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GNOSIS 4/2005
Violenza giovanile negli Anni Settanta
movimento, piccole storie ed immense tragedie.


Sandro PROVVISIONATO

Le analisi e le interpretazioni di quanto accadde durante gli anni di piombo in Italia sono così sedimentate da essere state ‘oggettivizzate’, vale a dire che son divenute esse stesse ‘la storia’ da ricordare e da raccontare. I fatti, invece, sono stati spesso tralasciati o trasformati in un sottinteso storico, in una tautologia evitabile che ha rischiato di discriminare anche la conoscenza che le nuove generazioni potevano avere di quel periodo. Esiste il rischio, dunque, che quando si riflette su quegli anni l’opinione venga espressa prima dei fatti, in un contorto e paradossale meccanismo che è più pregiudizio che giudizio. Esistono dei casi, però, in cui la storia ritrova una sua dimensione e si riappacifica con la realtà; esistono degli autori che ti descrivono la foto e non disegnano un quadro astratto. Esistono articoli da custodire gelosamente e recuperare come un breviario quando, prima di esprimere una opinione, si vuole rendere omaggio alla verità e alle tante vite inutilmente e tragicamente perse.


Il fenomeno tutto italiano che va sotto il nome di violenza degli anni Settanta - cosa ben distinta da un altro fenomeno, anch’esso marcatamente italiano, il terrorismo - nasce da una fine. La fine della spinta, di per sé innovativa, di quello che passerà alla storia come il movimento del ’68.
L’esplosione del ’68 italiano non è che l’unificarsi, negli strati giovanili più culturalmente evoluti, delle mille tensioni che in tutto il mondo occidentale, ma anche in alcuni paesi dell’est europeo all’epoca sotto controllo sovietico, si qualificano come “beat generation”, una generazione protestataria, formatasi all’interno del processo neocapitalistico successivo agli assestamenti degli squilibri prodotti dal conflitto bellico mondiale.


foto ansa

In altre parole il neocapitalismo propone valori, modelli e percorsi che una parte dei giovani, destinata ad incarnarsi nella futura classe dirigente, respinge, e lo fa inizialmente persino superando le grandi ideologie.
L’unificarsi di questa area di protesta dentro le mura delle città universitarie avviene a Berkeley come a Parigi, a Tokyo come a Praga, a Berlino come a Roma e a Milano. Diversi sono i tempi perché diversi sono i contesti politici e sociali. Ma le rivolte dei campus americani del ’64 equivalgono al maggio francese o all’inverno-primavera del ’67-’68 in Italia.
Il primo punto di domanda sta nel perché ovunque, e quindi anche in Italia, il “’68” si esaurisca così in fretta e soprattutto perché, invece, solo in Italia generi un’onda lunga di violenza che finirà con l’esaurirsi solo nei primissimi anni Ottanta.
Un primo elemento di comprensione ci viene da una constatazione. Il movimento del ’68 italiano - che nasce, è bene precisarlo, come movimento di studenti, senza alcuna identità marxista, ma come movimento spontaneo e unitario con l’unico collante dell’antiautoritarismo in tutte le sue forme - non riesce a produrre in termini di soggettività una forma politica capace di dialogare con tutte le tematiche nuove che emergono in una società in pieno sviluppo come era l’Italia di quel periodo storico.
Il movimento stesso, inoltre, trova chiusure in tutti i settori della società. Le trova nell’apparato statale che si limita a reprimerlo, nella sinistra comunista, ma anche in quella più socialista e libertaria e infine nella destra che, addirittura, il 16 marzo del ’68 commette l’errore storico, foriero di tremendi sviluppi, di prendere d’assalto l’ateneo di Roma.
Questo tipo di movimento, così isolato e così sfibrato da lotte eminentemente studentesche, sul finire della sua esistenza trova un unico, parziale, interlocutore nella classe operaia italiana che scende nelle piazze per la più massiccia stagione sindacale del dopoguerra.
Ed è qui, in questa parziale contaminazione, che avviene qualcosa di paradossale: un vero e proprio scambio di geni.
I valori dell’assemblearismo, della partecipazione diretta, del rifiuto del verticismo, tipici del movimento studentesco sessantottino, diventano patrimonio innovativo di un sindacato vecchio e burocratizzato - capace di rinnovarsi, ad esempio, con la creazione dei consigli di fabbrica - che a sua volta trasmette al movimento giovanile tutto il peggio della tradizione del movimento operaio, in primis l’ideologismo, il settarismo e la logica dell’appartenenza.
E’ un’osmosi che si tradurrà per gli uni nell’”autunno caldo” e per gli altri nella morte del movimento studentesco e nella nascita di quelli che spregiativamente verranno chiamati “gruppuscoli” e che, inevitabilmente, andranno tutti a collocarsi alla sinistra del più forte Partito Comunista d’Occidente.
Come se non bastasse, alla fine del suo percorso il morente movimento del ’68 finirà col trovare sulla sua strada l’avvio della stagione più cupa che l’Italia Repubblicana abbia mai conosciuto: la stagione delle bombe e delle stragi.


La variabile stragista

Il 12 dicembre 1969, la strage di piazza Fontana, oltre a rappresentare una data epocale nella recente storia italiana, interrompe in modo traumatico il discorso che il movimento del ’68 aveva appena cominciato. Diventa obbligatorio per il movimento stesso, dopo quella bomba, porsi domande impreviste.


da www.cronologia.it/storia

Prima della strage del 12 dicembre, gli ultimi morti di piazza erano stati: nel 1962, a Milano, lo studente Ardizzone, ucciso in scontri con la polizia durante una manifestazione di solidarietà con il popolo spagnolo; poi, nel 1966, c'era stata la morte di Paolo Rossi all'università di Roma e quindi i braccianti uccisi ad Avola nel 1968 e a Battipaglia l'anno dopo. La strage, inattesa e brutale, crea quindi un'angoscia del tutto nuova: l'angoscia del colpo di Stato.
Oggi a nessuno verrebbe in mente che esiste la possibilità di svegliarsi una mattina con i carri armati sotto casa. Allora invece, dopo l’esperienza greca di due anni prima, il golpe era quantomai all’ordine del giorno. La bomba di piazza Fontana finisce col porre ad ampi strati giovanili un problema immenso: la difesa degli spazi di democrazia conquistati di fronte all'ipotesi di una soluzione eversiva di destra, cioè il colpo di stato militare.
E’ in questo contesto - che qui abbiamo potuto solo sintetizzare - che cominciano a germogliare i primi semi della violenza più brutale. Nell’area giovanile, a sinistra come a destra, la logica dell’appartenenza politica comincia ad ammantarsi del dato totalizzante dell’ideologia.
Per decine di migliaia di giovani l’impegno politico finisce col trasformarsi in militanza politica. Quello che era un movimento variegato, ma sostanzialmente unitario, si modifica in un frastagliato arcipelago di sigle e simboli, tutti con la falce ed il martello, ciascuno impegnato su un unico versante: la lotta per l'egemonia.
Comincia al contempo la fase, ciclica, dello scontro fascismo-antifascismo, uno scontro che a sinistra si basa interamente sul recupero dei valori resistenziali, ma di un antifascismo militante in cui lo spirito della resistenza veniva letto soltanto come fatto di forza e di durezza. Un recupero ideologico senza alcuna innovazione, seguendo la vecchia tematica della Resistenza tradita.
Sull’altro versante ci sono i giovani di destra, assediati nel loro minoritarismo, un assedio oltre che fisico anche culturale e politico. L'inizio degli anni Settanta rappresenta per la destra giovanile un periodo assai povero sotto il profilo della penetrazione politica. Quale proposta contrapporre ai movimenti giovanili della sinistra che vanno permeando di sé anche le mode, che trovano spazio sui media, che certamente sono in grado di attrarre maggiormente con le loro idee rivoluzionarie?
Possono bastare i valori tradizionali della patria, della bandiera, della famiglia, dell'onore, quando dall'altra parte della barricata si impongono concezioni che hanno il pregio della modernità e di una certa trasgressione proprio di quel tipo di valori?
La violenza diventa in questo contesto il nodo di tutto, a sinistra come a destra. L’anno della svolta violenta sarà il 1972.


Una generazione di violenti?

Gli anni Settanta: una generazione di violenti? Oppure anni violenti perché permeati di tensioni che sono il portato sociale di una società in rapida trasformazione? Dove si annida la violenza? Dov’è il suo germe? Nelle ideologie? Nella pratica di sparute minoranze eversive? Oppure la violenza come necessità combinata di repressione e risposta alla repressione? Violenza come progetto? O violenza come bisogno di catarsi nei confronti di un mondo che non si ama? C'è violenza e violenza? La violenza di massa è giusta? E quella individuale? E la violenza del potere? Esiste una violenza giustificabile e necessaria?
La nuova sinistra raccolta nei gruppi si arrovellerà lungo un intero decennio attorno a questi interrogativi, finendo soltanto con il distinguere tra la violenza “di risposta” (e quindi “giusta e necessaria”) e quella di “iniziativa” (e perciò “sbagliata” o quantomeno da discutere caso per caso).
La destra estrema e giovane, già impregnata - se non altro sotto il profilo dell’immagine - del concetto di violenza, non sembra porsi il problema a livello teorico, impegnata com'è nell'autodifesa che spesso si traduce in raid aggressivi e fini a sé stessi.
Ma c'è qualcuno che dal suo punto di vista ha risolto tutti i problemi relativi. Qualcuno che si colloca a sinistra. O meglio alla sua estremità.
Il 3 marzo 1972, un commando composto da tre uomini sequestra l'ing. Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit Siemens. Le Brigate Rosse, dopo una serie di piccole azioni, entrano clamorosamente sulla scena della politica italiana, un palcoscenico che terranno per 12 anni da interpreti di primo piano e ancora all’inizio del secondo millennio come macabre comparse del terrore.
Otto giorni dopo, l'11 marzo 1972, Milano vive, per la prima volta in maniera tanto diffusa, un violento episodio di guerriglia urbana. Una manifestazione indetta dalla sinistra extraparlamentare sfocia in incidenti con la polizia. I militanti di Potere Operaio, in particolare, rispondono alle cariche colpo su colpo, trasformando il centro della città in terreno di guerriglia. Un passante, il pensionato Giuseppe Tavecchio, muore colpito alla testa da un candelotto fumogeno sparato dalla polizia.
Non è certo la prima volta che militanti di estrema sinistra e polizia si scontrano, ma è in assoluto la prima volta che gli scontri sembrano pianificati in anticipo dai servizi d'ordine dei gruppi extraparlamentari.
Eppure qualcosa di analogo era già accaduto, anche se con meno risonanza, tre mesi prima, esattamente il 12 dicembre 1971.
Dal 1970 in poi la data del 12 dicembre, anniversario della strage di piazza Fontana, diventa una data difficile e drammatica. Proprio nel 1970, il 12 dicembre a Milano, era stato ucciso da un candelotto sparato dalla polizia ad altezza d'uomo lo studente abruzzese Saverio Saltarelli, militante del Movimento Studentesco della Statale.
L’anno dopo, il 12 dicembre del '71, coincide con l'elezione in corso del presidente della Repubblica, alla fine del settennato di Saragat e con la questione aperta dalla candidatura di Fanfani. Lotta Continua e Il Manifesto, altri due formazioni di quella che allora si chiamava la “nuova sinistra”, avevano lanciato contro Fanfani a capo dello Stato la campagna del “Fanfascismo”.
Era quindi un momento di particolare tensione politica. In quel 12 dicembre viene indetta a Milano una grande manifestazione. La città in quell'occasione è letteralmente accerchiata da polizia e carabinieri. Da tutta Italia convergono su Milano migliaia di persone.
Senonché, nella notte che precede la manifestazione, si verifica una doppia spaccatura in seno al “Comitato contro la strage di Stato”, composto da tutti i maggiori gruppi della sinistra extraparlamentare. Il dilemma è questo: le forze di polizia non tollereranno alcun corteo, ma consentiranno soltanto un comizio alla città universitaria, molto lontano dal centro di Milano. Allora che fare? Accettare di svolgere un comizio e basta, oppure affrontare fisicamente il divieto?
La prima spaccatura avviene con il gruppo del Manifesto che, pur non dissociandosi dalla manifestazione, esce dal Comitato e non partecipa più alle riunioni organizzative. La seconda spaccatura si verifica invece, in seno al Comitato stesso, tra Lotta Continua e Potere Operaio. Lotta Continua sostiene che sarebbe una follia andare allo scontro.
Potere Operaio afferma invece il contrario e cioè che lo scontro fisico è ormai divenuto indispensabile: il giorno dopo gli scontri ci sono, ma senza conseguenze irreparabili. La divaricazione che si verificherà negli anni successivi ha i suoi prodromi proprio in quella terribile notte tra 1'11 e il 12 dicembre 1971. Ed il modo in cui questa divaricazione comincerà a manifestarsi è dell'11 marzo 1972 con la guerriglia nel centro di Milano.


Quel fatidico marzo 1972

In quel mese di marzo accadono tre episodi profondamente correlati. Due li abbiamo visti: il 3 marzo le BR sequestrano Macchiarini; 1'11 marzo ci sono gli scontri in piazza a Milano.
Appena quattro giorni dopo, il 15 marzo, sotto un traliccio dell'alta tensione, a Segrate, vicino a Milano, viene trovato il cadavere dell'editore Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato la sera prima da un ordigno che lui stesso stava collocando. Tra questi tre fatti - che accadono nel giro di 12 giorni – la connessione è profonda. Non che ci sia un rapporto tra il sequestro Macchiarini e gli scontri dell'11 marzo, ma è invece il terzo fatto, la morte di Feltrinelli, ad essere connesso alle altre due vicende.
Nel clima della primavera 1972, cioè in prossimità della campagna elettorale per le politiche del 7 maggio, le prime elezioni anticipate che avvengono in Italia, un fatto a cui oggi siamo abituati, ma che allora rappresentava qualcosa di traumatico, Feltrinelli ha come punto fisso il problema del colpo di Stato, un problema che dal '68-'69 sistematicamente ripropone in modo ossessivo. Di fronte all'uscita allo scoperto delle BR e al primo episodio concreto di violenza di massa, Feltrinelli ha quasi la sensazione di essere tagliato fuori e allora decide di minare un traliccio, per dimostrare di essere in grado anche lui di passare all'azione.
E’ allora tra l'inverno del 1971 e la primavera del 1972 che il problema della violenza, del suo uso, della sua qualità, diventa per la sinistra extraparlamentare una questione più che mai viva, un nodo da sciogliere.


Il delitto Calabresi

Due colpi di pistola sparati alla nuca di un commissario di polizia, il 17 maggio 1972, simboleggiano, a tutt'oggi, un altro nodo, storico e politico al tempo stesso, forse destinato a restare ancora a lungo insoluto.
Quel 17 maggio, dieci giorni esatti dopo le elezioni politiche anticipate, cade in un agguato il commissario di polizia Luigi Calabresi, l'uomo che aveva avviato le indagini sulla strage di piazza Fontana, arrestando Valpreda, accusando gli anarchici e sposando la pista rossa per la bomba alla banca dell'Agricoltura.
Calabresi era il poliziotto più odiato dall'intera sinistra extra-parlamentare, da quei settori politici, cioè, che lo ritenevano responsabile della morte per “defenestrazione” di un altro anarchico, Giuseppe Pinelli.
Il commissario era diventato, in pochissimo tempo, il simbolo di uno Stato arcigno, tramaiolo, oscuro, arroccato a difesa della propria immutabilità. Il simbolo di qualcosa di tangibile: la persecuzione della sinistra, i pericoli di golpe, l'attacco ad un progetto ancora caotico ed embrionale di cambiamento. Luigi Calabresi era per molti il ‘nemico del proletariato’.
Non è questo l’ambito dove tornare su un omicidio che ha avuto la sua lunga e controversa storia giudiziaria. Ma è indubbio che il delitto Calabresi rappresenti un altro snodo nell’affermarsi in Italia di una trama violenta che appare inarrestabile.
Anche nei settori della destra giovanile, in quel periodo, il tema della violenza di piazza è ormai all’ordine del giorno. Ma non è certamente un argomento di cui si discute al decimo congresso del MSI, che si tiene al Palaeur di Roma, dal 18 al 21 gennaio 1973, dove invece il partito di Almirante sceglie di indossare il famoso doppiopetto.
Anzi è proprio lo svolgimento del congresso del MSI-DN ad offrire alla sinistra estrema un argomento di mobilitazione. Torna di stretta attualità l'”antifascismo militante”. Nella capitale un'imponente manifestazione viene organizzata sulla parola d'ordine “18 gennaio: bandiere rosse a Roma”.
Un corteo, al grido di “Andreotti, Almirante, le forche sono tante”, si muove da porta San Paolo, luogo scelto come simbolo antifascista della carica subita nel luglio 1960 dai parlamentari di sinistra che erano alla testa di una manifestazione contro il governo Tambroni, intenzionato a far svolgere il congresso del MSI a Genova, città medaglia d'oro della Resistenza. Il corteo tenta di imboccare la via Ostiense per dirigersi verso l'EUR dove è in corso il congresso missino, ma si scontra duramente con le forze dell’ordine.
Il 23 gennaio anche Milano viene investita dal tema dell'antifascismo: lo studente Roberto Franceschi, militante del Movimento Studentesco della Statale, rimane ucciso, davanti all'università Bocconi, colpito alla testa da un proiettile durante scontri con la polizia nel corso di una manifestazione contro il neofascismo che proprio a Milano è da qualche tempo tornato quotidianamente in piazza.


Il giovedì nero di Milano

Punto di ritrovo dell'estrema destra milanese: piazza San Babila, nel cuore della città, dove si riunisce un nutrito gruppo di giovani. Li chiamano i sanbabilini. Il fuoco sta covando sotto la cenere. Il 7 aprile la politica della strage fa sfiorare la carneficina. Nella toilette del treno Torino-Roma una bomba esplode tra le mani di Nico Azzi, un giovane estremista di destra legato al gruppo La Fenice. Azzi stava collocando l'ordigno, dopo aver passeggiato tra gli scompartimenti, pare con altri camerati, con ben in vista il giornale Lotta Continua, allo scopo di far ricadere su questa organizzazione l'attentato. Come una mazzata, il clamore sollevato dalla strage sfiorata si rivolta sugli ambienti di destra e c'è di nuovo chi, da sinistra, chiede la messa al bando del MSI-DN.
È anche per reagire al rinnovato senso di isolamento cui si sentono costretti, che i missini decidono di organizzare per il 12 aprile 1973, a Milano, una manifestazione "contro la violenza", come da destra non se ne vedeva da anni. È una storia che meriterebbe di essere raccontata nei dettagli, una vera iniziativa-boomerang, una tragedia che getterà il MSI-DN nel caos, lasciando in un lago di sangue sul selciato un giovane poliziotto venuto dal sud: Antonio Marino, ucciso da una bomba lanciata dal corteo neofascista.


Il rogo di Primavalle

Trascorrono appena quattro giorni e l’orrore rimbalza a Roma sul versante politicamente opposto: tre militanti marginali di Potere Operaio, raccolti in un’improbabile “Brigata Tanas” credono di portare la rivoluzione in borgata, appiccando il fuoco davanti all’abitazione del segretario della sezione missina di Primavalle.
La famiglia Mattei, travolta dall’odio, vede bruciare vivi due dei suoi sei figli: è il rogo di Primavalle, una ferita ancora aperta nella coscienza di molti, a destra come a sinistra. Il rogo di Primavalle può essere considerato in assoluto la prima azione terroristica con finalità omicidiarie avvenuta in Italia.


foto ansa

Ed è singolare, in un Paese che vedrà negli anni successivi una crescita esponenziale del terrorismo rosso più fosco e spietato, mirato all’eliminazione fisica dell’avversario, che il primo vero fatto di sangue sia promosso non da una formazione clandestina organizzata, ma da un piccolo manipolo di cultori della violenza perfettamente inserito nel tessuto del vivere quotidiano.
Il rogo di Primavalle è anche all’origine di una faida politica che, specie nella capitale, si protrarrà per anni: uno dei primi effetti lo troviamo il 28 febbraio 1975, quattro giorni dopo l’inizio del processo di primo grado contro i tre responsabili del rogo stesso: durante incidenti creati da militanti di sinistra muore lo studente greco, militante di destra, Mikis Mantakas.
Ad ucciderlo due futuri terroristi: Fabrizio Panzieri ed Alvaro Lojacono. Quest’ultimo lo ritroveremo tre anni dopo, in via Fani, nel commando delle Brigate Rosse che rapirà Aldo Moro, dopo averne sterminato la scorta.
E’ proprio il rogo di Primavalle a produrre nei settori della formazione da cui provengono i tre incendiari una sorta di mutazione gentica. E’ infatti proprio il gruppo di Potere Operaio nel 1973 a generare, con il suo scioglimento, quella zona violenta che finirà sotto il nome di area dell’autonomia operaia, non un gruppo organizzato, ma una sorta di network della violenza che si radicherà in tempo brevissimo in particolare in città come Roma, Milano, Padova, Torino e Bologna e che vivrà la sua esplosione all’interno di un altro movimento, quello del ’77.
Il 1973 è anche l’anno in cui un altro gruppo, Lotta Continua, subisce una forte emorragia di militanti, specie al sud, verso l’area della lotta armata: nascono i NAP, Nuclei Armati proletari, che avranno vita breve quanto sanguinosissima.
Il golpe cileno dello stesso anno fornirà a quanti a sinistra intendono percorrere la strada della violenza un altro alibi: la sconfitta del progetto democratico di Allende convince non pochi giovani dell’ultrasinistra che la via parlamentare è senza sbocchi e che occorre impugnare le armi. Un altro salto nel buio.


Nel gorgo della faida

La violenza puntualmente riesplode nei primi mesi del 1975. Proprio mentre le BR, decimate dagli arresti, appaiono come un fenomeno in fase di esaurimento.
È singolare, ma perfettamente spiegabile, questa altalena tra azioni avanguardiste (quelle delle BR o dei piccoli gruppi armati) e violenza di massa. I due fenomeni sono distanti: il primo schiaccia il secondo, il secondo trova spazio d'espressione nel silenzio del primo. Sarà così anche durante il periodo caldo del movimento del '77.
A Milano, neppure due settimane dopo l’assassinio, a Roma, di Mantakas, il 13 marzo, lo studente Sergio Ramelli, 17 anni appena, militante del Fronte della Gioventù, viene aggredito a colpi di chiave inglese da un servizio d'ordine di Avanguardia Operaia (morirà in ospedale dopo 48 giorni di agonia).
Sempre a Milano, dove le sprangate tra autonomia operaia e Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS) - la formazione che ha preso il posto del defunto Movimento Studentesco della Statale - sono all'ordine del giorno, il 15 aprile un giovane di destra uccide a colpi di pistola Claudio Varalli, militante della sinistra estrema.
La prateria è pronta per il grande incendio. Come non accadeva da tempo le città sono attraversate dai cortei della sinistra extraparlamentare, nelle cui fila, perfettamente organizzati, gli autonomi hanno buon gioco. Il giorno dopo l’assassinio di Varalli, durante un tentativo di assalto alla federazione milanese del MSI, da parte di un corteo egemonizzato fisicamente dall'autonomia operaia, c'è un'altra vittima: Giannino Zibecchi, dei CAF (Comitati Antifascisti), muore travolto da un camion dei carabinieri impegnato in un carosello.
Ma la primavera di morte non è ancora finita. Sempre in aprile a Torino, un dirigente di Lotta Continua, Tonino Micciché, è freddato a colpi di rivoltella da una guardia giurata, attivista della CISNAL, durante un'occupazione di case. A Firenze la polizia apre il fuoco durante incidenti con gruppetti di autonomi: cade Rodolfo Boschi, militante del PCI.
A Roma rimane paralizzato da un proiettile alla spina dorsale, durante un assalto alla sezione missina del Flaminio, Sirio Paccino, militante dell'autonomia. Ancora a Roma, ma in ottobre, cadrà il sedicenne Mario Zicchieri, militante del Fronte della Gioventù: gli sparano da un'auto in corsa davanti alla sezione periferica del Prenestino; per ritorsione, il giorno dopo, cade ucciso un altro giovanissimo, Antonio Corrado, "colpevole" di assomigliare ad un dirigente di Lotta Continua.
L' "antifascismo militante", mai del tutto sopito, compare di nuovo sulla scena delle tensioni politiche giovanili. E’ una risposta soprattutto fisica che negli anni '70 torna ciclicamente, in pratica dopo ogni grave fatto in cui rimane coinvolta, anche se indirettamente, la destra. Ma questa volta il fenomeno assume caratteri ancora più corposi. È un atteggiamento che rispolvera i valori resistenziali non soltanto a livello politico, ma anche nei comportamenti. In molti, nelle fila dell'autonomia, ma anche nei gruppi, è come se vestissero nuovamente i panni dei partigiani, come se ci fossero ancora la guerra e i fascisti al potere. A Milano, in particolare, accanto alle strutture dell'autonomia, raccolte attorno alla rivista Rosso, diversi collettivi si riuniscono nei circoli di Senza Tregua.
È proprio in questo periodo che a Roma i Comitati Autonomi Operai di via del Volsci si danno una struttura para-militare e gerarchizzano la loro impostazione di gruppo politico. A Torino è il momento in cui comincia l'emorragia che da Lotta Continua, attraverso i circoli autonomi, porterà molti militanti in Prima Linea.


Le elezioni politiche del 1976

Ma il peggio deve ancora venire. Punto di svolta del 1976 sono le elezioni politiche anticipate del 20 giugno. Ci si arriva con il quinto governo Moro (un monocolore DC) subentrato al Moro 4 (DC-PRI), dopo che in gennaio i socialisti hanno tolto il loro appoggio esterno all'esecutivo. E ci si arriva con l'ombra incombente dello scandalo Lockheed, con Rumor ormai compromesso e la DC e i partiti di centro in forte disagio.
Sulla spinta delle regionali dell'anno prima, c'è chi attende una svolta comunista che non ci sarà. Macroscopica, quanto inattesa, la sconfitta del cartello della nuova sinistra, raccolta tutta (c'è anche Lotta Continua) sotto il simbolo di Democrazia Proletaria (poco più di mezzo milione di voti, pari all'l,6 % e appena sei deputati).
Ai primi di novembre del 1976 Lotta Continua tiene a Rimini il suo congresso nazionale: sarà l'ultimo. Entrano defintivamente in crisi anche Il Manifesto e Avanguardia Operaia. Travolto dalla frantumazione e dalla morte dei gruppi, dalla crescita dell’autonomia operaia e dall’avvento di fenomeni quali il movimento femminista quel che resta del movimento del ’68 è ormai da considerare in libera uscita e quindi definitivamente privo di riferimenti e anche di controllo politico.
L’esperienza della ‘nuova sinistra’, erede del '68, otto anni dopo il grande movimento degli studenti si può dire definitivamente conclusa.
La delusione è forte ovunque. Per alcuni addirittura drammatica. Gruppi dell'autonomia - che nel corso dell'anno si sono rafforzati, insediandosi nei quartieri periferici e più poveri delle grandi città dove raccolgono le bollette della luce e del telefono per le autoriduzioni e promuovono le occupazioni di case - si sentono gli unici vincitori.
Durante la campagna elettorale hanno schernito i gruppi con la propaganda astensionistica: ‘Il nostro voto è la lotta’. E ora raccolgono i primi frutti. Tra l'ottobre e il dicembre 1976, nuovi circoli che si collocano nell'area dell'autonomia spuntano come funghi.
A Torino, Roma, Bologna, Padova. Ma anche a Napoli, Firenze, Genova. È una ragnatela che si estende e attira i militanti delusi, che riconoscono la sconfitta politica del progetto dei gruppi, che non capiscono ‘l'austerità’ di cui parla il PCI, che avversano l'ormai nascente ‘solidarietà nazionale’, che propongono in primo luogo a sé stessi un'idea sempre più utopica: quella dell'opposizione sociale, del mutamento rivoluzionario.
La palude dell'autonomia si addensa così di tensioni politiche e nevrosi giovanili. Salgono le nebbie di generici ribellismi e frustrazioni esistenziali, ma la scelta violenta generalizzata non è ancora quella prevalente.
Se vista da lontano, come movimento, l'area dell'autonomia sembra un canneto battuto dal vento, da vicino essa assomiglia a quei cerchi concentrici che si formano gettando un sasso in uno stagno. Ovunque la violenza, come ovvia conseguenza, dorme sotto un cumulo di pulsioni eterogenee. Ma le "schegge impazzite", a Milano in particolare, ma anche a Torino, sono già partite all'attacco.
A Milano chi cavalca la tigre dei Circoli Giovanili del Proletariato sono la rivista Rosso e il gruppo selezionato di Senza Tregua, fucina di futuri terroristi di Prima Linea, che hanno il chiodo fisso dell'antifascismo militante.
Il 29 aprile 1976 un loro commando uccide a revolverate il consigliere comunale missino Enrico Pedenovi. Una ‘semplice’ vendetta per un agguato neofascista di due giorni prima contro militanti dell'estrema sinistra (il giovane Gaetano Amoroso morirà il 30 aprile in ospedale). La scelta di Pedenovi è stata del tutto casuale perché è facile colpirlo. È un bancario, con orario e abitudini fisse.
Come per la strage di Primavalle di tre anni prima, l'omicidio di Pedenovi è un altro consistente sintomo del terrorismo diffuso. I due fatti hanno in comune il refrain dell'antifascismo "costi quel che costi", inteso come pratica esemplare e facilità dell'obiettivo.
È una forma di violenza che crescerà con progressione geometrica proprio su queste due basi a cui va aggiunta un'altra caratteristica: non ha bisogno di strutture, livelli di dibattito, strategie, documenti, linee politiche, compartimentazioni, direzioni strategiche. Basta essere in tre per fare la lotta armata, liberatoria nella sua semplicità, quanto nella sua inutilità.
Il 16 dicembre 1976 anche i più scettici hanno modo di capire che la rivolta sta per esplodere: centinaia di giovani, al canto dell’”Internazionale”, partecipano al funerale di Walter Alasia, un giovane brigatista ucciso a Sesto San Giovanni in uno scontro a fuoco con la polizia. Lo stesso giorno cortei che percorrono Milano per protestare contro la bomba esplosa in piazza Arnaldo a Brescia gridano: "Walter, Martino (Zicchitella, ucciso a Roma durante un agguato dei NAP al capo dell'antiterrorismo per il Lazio, Alfonso Noce. NDA.) non siete morti invano - Noi prenderemo presto il vostro mitra in mano".


La prateria del '77

I fiammiferi che incendiano la prateria del movimento del '77 sono tanti. Ma sono fiammiferi che trasformano immediatamente piccoli focherelli, all'apparenza circoscritti, in un incendio indomabile. È come se la prateria, secca e avvizzita, non attendesse altro che di essere infuocata.
Come nel '68 la rivolta esplode all'interno delle università.
Il primo fiammifero lo accende una circolare del ministero della pubblica istruzione, la "circolare Malfatti". In gennaio il ministro informa i rettori che gli studenti non potranno ripetere più di un esame della stessa materia, mentre prende corpo l'orientamento in seno al governo Andreotti di proporre il numero chiuso in alcune facoltà.
L'insoddisfazione esplode. La prima università ad essere occupata è quella di Palermo. Poi la protesta si sposta a Roma. È il primo segnale.
Le nuove culture fondate sulla ‘teoria dei bisogni’ e sulle letture affrettate di Agnes Heller e di Michel Foucault prendono piede rapidamente.
Ancora a Roma nascono gli Indiani metropolitani: si dipingono il volto, fanno girotondi, cantano e ballano, usano l'arma dell'ironia. La loro forza aggregante è un misto di angoscia, provocazione, goliardia ed esistenzialismo.
E accanto agli Indiani metropolitani, le femministe e poi gli ex militanti dei gruppi, i sessantottini di ritorno e più in là l'autonomia; una galassia ancora inesplorata che ha come minimo comune denominatore lo stare fuori e contro i partiti.
L'incendio della prateria si estende il 1° febbraio: un gruppo di estremisti di destra, per lo più del FUAN, alcuni con il volto coperto, divisi in due cortei, entrando all'università di Roma, lanciano bottiglie molotov davanti al rettorato e poi si dirigono verso le facoltà di Giurisprudenza e di Statistica.
Sono tutti giovanissimi e, anche se neofascisti, non odiano il nascente movimento del '77, come i loro fratelli maggiori quello del '68. Di certo non lo amano, ma la contrapposizione questa volta ha caratteri nuovi. Non è un caso che dopo il raid del 1° febbraio lo scontro duro tra destra e sinistra tornerà alla ribalta solo il 30 settembre dello stesso anno (uccisione di Walter Rossi), quando il movimento del '77 è ormai in aperta fase di riflusso.
Per quasi tutto il '77 la destra assumerà infatti un atteggiamento di "cauta osservazione".
Il raid dei neofascisti all'università ha l'effetto di un detonatore: lo scontro, durissimo, lascia sul campo lo studente di sinistra Guido Bellachioma, ferito alla testa da un colpo di pistola. Il 2 febbraio, per la prima volta, il movimento esce dall'università, proprio mentre il ministro Malfatti ritira la sua famigerata circolare. Ma ormai la lotta ha preso un'altra piega. In corteo migliaia di giovani cercano di raggiungere il "covo dei fascisti" in via Sommacampagna, non distante dall’ateneo. È una manifestazione spontanea, ma gli autonomi sanno come gestire il corteo. Davanti alla sede del Fronte della Gioventù vengono lanciate bottiglie incendiarie. La polizia carica e gli studenti si disperdono; il bilancio della giornata è allucinante: oltre all'agente Arboletti, che resterà paralizzato, due giovani autonomi del collettivo di via dei Volsci restano gravemente feriti: sono Paolo Tommasini e Leonardo Fortuna. Hanno 24 e 22 anni. Addosso ai due giovani vengono trovate una Smith & Wesson cal. 38 e una 7.65.
Il 15 febbraio il PCI - che aveva tacciato di “diciannovismo” il nascente movimento - commette un grave errore, questa volta di sottovalutazione: i suoi militanti inondano di volantini l'università in cui chiedono il "ripristino della vita democratica" e annunciano, per giovedì grasso, 17 febbraio, un comizio all'interno della città universitaria del segretario della CGIL Luciano Lama.
Il movimento si mobilita. È il “giovedì nero”. Alle 10 Lama arriva all'università scortato come un capo di Stato. Durante il comizio del leader sindacale, una carica violentissima, guidata dagli autonomi, spazza via il servizio d'ordine del PCI. La calma torna solo quando la scorta ha trascinato di peso Lama fuori dal recinto universitario.
Alle 17,40 di quel “giovedì nero” la polizia sgombera l'università. Per 11 giorni la cittadella universitaria resterà chiusa. Il 5 marzo ancora scontri per le vie di Roma tra movimento e polizia: molotov, colpi di pistola, auto rovesciate e date alle fiamme, vetrine di negozi infrante. È un'altra esplosione di cieca irrazionalità (perderà la vita l’agente di polizia Passamonti) in cui, ancora una volta, l'autonomia gioca la carta della violenza all'ombra del movimento.
L'11 marzo, alla vigilia della manifestazione nazionale del movimento a Roma, colpito da una pallottola alla schiena sparato da un plotone di carabinieri, muore a Bologna lo studente di Lotta Continua Francesco Lorusso mentre è in corso un tentativo di assalto ad un'assemblea di Comunione e Liberazione.
Bologna "la rossa", Bologna la grassa e tranquilla, è investita da un'inattesa ondata di rabbia e violenza.
I simboli dell'opulenza bolognese vengono devastati. Polizia e carabinieri evacuano l'università e a sera le autoblindo presidiano piazza Maggiore.


da www.donnamoderna.com

Il giorno dopo, Roma è una città che respira angoscia. È il 12 marzo, un sabato pomeriggio piovoso e grigio. La città è muta quando i 100 mila giovani giunti da ogni parte d'Italia cominciano a sfilare. Il traffico è fermo, i negozi chiusi. Polizia e carabinieri, in assetto di guerra con giubbotti e scafandri antiproiettile, presidiano la città, ma con discrezione. La coda del corteo deve ancora muoversi, quando scatta la scintilla: un gruppo di autonomi bolognesi, servendosi come copertura del troncone di corteo delle femministe, lancia molotov contro la sede della DC in piazza del Gesù. Il corteo sbanda, in parte arretra e in parte si disperde alle prime cariche della polizia.
La violenza dilaga per le vie del centro, tra il fumo dei lacrimogeni. Ancora vetrine di negozi infrante, barricate improvvisate e colpi d'arma da fuoco. Un’armeria verrà svaligiata.


La morte del movimento del ‘77

Il 12 marzo segna all'interno del movimento l'inizio della crisi e un primo sostanziale momento di riflusso. Non è solo l'uso della violenza a creare divisioni, ma soprattutto l'uso prevaricante e fine a sé stesso che ne fa l'autonomia operaia. Emerge poi in molti settori la sensazione di essere ormai prigionieri della spirale corteo-repressione-corteo e che tutto stia riconducendosi a un perdente braccio di ferro con lo Stato.
A questo punto il movimento è in agonia, ma le sue tragedie non sono finite: il 12 maggio, nel corso di una manifestazione a Roma, indetta dal Partito Radicale per il terzo anniversario della vittoria del “no” al referendum sul divorzio, vietata dalla questura, viene uccisa una giovane studentessa, Giorgiana Masi. Sotto accusa finiranno agenti in borghese della questura della capitale.
Due giorni dopo, a Milano, un gruppo di autonomi, staccatosi da un corteo che manifesta contro l'omicidio di Roma, attacca un drappello di poliziotti, sparando. Muore l'agente Antonino Custrà.
A questo punto l'unico tema che ancora animerà i settori giovanili che hanno dato vita al movimento del '77 resterà quello della “democrazia blindata” e delle “leggi liberticide”, argomenti sui quali i radicali lanciano una raccolta di firme per un referendum, mentre Lotta Continua convoca per il 23, 24 e 25 settembre a Bologna un “Convegno contro la repressione” a cui partecipano migliaia di giovani, oltre a numerosi intellettuali d'Oltralpe come Jean Paul Sartre, Simone De Beavouir, Felix Guattari.
A Bologna il movimento sembra ricomporsi nei suoi colori più variopinti. Gli autonomi restano relegati al palazzetto dello sport a discutere apertamente di lotta armata con tanto di osservatori delle BR.
Un ultimo barlume di tensioni si verifica, ancora a Roma, il 30 settembre quando, nel corso di uno scontro tra giovani di destra e di sinistra, rimane ucciso il giovane militante di Lotta Continua, Walter Rossi.
Ma il giorno dopo, l'orribile morte, a Torino, di Roberto De Crescenzio, un immigrato del sud, reo soltanto di trovarsi in un bar ritenuto ‘covo dei fascisti’, aprirà all'interno di quanto resta dell'ex nuova sinistra una lunga fase di riflessione e di autocritica.
De Crescenzio viene bruciato vivo dalle molotov lanciate dal solito spezzone di corteo che manifesta per Walter Rossi. Una morte atroce.
Da questo momento non esisterà più in Italia alcun movimento di massa a sinistra del PCI.


Una lunga scia di sangue

Gli anni che mancano alla fine del decennio saranno solo uno stillicidio di piccole, quanto atroci, vendette personali tra i due schieramenti: ancora antifascismo e anticomunismo, “militanti” entrambi.
Con una agghiacciante coda nel 1980, praticamente l’ultimo, salvo episodi isolati, in cui la violenza giovanile si manifesta in tutto il suo turgore. Basti un dato per raccontare questo anno terribile: nei primi tre mesi si conta un omicidio politico ogni quattro giorni.
Il 1980 è anche l’anno che si rivelerà decisivo, come punto di inizio, per la sconfitta di ogni ipotesi politica di lotta armata. Ma soprattutto è l'anno dei rebus più allarmanti, dei delitti in cui perfino la matrice dell'assassinio diventa indecifrabile.
La carica di morte che il terrorismo si porta dietro, come sua essenza interiore, da ormai dieci anni si è lentamente spostata: dalle maggiori organizzazioni armate è precipitosamente scivolata lungo il piano del vivere quotidiano di centinaia, forse migliaia di ragazzi.
Dal chiuso delle direzioni strategiche, delle colonne, dei grandi o piccoli raggruppamenti clandestini il fenomeno eversivo ha preso a dilagare in maniera scomposta. Ha alimentato prima il terrorismo diffuso, quello del “basta essere in tre per sentirsi un gruppo armato”, fino a scivolare poi nelle piccole esistenze di giovani che fanno ancora il liceo, nelle faide più assurde, tutte incentrate su tradizionali rivalità politiche che diventano interminabili guerre per bande.
La rappresentazione drammatica di uno scontro che si vorrebbe frontale, fra un'organizzazione armata e lo Stato, filtra fino a riprodursi nel microcosmo dei collettivi di sinistra di quartiere che si sentono ancora “il Movimento” (con la emme maiuscola) anche se da troppo tempo ormai il movimento, uscito dalle rovine del '77, è morto e sepolto.
Così come a destra le velleità spontaneistiche dei NAR si sono spinte fino a nutrire di illusioni giovani disperati che vivono nell'esaltazione dei miti del passato.
Lo scontro tra BR e Stato ha finito con lo strangolare tutto a sinistra del PCI e a convincere chi terrorista non è - e forse, nei suoi anni ancora acerbi, neppure si sente di esserlo - che il suo spazio politico non esiste più al di là di avere la pistola in tasca e credere che lottare non voglia dire costruire consenso attorno alle proprie idee ma solo cercare di distruggere il nemico.
Lo stesso è accaduto in tutti questi anni a destra, forse con in più una maggior spinta di acceleratore, perché a destra del MSI non c'è più nulla e anche prima c'è sempre stato molto poco. In quei piccoli mondi che sono i quartieri delle grandi città si finisce così per ingigantire, dall'una parte come dall'altra parte, simboli insignificanti.
L'innocua sezione della DC, quasi sempre chiusa, diventa il Potere; la caserma dei carabinieri, con tre piantoni e un brigadiere, lo Stato, mentre nel “fascista” o nel “comunista” che abitano dietro l'angolo, e che magari frequentano la stessa scuola, si materializzano le idee del nemico che vanno combattute.
Come se si fosse in guerra, chi abbandona il gruppo è un “traditore” e il termine “delazione” assume i connotati dell'infamia più grande, da punire con la morte. La “vendetta” poi è un piatto che va servito sempre caldo.
Piccole storie che diventano immense tragedie. E in alcuni casi le tragedie resteranno delitti misteriosi, omicidi insoluti, veri rebus di sangue.



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