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punto di vista 4/2018

punto di vista I nodi della Brexit
Sergio Romano biografia

La Gran Bretagna uscirà dall’Unione europea nel marzo 2019. Mentre scrivo non so ancora quali soluzioni siano state trovate per i problemi non ancora risolti.
Le notizie s’inseguono e si contraddicono.
All’inizio di novembre qualcuno a Londra si è detto ufficiosamente convinto che gli ultimi nodi fossero stati sciolti e che la fine del negoziato sarebbe stata annunciata nel giro di pochi giorni.
Sembrava risolto anche il problema del confine tra la Repubblica irlandese e quella zona dell’Ulster che appartiene alla Gran Bretagna.
Il confine era scomparso dopo gli accordi del Venerdì Santo, il 10 aprile 1998, quando i due stati (la Repubblica e il Regno Unito) erano entrambi membri dell’Unione europea. E farebbe una nuova apparizione se la Gran Bretagna uscisse, senza accordi speciali dal mercato unico.
Ma la buona notizia era prematura ed è stata corretta.
Sembrava anche, nello stesso periodo, che fosse stata raggiunta una intesa sui servizi finanziari e che ciascuna delle due parti (Ue e Regno Unito) avrebbe riconosciuto i sistemi regolamentari dell’altra. Ma anche questa notizia non teneva conto di alcuni punti ancora discussi e contestati. Secondo «Il Sole 24 Ore», intanto, erano sempre più numerose, con il passare dei giorni, le banche britanniche «che stavano aprendo o ampliando le sedi in paesi della Ue o trasferendo personale per poter continuare a servire i clienti europei dopo il 29 marzo». Secondo il «Financial Times», le offerte migliori, per quelle che vogliono trasferirsi, verrebbero da Milano, Francoforte e Parigi.
Queste preoccupazioni non concernono soltanto le istituzioni finanziarie. Secondo «La Stampa», il quotidiano torinese, sembra che molti cittadini del Regno Unito temano di perdere i diritti conquistati con l’appartenenza all’Unione europea e cerchino di avere, insieme alla propria cittadinanza, quella di un paese dell’eurozona. L’Irlanda la garantisce a chiunque abbia un genitore o nonno irlandese ed è quindi il paese più corteggiato con 80.750 domande nel 2017; una cifra che verrà verosimilmente superata nel 2018.
Ma vi sono anche domande di cittadinanza indirizzate alla Germania, soprattutto da discendenti di esuli ebrei, e all’Italia, da coniugi inglesi di cittadini italiani.
Il fenomeno della doppia cittadinanza è sempre più diffuso e dimostra quanto sia cambiato negli ultimi decenni, non soltanto in Europa, il concetto di nazionalità.
Il negoziato con l’Unione europea è già di per sé difficile, ma è ulteriormente complicato dalla posta in gioco.
I partigiani della Brexit avevano vinto il referendum spiegando ai loro elettori che l’uscita dalla Ue avrebbe restituito alla Gran Bretagna il diritto di muoversi con maggiore libertà nella società internazionale e di meglio sfruttare le virtù e le esperienze che il paese aveva accumulato nel corso della sua storia. È un programma non troppo diverso da quello che Donald Trump ha adottato per gli Stati Uniti e che avrebbe reso il Regno Unito, secondo i ‘brexiter’, «great again». Questa linea nazional-populista è stata perseguita con maggiore eleganza di quanto sia accaduto a Washington e nelle capitali europee del sovranismo, come Budapest, Varsavia e Vienna. Ma la matrice del fenomeno è la stessa: la diffusa illusione che un paese possa conseguire da solo maggiori obiettivi di quanti ne realizzerebbe come componente di una grande organizzazione internazionale.
È questa la tesi di un membro del governo conservatore presieduto da Theresa May. Si chiama Liam Fox, è segretario di stato per il commercio internazionale dal 2016 e sembra convinto che una «Gran Bretagna globale», come ama definire il suo paese, potrebbe stipulare utili accordi con tutti i paesi del mondo.
Era questa certamente la tesi di Boris Johnson quando era ministro degli Esteri (si è dimesso nel luglio 2018 per protestare contro la linea conciliante di Theresa May). Ma né Fox né gli altri brexiter del governo sembrano capire che quegli accordi, molto probabilmente, offrirebbero alla Gran Bretagna vantaggi molto più modesti di quelli ottenuti dall’Unione europea quando rappresentava, al tavolo delle trattative, tutti i suoi esponenti.
È lo stesso errore che stanno commettendo oggi tutti i partiti sovranisti europei quando sostengono che il loro paese, secondo un motto dell’Italia risorgimentale, deve «fare da sé».
Cerco di comprendere lo stato d’animo del nazionalismo britannico. Il paese è stato per quasi due secoli un grande Impero. Ha dovuto cedere agli Stati Uniti, sin dalla fine del XIX secolo, la posizione egemonica che aveva esercitato nelle Americhe, ma è il solo stato europeo, con l’Unione Sovietica, che sia uscito vincitore dalla Seconda guerra mondiale.
Ha concesso l’indipendenza alle sue colonie in Africa e in Asia, ma è riuscito a riunirle in una sorta di confederazione (il Commonwealth) di cui Londra era la capitale morale.
Ha dovuto riconoscere agli Stati Uniti la leadership dell’Occidente democratico, diventando però, accanto al colosso americano, una sorta di fratello maggiore onorario, collocato su uno scalino più alto di quelli riservati agli altri alleati europei.
Il suo ruolo internazionale si è progressivamente rimpicciolito, godendo tuttavia per molto tempo, pur sempre, di un’autorità e di un prestigio maggiori di quelli dei suoi partner.
Il suo Commonwealth economico (European Free Trade Organization) non è mai decollato e il Regno Unito ha dovuto chiedere di essere ammesso alla Comunità economica europea, riuscendo comunque a ottenere, per molte materie, uno status preferenziale. Non è più una potenza imperiale, ma il folklore di casa reale, le sue pittoresche tradizioni, le qualità della sua burocrazia, le sue Forze armate, le sue università, la sua editoria e il suo giornalismo conservano il fascino di un grande passato.
Londra è una metropoli internazionale che attrae i talenti del mondo. E sono, per l’appunto, le sue doti e la sua vitalità che l’hanno resa sempre meno inglese; e non è sorprendente che in occasione del referendum sulla Brexit, Londra e, più generalmente, la gioventù britannica abbiano espresso il desiderio di restare in Europa.
È questa anche la posizione della Scozia, un vecchio regno che ha permesso all’Inghilterra di chiamarsi United Kingdom dal 1° maggio 1707. Vi sarà ancora un Regno Unito quando la Gran Bretagna, nel marzo del 2019, sarà uscita dall’Unione europea?

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