele e l’8 maggio 2018 aveva proclamato che il suo Paese avrebbe denunciato il Trattato di Vienna. Più recentemente, con l’elezione di Biden alla presidenza, un accordo con l’Iran sembra essere nuovamente possibile. Ma questo è soltanto un episodio nella storia delle pessime relazioni fra Iran e Israele. La posta in gioco è ormai l’arma atomica. Finché Israele potrà disporne non sarà facile persuadere l’Iran a farne a meno. In questo quadro poco promettente vi è anche fortunata-mente una buona notizia. Il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi è tornato in campo e, dopo un lungo silenzio, ha avuto una parte importante nel riuscito tentativo di persuadere arabi e musulmani, durante il loro ultimo conflitto, ad abbassare le armi. Con tutte le sue occasionali carenze, l’Egitto è un indispensabile protagonista della politica araba e un necessario mediatore nei rapporti fra quel mondo e l’Europa.