GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 4/2005
Insieme di teoria economica, tecnologia ed industria
contro il terrorismo una risposta integrata


Gian Paolo TORIELLO

Psicologia, politica economica, strategie industriali e tecnologia: sono queste le tappe di un interessante percorso tra le difficoltà e le sfide che la lotta al terrorismo pone al nostro tradizionale modo di pensare. Un invito a riflettere sui meccanismi attraverso cui si formano le decisioni politiche in materia.. Un richiamo alla saggezza che proviene da modelli e teorie mai sufficientemente applicate. Il percorso proposto è forse complicato ma merita grande attenzione poiché il pericolo esiste adesso e adesso è necessario fare di tutto per impedire che il nostro stile di vita venga coattivamente trasformato. Alla fine è un invito a pensare, anche solo per un momento, in modo diverso.


foto ansa


La discontinuità dello scenario strategico

Se la corsa agli armamenti durante il periodo della Guerra Fredda, e le più o meno formalizzate annesse regole del gioco(1), hanno svolto efficacemente l’auspicato ruolo di deterrente nei confronti di un conflitto mondiale, ci si è accorti immediatamente che qualcosa era cambiato con il “Crollo del Muro”.
L’emergere di molteplici conflitti a livello regionale, ma con ripercussioni su larga scala, già evidenziava la necessità di capacità e requisiti nuovi rispetto allo scenario precedente: controllo del territorio ostile, flessibilità nel giocare su più campi contemporaneamente, velocità di dispiegamento delle forze, capacità di contenimento delle perdite umane, sono solo alcuni di essi.
Ma la vera discontinuità è rappresentata dall’irrompere preponderante sulla scena del terrorismo. Tale fattore trasforma radicalmente la natura delle minacce da contrastare, rispetto a quelle tipiche di guerre tra Stati, rendendole marcatamente asimmetriche, e come si vedrà, difficilmente arginabili con i tradizionali sistemi di difesa nei quali l’Occidente non ha rivali.


La natura delle nuove minacce terroristiche:
internazionali, asimmetriche e in dinamica trasformazione


Il carattere distintivo delle minacce terroristiche può essere identificato, oltre che nel prioritario ed evidente movente politico (es. influenzare l’equilibrio geo-politico nel mondo arabo), nell’obiettivo di provocare impatti che non si esauriscono nei danni materiali a persone o risorse. Gli atti ad esse collegati infatti, attraverso la generazione di ansia e incertezza, tendono a incidere in modo indotto sull’ordinario funzionamento di meccanismi e flussi della sfera personale, sociale, economica e politica dei sistemi evoluti, ormai sempre più complessi e globalizzati. Questo elemento è quello che maggiormente li contraddistingue dalla minaccia apportata dalle guerre tradizionali.
Andando a incidere sul normale e ordinario funzionamento di questi meccanismi e materializzandosi in modo apparentemente casuale e imprevedibile, queste minacce diffondono l’incertezza in modo capillare nel sistema, massimizzando la loro efficacia. Inoltre esse provocano nella sfera del pubblico coinvolto reazioni spesso emotive, grazie anche alla copertura “mediatica” ottenuta, che possono portare ad una sopravvalutazione di alcuni rischi piuttosto che alla sottovalutazione di altri e di conseguenza a “domandare” tipologie di contromisure non sempre ottimali. Questo pericolo è particolarmente presente e minaccioso nei regimi democratici occidentali, dove la politica può avere incentivo ad assecondare tali domande. Come vedremo, l’applicazione dell’analisi economica a queste problematiche può, tramite l’utilizzo degli strumenti logici da essa sviluppati e l’astrazione che spesso la contraddistingue, favorire l’adozione di una prospettiva sufficientemente “distaccata” e il più possibile razionale.
Tra le numerose dimensioni in trasformazione che caratterizzano oggi il terrorismo, vorrei porre l’attenzione sulla sua natura sempre più internazionale. Una minaccia terroristica assume connotazioni internazionali quando essa è in grado di coinvolgere due o più Paesi differenti in termini di nazionalità di autori e vittime, di comunità che ne subiscono l’impatto, di luogo in cui viene compiuto e in cui viene progettato e supportato un attentato, etc.etc. Se solo ripensiamo alla sua connaturata tendenza diffusiva e sistemica, è intuitivo comprendere che nell’era della globalizzazione esso tenda ad essere sempre più internazionale. Le implicazioni possono essere molto interessanti, come vedremo.
L’assetto organizzativo di cui oggi il terrorismo internazionale sembra essersi dotato è quello tipico di una struttura a rete (significato letterale del termine “Al Qaeda”) con:
- un centro pensante che si occupa di indirizzo e coordinamento, ma forse non è più operativo come un tempo;
- tanti moduli operativi formati da cellule periferiche, che spesso nascono spontaneamente e si muovono in autonomia.
L’indirizzo delle cellule e il loro coordinamento avviene spesso attraverso meccanismi cosiddetti “soft” (cioè basati su fattori intangibili), spesso addirittura taciti, che possono essere efficaci anche quando le misure di sicurezza si fanno più serrate e impedirebbero il dispiegarsi di strumenti “hard”. Si interpreta la ciclicità registrata dell’intensità dei fenomeni terroristici in questo senso, cioè che un attacco pianificato, nonostante il potenziamento delle contromisure che induce, generi una reazione a catena a cui seguono altri attacchi che spesso non sono programmati in modo esplicitamente coordinato ma indotti attraverso un coordinamento implicito.
La struttura a “rete” permette all’organizzazione di essere agile, flessibile e di colpire in modo differenziato, e sempre in ambito ristretto e localizzato, per opportunamente rendere gli incentivi alla reazione il più possibile “privati”. Allo stesso tempo tramite questo assetto sono messi in condivisione di tutta la rete asset materiali (es. armi, centri di addestramento, supporto logistico, …) ma in misura sempre più crescente immateriali (es. informazioni, know-how,…), e sono ammortizzati i correlati costi fissi, ottenendo così economie di scala, di scopo e di apprendimento. Come vedremo in seguito purtroppo non si può dire altrettanto per la comunità internazionale di Stati che ne è minacciata.
A differenza della testa pensante che si muove razionalmente sempre su uno sfondo politico (e forse economico…), il collante culturale e motivazionale che tiene insieme gli adepti è sempre meno socio-politico e sempre più religioso e fanatico (a partire dal 1979, anno dell’attacco all’ambasciata USA a Teheran). Il fattore abilitante di questo fenomeno è la dilagante diffusione del fondamentalismo religioso islamico. Un elemento fondante di questa dottrina è la guerra santa (“Jihad”), che prevede all’estremo l’eliminazione fisica degli “infedeli”, anche attraverso tecniche suicide (diffusione dei kamikaze).
Le implicazioni sono numerose e molto rilevanti.
L’obiettivo di eliminare gli “infedeli” può causare un elevato numero di vittime per incidente, soprattutto nella gente comune e non più solo nella categoria dei decisori politici.
Ciò è stato possibile soprattutto attraverso l’utilizzo diffuso della tecnica dei kamikaze che permette l’adozione di modalità operative di attacco e il raggiungimento di target prima impensabili (es. attacco alle Torri Gemelle).
Se la base del consenso delle organizzazioni è composta sempre di più da integralisti, il terrorismo tende ad auto-legittimarsi nel suo stesso manifestarsi tramite carneficine di “infedeli”, come strumento per costituire Stati Islamici nei paesi arabi.
Il proselitismo è molto più facile ed economico, anzi spesso si autoalimenta da solo.
L’effetto sugli incentivi da fornire agli adepti per compiere azioni è molto interessante e consiste nella sensibile riduzione dei “costi del personale” dell’organizzazione, essendo sufficiente fomentare una lotta sul piano religioso, per far passare l’incentivo economico in secondo piano.
Le possibilità di deterrenza di minacce e ritorsioni, in caso di fallimento come di successo degli attacchi, si riduce sia nei confronti degli autori (es. kamikaze), sia verso soggetti a loro collegati o “sponsor”.
L’efficacia degli strumenti e politiche “soft” (aiuti economici, supporti sociali…) diminuisce.
La sopravvivenza nel tempo dell’organizzazione è assicurata dalla capacità di resistenza e di essere tramandata della sua componente ideologica, anche se dovessero venire meno strutture fondamentali.
L’aspetto essenziale di questa struttura, da mettere in evidenza, è la capacità che possiede oggi di colpire con innumerevoli combinazioni, difficilmente prevedibili, dei seguenti elementi:
- luogo e nazione (Il Dipartimento di Stato USA ha calcolato che Al Qaeda è presente in 60 stati);
- obiettivi;
- strumenti e modalità di attacco;
- istante in cui agire
In virtù di ciò non è verosimile immaginare che la superiorità di risorse e strumenti, disponibile oggi per l’Occidente, possa essere dispiegata efficacemente contro attacchi terroristici imminenti, nonostante essi siano logisticamente e tecnologicamente semplici. In questa prospettiva i rapporti di forza sono completamente ribaltati e le azioni terroristiche sono definite fortemente “asimmetriche”, ma nel senso che le istituzioni hanno un notevole svantaggio nel contrastarle.
A fronte di questo, un cambiamento sta investendo anche le tipologie di azioni e interventi maggiormente adottati: oggi sono utilizzati meno rapimenti “eccellenti” e dirottamenti ma sempre più attacchi-bomba. I primi sono più difficili e costosi per la complessità della tecnologia da utilizzare e per le esigenze di coordinamento e di logistica da soddisfare, ma anche per la qualità delle competenze di cui disporre e non così diffuse nelle cellule periferiche della “rete”. I secondi invece, a fronte di una facilità ed economicità realizzativa superiore per la loro tecnologia e logistica semplice e meno tracciabile (possibilità di mimetizzazione del terrorista con le sue vittime), riescono comunque ad accrescere l’impatto in termini di vittime e a portarsi maggiormente nella sfera “indistinta” del pubblico e nella sua dimensione quotidiana, alimentando la diffusione di incertezza generata.
Non è solo però una maggior coerenza “interna” con i nuovi assetti organizzativi e motivazionali a spiegare questi mutamenti in corso.
Il terrorismo si trasforma, adattandosi anche in risposta al contesto “esterno” con cui si confronta, ovvero alle politiche messe in atto per contrastarlo, come ad esempio il potenziamento di alcune misure di sicurezza o interventi in risposta al 9/11 (es. invasione di Afghanistan e Iraq, investimenti e riorganizzazione della “Homeland Security” in USA, …). In questo senso esso si dimostra flessibile e reattivo nel mutare obiettivi e modalità di azione, in reazione al cambiamento delle condizioni di costo-beneficio correlate alle opzioni del proprio quadro decisionale, un comportamento che gli economisti definirebbero “razionale” nel senso di andare a massimizzare la propria utilità attesa. Il carattere mutevole del terrorismo accentua il problema delle asimmetrie informative e del suo vantaggio strategico verso le istituzioni, come è ovvio.
Il primo ad avere utilizzato un framework mutuato dalla teoria economica neoclassica è stato Landes (1978), per analizzare l’impatto di misure che rendevano gli aeroporti più sicuri (introduzione dei metal detector) nei primi anni ’70: egli ha registrato un netto calo dei dirottamenti nel triennio 1973-1976. L’effetto che però Landes non ha messo in risalto è stata la sostituzione tra le diverse tipologie di attacco e obiettivi, che questo tipo di misure, fortemente specifiche, possono provocare, dando origine non ad un minor volume totale del terrorismo ma solo ad un sua trasformazione.
L’evidenza di questo fenomeno dal punto di vista empirico, e la sua rappresentazione teorica, si devono ad uno studio di Enders e Sandler (1993), che hanno messo in evidenza il carattere mutante del terrorismo. Essi inquadrano la situazione decisionale dei terroristi in un modello neoclassico analogo a quello della scelta del consumatore in condizioni di incertezza. I terroristi hanno a propria disposizione, sotto il vincolo di una dotazione di risorse prefissate, un portafoglio di scelte caratterizzato dalle molteplici e numerose combinazioni possibili soprattutto di differenti modalità operative di intervento e di tipologie di target. I due studiosi mettono in evidenza il fattore “sostituzione”, prevedendo che le differenti combinazioni possano, più o meno, generare medesimi benefici (es. creare instabilità politica, ottenere copertura mediatica, indurre incertezza nella vita economica, …), sulla loro utilità attesa.
Essi mettono in evidenza anche come tale utilità sia influenzata negativamente dalla percezione di costo associata a taluna scelta che deriva dalla sommatoria del volume delle singole attività per il loro prezzo unitario (che a sua volta dipende dal valore di tempo e risorse necessarie, dal rischio atteso, …). Le varie attività possono avere condizioni di costo intrinsecamente differenti (come abbiamo già illustrato sopra) ma il fattore determinante nella determinazione e nella percezione relativa di questo elemento da parte dei terroristi sono le politiche e le contromisure messe in atto.


da www.apollo.ev/upload

Tali politiche sono in grado di incidere sulla convenienza relativa associata a ciascuna scelta dei terroristi e portano a modificare le loro decisioni non appena rendono le soluzioni prescelte “più costose” rispetto ad altre. Questo è vero soprattutto per contromisure altamente “specifiche”, che hanno cioè un ambito di efficacia strettamente limitato a impedire solo alcune azioni o a proteggere solo ben identificati target, e che, invece di frenare il terrorismo nel suo complesso, semplicemente ne provocano un mutamento nelle sue manifestazioni.
Enders e Sandler eseguono anche un’indagine empirica a supporto delle loro tesi mettendo in risalto come ad esempio, a seguito dell’introduzione dei metal detector negli aeroporti, sono diminuiti i dirottamenti ma è aumentato il numero di altre tipologie di attentati oppure come il potenziamento della protezione presso le ambasciate USA non ha fatto che aumentare gli attacchi a cittadini americani al di fuori delle loro mura.
Emergono così già chiare indicazioni di “policy” che portano a suggerire interventi che se in un primo momento devono “indirizzare” e “accompagnare” il terrorismo verso attacchi a impatto minore, a tendere mirino a diminuirne il livello complessivo, o aggredendo alla fonte le disponibilità totali di risorse o tramite un equivalente intervento ad impatto “bilanciato” su vari target. Quest’ultimo però in uno scenario, come quello attuale di crescita esponenziale delle opzioni a disposizione dei terroristi, può essere inapplicabile o fortemente inefficiente.
Come vedremo nel paragrafo seguente, in un contesto di terrorismo internazionale l’elemento “sostituzione” nelle decisioni dei terroristi si arricchisce anche di un’altra dimensione - la scelta del paese da colpire -, aprendo spazi e prospettive molto interessanti per l’analisi e per la scelta delle politiche ottimali contro il terrorismo e per le nuove esigenze di cooperazione internazionale che emergono.


Politiche ottimali contro il terrorismo internazionale:
possibili indicazioni dalla scienza economica


Il terrorismo internazionale, come abbiamo visto, intende rimarcare la sua capacità di poter colpire alternativamente un ampio ed eterogeneo insieme di Stati, che dunque condividono una minaccia comune. A fronte di ciò, essi hanno a disposizione politiche e contromisure che o possono essere classificate (vedi Cindy Williams, 2003) in nazionali o internazionali a seconda dell’ambito territoriale del loro impatto. Le prime (es. Homeland Security negli USA) possono avere un carattere preventivo/deterrente (es. controllo dei confini, “law enforcement”, …), difensivo/protettivo (es. protezione di specifici target potenziali, …) o di pronta risposta alle emergenze (strumenti e procedure per ridurre i danni a persone o cose, … ).
Le seconde possono prevedere interventi pro-attivi di carattere per lo più militare (es. la distruzione o “sterilizzazione” delle risorse dei terroristi, l’infiltrazione e l’intelligence, l’inibizione di Stati “supporter”, ritorsioni varie, …) oppure misure non militari (es. aiuti economici, interventi di pressione politico-diplomatica, condivisione di know-how e altre risorse, …), di carattere più strutturale e di lungo termine.
Prescindendo qui dalla valutazione dell’opportunità questi ultimi (vedi ad es. David Gold, 2003 e 2005), che non sembrano riscuotere la preferenza degli attuali orientamenti almeno in termini di risorse impiegate (2) , è in corso negli USA un ampio dibattito su quali tipologie di contromisure siano più efficaci ed efficienti (3) . In questa sede però vorrei dare risalto a questo interrogativo accogliendo una prospettiva diversa ossia quella dell’applicazione della teoria economica alle principali problematiche connesse con il terrorismo internazionale.
Interessante è il filone portato avanti da un gruppo di studiosi (Sandler e altri), oggi più che mai, attraverso l’applicazione al tema di strumenti logici nati nel campo della scienza economica, come ad esempio la Teoria dei Giochi. Come hanno messo ben in evidenza gli stessi autori, la Teoria dei Giochi, congiuntamente ad altri molteplici strumenti (es. economia dell’informazione asimmetrica, teoria del “market failure”, …), può essere uno strumento molto utile all’analisi di situazioni tipiche del terrorismo internazionale.
Infatti:
- riesce a cogliere l’interdipendenza strategica tra vari soggetti, dove i pay-off di ognuno di essi è influenzato dalle decisioni degli altri e dove quindi ognuno deve prevedere tali decisioni;
- descrive il comportamento dei soggetti come razionale e lo inquadra in un clima di incertezza;
- può tenere conto di situazioni asimmetriche, anche dal punto di vista dell’informazione;
- può rappresentare situazioni di negoziazione e in cui sono presenti minacce e promesse;
- può rappresentare situazioni dinamiche, che tengano conto dell’apprendimento dei soggetti.
Una tipologia interessante di giochi analizzati è quella che inquadra e descrive l’interazione di più giocatori, ovvero gli Stati che condividono una stessa minaccia terroristica e devono scegliere tipologie di intervento che massimizzino la propria utilità attesa. I terroristi vengono invece considerati, semplificando l’analisi ma restando fedeli alla loro flessibilità, soggetti passivi pronti ad adattare le loro scelte a seconda di come e dove tali interventi rendano per costoro più conveniente agire.
La focalizzazione dell’analisi in questo ambito ristretto diventa particolarmente significativa perché permette di far emergere le implicazioni e le distorsioni di una circostanza purtroppo spiacevole: la difficoltà della cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo. I movimenti terroristici, dal canto loro, hanno cooperato e cooperano efficacemente ed efficientemente, come abbiamo già illustrato, grazie ad una prospettiva di lungo periodo e sospinti dalla necessità di combattere un nemico comune (es. Israele, USA e UK, ) sulla carta più potente; ne sono esempi evidenti i movimenti europei negli anni ‘70/’80, quello palestinese e quelli jihadisti. Tutto questo invece non avviene per gli Stati che devono contrastarli a causa di molteplici fattori:
- la sicurezza è l’elemento fondante e costitutivo principale di uno Stato, che quindi è sempre restio a demandare le politiche e le decisioni in materia;
- la durata intrinsecamente limitata di maggioranze di governo nelle democrazie occidentali, in contesti politici con orientamenti molto eterogenei di politica estera (essa può impedire il formarsi di quel clima di fiducia tra Stati necessario per stringere e far rispettare accordi di collaborazione);
- la diversità di priorità geopolitiche e di minacce da contrastare;
- la difformità del livello percepito associato alle varie tipologie di rischio;
- la presenza di interessi economici in paesi vicini al terrorismo.
Un elemento chiave dell’analisi è costituito dalle esternalità generate delle politiche prescelte dai giocatori e che incidono sui loro pay-off in modo diverso a seconda della loro tipologia. In un mondo globalizzato, dove lo è anche il terrorismo e dove esso, come abbiamo visto, può essere molto flessibile nella capacità di colpire, l’intensità e la forza di tali esternalità viene esaltata enormemente ed e ciò che a sua volta esalta le inefficienze del mancato coordinamento internazionale delle misure contro di esso.
In linea generale, consideriamo due tipologie di contromisure: azioni pro-attive dirette a colpire ed eliminare direttamente i terroristi e le loro risorse (ad esempio quelle elencate sopra tra le misure “internazionali”) e azioni più difensive o reattive (simili a quelle sopra descritte come “nazionali). Le prime, colpendo “alla fonte” e mirando ad impedire lo stesso verificarsi degli attacchi nonostante la loro intensità renda più verosimili ritorsioni ed escalation terroristiche (ma noi assumiamo che i benefici siano maggiori dei costi), generano un impatto positivo diffuso, fruibile da tutti e corrispondente di solito a benefici pubblici internazionali “puri” (4) . Le seconda tipologia di azioni invece, proteggendo solo specifici target da alcune tipologie di attacco, la cui probabilità di successo in tal modo diminuisce, tende a rindirizzare verso altri obiettivi e soprattutto verso Stati meno “protetti”, generando così in capo a questi ultimi dei costi “pubblici”. Ma gli effetti indotti possono essere ancora più sfavorevoli in alcune situazioni. In particolare, in un mondo in cui il terrorismo può colpire pressoché ovunque queste misure “domestiche” possono essere inefficaci nel senso che gli attacchi si re-indirizzano verso cittadini dello Stato che ha posto in essere la contromisura che si trovano all’estero. Altri casi simili si materializzano, dove l’incremento della sicurezza di un target specifico (es. un aeroporto, un acquedotto, …), può essere immediatamente pregiudicato se la sicurezza di altri target collegati e interrelati (es. altri aeroporti in Paesi diversi, altri punti dell’infrastruttura idrica condivisa tra più paesi) non è sufficiente o di pari livelli (5) .
Ma vediamo per gradi varie tipologie di giochi che, partendo dall’analisi isolata delle singole tipologie di misure per poi passare ad un loro confronto incrociato, mettono in risalto le inefficienze strutturali e talvolta paradossali derivanti dal mancato coordinamento internazionale.
Sandler e Arce (2003) analizzano uno scenario in cui due Stati o comunque blocchi (es. EU e USA), che condividono una stessa minaccia di attacco terroristico, possono scegliere entrambe se mettere in atto politiche preventive contro tale minaccia o altrimenti non intervenire. Le combinazioni possibili, com’è ovvio sono quattro. La struttura dei pay-off è simmetrica tra i due giocatori, in quanto si suppone che entrambe abbiano eguale esposizione al rischio di attacco e “tecnologia” di azione, e tiene in considerazione i benefici pubblici sopra descritti associati ad azioni preventive, cioè condivisi nella loro totalità e in egual misura da entrambi i giocatori indipendentemente da chi compie l’azione, che invece sostiene i costi. Se entrambe agiscono i benefici raddoppiano per ognuno che sostiene anche i costi dell’azione.
Il gioco che ne deriva, data l’ipotesi che i due soggetti prendano le proprie decisioni in modo autonomo e indipendente, è un “dilemma del prigioniero”, in cui entrambe preferiscono non agire, nonostante se agissero sarebbero raggiunte situazioni più vantaggiose per tutti.
Questa soluzione però corrisponde ad un equilibrio di Nash, da cui nessuna delle due controparti sarebbe disposta unilateralmente a mutare orientamento, e da cui ci si potrebbe allontanare solo qualora vi fosse un credibile accordo. Soltanto uno scenario in cui i pay-off siano asimmetrici, nel senso che i benefici netti di un paese (es. USA) siano molto elevati rispetto ai benefici dell’altro in seguito ad un’azione da parte di uno dei due, genera un equilibrio in cui il Paese con il pay-off più elevato mette in atto un’azione mentre l’altro soggetto non agisce e beneficia dell’azione del primo (inducendo un fenomeno di “free-riding”). Questa situazione può essere verosimile in un mondo dove gli USA sono l’obiettivo finale della percentuale più elevata di aggressioni ed è indicativa di quello che è successo dopo il 9/11, che ha portato all’intervento USA in Afghanistan. Il problema è valutare se una soluzione del genere sia sostenibile e ottimale nel lungo termine.
Le strutture precedenti, in caso di mancato intervento ipotizzavano un pay-off pari a zero. In una situazione di forte emergenza, in cui il mondo occidentale sta per subire un attacco potenzialmente molto dannoso, i pay-off correlati alla reciproca non-azione possono essere negativi per entrambi i giocatori e se raggiungono un livello inferiore al pay-off che si verifica quando un soggetto agisce e uno no, allora anche qui ci sarebbe un’azione unilaterale.
Sandler e Lapan (1988) prima, e Sandler e Siquera (2002) poi, invece prendono in esame uno scenario in cui i due Stati devono decidere se non agire o porre in essere misure difensive simili a quelle già citate, che cioè generano esternalità negative in capo all’altro. Tali costi sono tanto maggiori quanto maggiore è la capacità del terrorismo di colpire globalmente. Anche qui i pay-off sono simmetrici. L’equilibrio di Nash ci indica un risultato opposto a quello precedente, qui invece entrambi i giocatori compiono le azioni, nonostante questo provochi una situazione peggiore rispetto alla non-azione.
In altre parole si verifica una sovra-provvista di tali misure protettive, che è tanto maggiore quanto maggiore è il numero di Stati coinvolti in questa “corsa” e che non è detto generi una maggiore sicurezza complessiva, se ad esempio i terroristi non sono sensibili al loro effetto deterrente. Paradossalmente solo se i cittadini dello Stato che mette in atto tali misure possono essere facilmente colpiti ovunque all’estero e/o se esso è isolato, e quindi gli effetti “diversivi” non sono verosimili, e solo se questi sono “anticipati” la “corsa” sarà frenata.
La combinazione di migliore coordinamento nella condivisione di informazioni, lasciando allo stesso tempo la messa in atto delle azioni all’autonomia dei singoli Stati (pratica di policy molto comune oggi), può esacerbare le distorsioni del trasferimento delle minacce da un paese all’altro, messa in atto dalle azioni difensive. Tale condivisione infatti può far emergere le preferenze relative dei terroristi verso singoli paesi, e quindi far valutare meglio l’efficacia marginale di misure difensive, incentivandone l’adozione e la messa in atto di comportamenti opportunistici. Poiché tutte le tipologie di risposte, sia quelle difensive che quelle pro-attive, sono interrelate esse vanno coordinate.
Sandler e Arce (2005) contemplano un’ampia varietà di giochi in cui gli attori hanno finalmente a disposizione contemporaneamente la scelta tra non-azione, misure pro-attive, difensive o addirittura in alcuni casi un misto delle ultime due. La strategia dominante risulta essere nel maggiore dei casi quella difensiva portata avanti bilateralmente, con risultati non pareto-ottimali socialmente, cioè per la comunità di Stati coinvolti nella decisione. Solo l’introduzione di pay-off asimmetrici porta ad una strategia dominante che vede un paese (USA) adottare misure pro-attive e l’altro (l’EU) restare inattivo, se i benefici per la prima di azioni pro-attive solitarie sono maggiori di azioni difensive solitarie, caso verosimile a giudicare dai cittadini americani che sono aggrediti e aggredibili all’estero. Qualora sia possibile una opzione mista, in cui associare le due tipologie di azioni, essa sarà prescelta, ma in un mix non esplicitato. I risultati ottenuti restano comunque collettivamente non efficienti. La dominanza di azioni difensive su quello pro-attive è comunque confermata da osservazioni empiriche.
Dalla Teoria dei Giochi emergono una serie di indicazioni paradossali:
- la tendenza ad agire in caso di politiche che generano esternalità negative a livello internazionale, mentre di converso a non agire in caso di misure che hanno esternalità positive, inducendo anche gli altri a fare lo stesso;
- solo le azioni dei terroristi, concentrando le proprie energie su un singolo Stato, possono favorire soluzioni con risultati complessivamente migliori e a vantaggio della comunità contro il terrorismo in cui predominano azioni pro-attive, a cui sono associati benefici pubblici più rilevanti ma anche fenomeni di “free-riding”;
- in caso contrario gli Stati non riescono da soli a perseguire tali risultati per incapacità di coordinare i loro sforzi.
Un ultimo contributo da segnalare è quello di Manuel Trajtemberg (2005) in cui egli sottolinea come il terrorismo a differenza delle minacce tradizionali (es. 2 Guerre Mondiali) tenda spesso a circoscrivere l’impatto materiale ed effettivo dei suoi attacchi su target localizzati e non intacca l’integrità di un paese. In questa ottica e usando schemi simili a quelli usati da Arce e altri, i “beni difesa e sicurezza”, per antonomasia di natura pubblica e quindi forniti dallo Stato all’intera nazione, possono assumere dei connotati “privati”. In altri termini c’è un incentivo di alcuni soggetti privati a innalzare barriere per proteggere soltanto obiettivi sensibili di proprio interesse e a proprie spese, con degli effetti non ottimali dal punto della “diffusione” dei suoi benefici ma soprattutto dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione.
Da un modello formale se ne deriva che tale non ottimizzazione potrebbe essere scongiurata solo tramite un incremento sostanziale e massiccio dell’efficacia degli interventi di natura più marcatamente “pubblica” cioè ad impatto “diffuso” e “sistemico”. Ciò vuol dire puntare alla prevenzione degli atti terroristici, che, traducendosi in una riduzione della probabilità ex ante che tali atti si verifichino, scongiurerebbe interventi “privati”, insieme alle correlate inefficienze e duplicazione di spesa.
Se ci riallacciamo al terrorismo internazionale ed estendiamo, in qualche modo, i concetti di pubblico a “internazionale” e privato a “nazionale” allora potrebbe emergere un’indicazione molto semplice: per scongiurare la diffusione di interventi difensivi e protettivi sui singoli target forse occorrerebbe migliorare l’efficacia di quelli pro-attivi, e non limitandosi solo nella sfera militare e della tecnologia ma soprattutto della logica e della politica.
Ne consegue da tutto ciò una marcata indicazione a potenziare e trovare soluzioni alternative per la cooperazione internazionale contro il terrorismo, rinforzata dall’osservazione che quest’ultimo sa cooperare bene e sfrutta il mancato coordinamento dei suoi avversari, cercando di colpire sempre gli ”anelli deboli” della catena e di insinuarsi al loro interno per indebolire quelli forti. Contro le minacce asimmetriche, nell’era della globalizzazione è impensabile riuscire a sconfiggere il terrorismo internazionale con policy elaborate e realizzate nel ristretto ambito nazionale.
Occorre quindi:
- cercare di anticipare gli effetti di “trasferimento” delle minacce per poi mettere in atto compensazioni e contromisure di vario genere;
- trovare soluzioni alternative e fortemente innovative per incrementare l’efficacia e l’efficienza delle misure pro-attive;
- creare le condizioni affinché politiche pro-attive nuove possano essere pensate e messe in atto a livello internazionale, anche rafforzando la cooperazione con paesi già impegnati ma di fronte ad un bivio (es. Egitto, Pakistan, Arabia Saudita...), elaborando e fornendo soluzioni “specifiche” per quei contesti ed efficaci “sul campo”.
In futuro le applicazioni illustrate potranno essere ulteriormente potenziate per comprendere maggiormente nell’analisi due dimensioni: l’interazione strategica dinamica tra le controparti e il carattere asimmetrico delle minacce, nelle sue sfaccettature. Inoltre interessanti sviluppi potranno essere portati avanti dall’applicazione delle scienze economiche, sociali e comportamentali (come è riconosciuto in “Combating Terrorism. Research Priorities in Social, Behavioural and Economic Sciences”, NSTC), e soprattutto gli sviluppi derivanti da un loro incrocio. Penso in primo luogo agli sviluppi dell’economia dell’informazione (Economia delle asimmetrie informative, “Network Externalities”, …) o alla “behavioural economics” (penso ad esempio a Khaneman, Tversky, Shiller,…) in campi come ad esempio la gestione delle crisi post-attentato.


Il ruolo della tecnologia

Un ruolo comunque rilevante per incrementare l’efficacia degli interventi contro il terrorismo, sia pro-attivi che difensivi, e per ridurre la probabilità del verificarsi delle minacce lo si può destinare allo sviluppo di strumenti tecnologici in grado di supportare queste policy soprattutto nel risolvere l’incertezza del quadro informativo da fronteggiare. In questo senso la Ricerca e Sviluppo nei settori dell’Elettronica per la Difesa e Sicurezza, possono giocare un ruolo decisivo verso il potenziamento degli strumenti di raccolta, elaborazione, analisi e trasmissione delle informazioni.


foto ansa

In questa prospettiva i modelli che si stanno affermando sono:
- la Network Centric Warfare, cioè la connessione e l’interoperabilità attraverso avanzati sistemi elettronici di piattaforme militari di natura diversa (terra, aria, acqua) e dei differenti corpi d’armata che se ne servono, per aumentarne l’efficacia e l’efficienza (soprattutto in termini di perdite umane).
- la Homeland Security, cioè l’insieme di sistemi complessi e il più possibile interconnessi in grado di prevenire, bloccare e contenere minacce esterne, di natura prevalentemente asimmetrica, alla popolazione, al territorio e alle risorse di un paese.
In uno scenario asimmetrico infatti occorre puntare sulle capacità di intelligence e sulle correlate funzionalità offerte dall’elettronica e dell’ICT di supporto, per migliorare la prontezza di azione e reazione, la loro efficacia e flessibilità, e ripristinare l’efficacia dei sistemi tradizionali.
La ricerca sta puntando molto a sviluppare le attività di raccolta delle informazioni, concentrandosi in modo particolare sullo sviluppo dei “sensori”.
Essi sono meccanismi di interfaccia tra mondo reale e virtuale che, replicando i 5 sensi dell’uomo, riescono in primo luogo a sostituirlo in situazioni di pericolo e poi “digitalizzano” l’oggetto della propria attività, per sottoporlo ad ulteriori processi ed elaborazioni automatizzate. L’impulso in questa direzione potrebbe colmare lo storico gap dovuto al “sentiero asimmetrico” dello sviluppo dell’ICT.
Tale settore, nella sua storia, si è concentrato troppo poco sulla raccolta dei dati stessi e sull’interfaccia col mondo reale per dedicarsi in misura preponderante sul potenziamento della pura capacità quantitativa di elaborazione, senza però spesso riuscire a sfruttarle pienamente.
Per quanto concerne appunto questa ultima fase (elaborazione delle informazioni) il sentiero di sviluppo si sta indirizzando verso il miglioramento dell’ ”intelligenza”, con lo sviluppo di appositi software e algoritmi (es. motori di ricerca molto sofisticati), per orientarsi meglio in un mondo in cui le informazioni e i flussi informativi crescono in misura esponenziale e l’intervallo temporale auspicato tra azione e reazione si restringe.
Il risultato consiste nell’allargamento dei confini e delle potenzialità dell’attività di intelligence e nel notevole miglioramento delle capacità di intervento, sia in termini di errori che di velocità.
Pensiamo ad esempio ad applicazioni nel rintracciamento degli strumenti dell’azione del nemico (armi, sostanze tossiche, …), per non parlare poi dell’intercettazione di comunicazioni di ogni tipo (da quelle su reti TLC fino a conversazioni one-to-one).
Uno sviluppo congiunto e sinergico sui fronti elencati potrebbe dotare l’intelligence di strumenti molto preziosi per poter intervenire e mirare a scongiurare il verificarsi di atti terroristici, anche tramite la possibilità, in tal caso più verosimile, di mettere in campo e utilizzare efficacemente il proprio apparato bellico tradizionale. Ma lo sviluppo tecnologico in un mondo imperfetto e asimmetrico va governato e occorre pertanto:
- indirizzare lo sviluppo delle applicazioni nel risolvere problematiche di tipo informativo ben individuate e per soddisfare le specifiche esigenze emergenti dall’attività di intelligence;
- aggiornare continuamente gli sviluppi tecnologici, cercando di anticipare già nelle fasi di ricerca & sviluppo le capacità di adattamento e la reattività dei terroristi, che come abbiamo visto non è da sottovalutare, nell’“aggirare” le innovazioni tecnologiche (es. dopo l’introduzione dei metal detector sono stati utilizzate pistole di plastica). Quando ciò non fosse possibile occorre reagire prontamente.


Le implicazioni per la Politica Industriale

In ambito industriale l’implicazione più significativa che deriva dal maggiore bisogno di sicurezza, e dai processi da esso innescati, su cui vorrei concentrare l’attenzione non si esaurisce nell’ambito ristretto dei settori militari, ma riguarda potenzialità per l’intero sistema economico del Paese nel suo complesso.
Il passaggio ad un’economia maggiormente orientata alla dimensione intangibile e immateriale, anche nei settori della sicurezza e della difesa, e le discontinuità che la stanno trasformando, infatti fanno emergere un rinnovato e più intenso significato per il fenomeno della “dualità” dei settori interessati. In virtù di ciò, infatti, le applicazioni civili e militari utilizzano paradigmi e linguaggi tecnologici sempre più convergenti, se non addirittura comuni, moltiplicando le tipologie, la quantità e l’intensità di spill-over e sinergie potenziali tra militare e civile. In questa prospettiva le applicazioni per il comparto civile potrebbero compiere un notevole “salto” in avanti, in quanto beneficerebbero degli sviluppi tecnologici, germogliati in ambiti militari, che, com’è noto, dovendo affrontare e risolvere scenari “estremi”, sono molto più complessi e sofisticati.
I vantaggi per il sistema economico potrebbero essere molto rilevanti. Basti pensare a quello che è stato Internet per tutti noi e alla rivoluzione che ci potrebbe essere in futuro, portando le innovazioni (es. sensori) che si stanno sviluppando nell’elettronica e nell’ICT per la sicurezza e la difesa in altri settori che, almeno a livello nazionale, sono in forte crisi, come:
- ICT civile
- trasporti
- automotive
- logistica
- mobilità
- gestione di Infrastrutture e Reti Complesse, anche per la loro sicurezza
- medicina
- biotecnologie.
Ma non è tutto. La maggiore integrazione tra i comparti civili e militari potrebbe avere un impatto salutare anche sulla struttura industriale e le dinamiche concorrenziali dei settori in questione, attraverso:
- l’ingresso di nuovi player sulla scena, più agili e flessibili nel generare innovazioni (es. start-up tecnologiche, …);
- la caduta delle barriere e degli steccati tra i comparti civile e militare che può incrementare il livello della concorrenza effettiva e potenziale tra un numero più elevato di player, prima focalizzati solo su civile/militare e che ora invece potrebbero competere;
- il maggior scambio, non solo di know-how, ma anche di linguaggi e modelli gestionali tra settore civile e militare, pubblico e privato.
In altri termini lo sviluppo dell’elettronica, sospinto dall’urgenza di risolvere il problema della sicurezza, potrebbe fornire, con un adeguato indirizzo di politica industriale, un forte sostegno al rilancio di settori in crisi e alla risoluzione di alcuni problemi strutturali del Paese (es. mobilità e gestione delle infrastrutture, …), sfruttando pienamente tutte le possibili ricadute e la condivisione di risorse. Si può pensare ad un vero e proprio progetto organico di rilancio di alcuni settori chiave del Paese con benefici largamente diffusi per tutto il sistema nazionale permettendo di riattivare capacità manageriali e competenze tecnico-scientifiche già disponibili.


Conclusioni

Se è vero che occorre potenziare e migliorare la cooperazione internazionale contro il terrorismo, abbiamo visto come in queste problematiche si debbano coordinare anche diverse competenze e responsabilità: Istituzioni e Politica, Università e Mondo Intellettuale, Scienza e Tecnologia, Industria e Imprenditorialità. Per essere pronti ad affrontare la sfida della sicurezza e il momento, che si spera imminente, in cui ci si dovrà coordinare per cooperare globalmente con gli altri Stati contro il terrorismo forse sarebbe opportuno per il nostro Paese prepararsi adeguatamente, iniziando fin da subito a:
- introdurre e istituzionalizzare dei tavoli in cui tutte le energie presenti nel nostro Paese discutano delle sfide e delle priorità imposte dal nuovo scenario, con le implicazioni di varia natura che ne derivano, e a valle lanciare un Piano Nazionale composto da politiche innovative della Sicurezza;
- inserire il fattore sicurezza, anche per le sue rilevanti implicazioni tecnologiche e di politica industriale, nella relazione programmatica relativa all’Agenda di Lisbona, che ogni paese europeo, compresa l’Italia, deve formulare a breve.


Bibliografia
De Rugy, V. (2004), What does Homeland Security Spending Buy?, American Enterprise Institute

Enders W. e Sandler T. (1993), The Effectivness of Anti-Terrorism Policies: Vector-Autoregression Analysis

Gold D. (2003), Using the Economy for Security

Gold D. (2005), The Cost of Terrorism and The Cost of Countering Terrorism

Hirschleifer J. (1983), From Weakest Link to Public Shot: the Voluntary Provision of Public Good

Landes W. (1978),An Economic Study of US Aircraft Hijackings, 1961-1976

National Prioritires Project (2003), A safer America

NSTC (2005), Combating Terrorism. Research Priorities in Social, Behavioural and Economic Sciences

Rand (2003), Homeland Security: a Compendium of Public and Private Organizations’ Policy Recommendation, White Paper

Sandler T. e Arce D. (2003), Terrorism and Game Theory

Sandler T. e Arce D. (2005),Counterterrorism: A Game Theoretic Analysis

Sandler T. e Lapan H. (1988), The Calculus of Dissent: An Analysis of Terrorists’ Choice of Target

Sandler T. e Siquera K. (2002), Global Terrorism: Deterrence Versus Preemption

Trajtemberg, M. (2005), Crafting Defense R&D in the Anti-Terrorist Era

Williams C. (2003), Assessing the Tradeoffs: Choosing Among Alternative Responses to Global Mass-Casualty Terrorism


(1) Ad esempio la gestione e “regolamentazione” di questo processo nel rispetto del paradigma dell’assicurare una reciproca potenziale distruzione ad entrambe le superpotenze.
(2) Vedi A safer America , National Prioritires Project, 2003.
(3) Vedi ad esempio American Enterprise Institute, 2004, e Rand, 2003; quest'ultimo descrive in rassegna le posizioni prese e le raccomandazioni fornite dai vari istituti in materia di policy per la Homeland Security.
(4) Nel senso che il livello complessivo dei benefici associati è pari alla sommatoria dell’utilità generata da ogni azione, che non si sovrappone con altre, ed è goduto indistintamente da ogni singolo Stato in piena ed eguale misura.
(5) E’ il caso di beni pubblici rientrante nella tipologia “weakest-link” (Hirschleifer, 1983).

© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA