RECENSIONI Documenti e certezze rivelazioni e sospetti |
Alain CHARBONNIER |
Due certezze e un sospetto. Due epoche e luoghi diversi. Le certezze derivano dai documenti d’archivio degli anni del Fascismo, dalle note, dallo studio di fondi talvolta rimasti nascosti per decenni, soprattutto se riguardano l’OVRA e le varie polizie del Regime. Il sospetto riguarda invece i Servizi segreti dell’est comunista, una cosiddetta “operazione bagnata”. Operazione fallita, condotta in modo maldestro e con molta approssimazione. Tre libri, uno più interessante e godibile dell’altro. Dunque la “piovra fascista”, cioè le polizie segrete e parallele della dittatura, protagonista dei primi due volumi. Il tenebroso, oggi forse non più di tanto, KGB sovietico e i suoi addentellati nei cosiddetti paesi satelliti, protagonisti del terzo. Storia passata e storia recente. Compare un nome, “Silvestri”, negli archivi dell’OVRA, che Guido Leto dice non essere mai esistita se non nella fantasia popolare, perché in realtà si trattava di Ispettorati di polizia ai quali facevano capo gli informatori che riferivano di tutto e su tutti. Un nome rimasto negletto per decenni, fino alle scoperte di Dario Biocca e Mauro Canali che, esaminando alcuni documenti scoperti presso il Casellario Politico Centrale, riescono a dargli il connotato anagrafico: Secondino Tranquilli, cioè Ignazio Silone. Nasce così il “caso Silone”, senza dubbio più apprezzato dalla gente, affascinata da Vino e pane, Fontamara, Uscita di sicurezza, che dalla sinistra politica e burocratica che non aveva mai amato senza sospettarne il “tradimento” l’ex dirigente espulso dal Partito Comunista italiano negli anni Trenta, in dissidio con Togliatti, riparato in Svizzera e passato poi ai socialisti, uno fra i maggiori scrittori italiani del Novecento. Quasi presago di quello che sarebbe stato scoperto di lì a qualche anno, la sua collaborazione con la polizia fascista, lo scrittore abruzzese in un intervista al giornalista Luca Di Schiena rivolse un sibillino: “Nella mia vita c’è un segreto, è scritto fra le righe dei miei romanzi”. Proprio fra le righe dei suoi romanzi lo storico Dario Biocca legge “a posteriori” le rivelazioni del travaglio di Silone. Come dire: aveva tutto scritto, confessato, ma non lo abbiamo capito. Tacciato di oggettivo “revisionismo storico” da chi rifiuta una scomoda realtà dopo aver santificato lo scrittore di Pescina, Biocca torna in modo apparentemente definitivo sull’argomento, con questo sostanzioso e interessante volume, frutto di più approfondite e recenti ricerche d’archivio che hanno colmato lacune, chiarito punti oscuri e risolto controversie. La scoperta più interessante è che le prime informazioni passate agli organi di polizia risalgono a epoca antecedente al Fascismo, cioè fin da quando Secondino Tranquilli era iscritto alla gioventù socialista. Salito al potere Mussolini, apparve del tutto naturale che l’azione informativa proseguisse: come lo sbirro passò al servizio del regime, altrettanto fece il suo informatore. Si comprende, così, un percorso di collaborazione di Silone con la polizia di Mussolini, tutt’altro che sporadico e di poco periodo, partito dall’ipotesi di alleviare il carcere al fratello Romolo. I contatti di Silone con il funzionario di polizia Guido Bellone, che è il suo reclutatore e la sua “casella postale”, però non nascono da scelte politiche, tantomeno da venale corruzione. C’è alla base un rapporto personale diretto, che data appunto al 1919. E a Biocca sembra di ritrovare la rivelazione del modo in cui avvenne il reclutamento proprio in Pane e Vino, nell’avventura del giovane Murica, contadinotto travasato a Roma, militante socialista, arrestato e poi rassicurato dal commissario “buono” che di lì a poco lo condurrà a percorrere “il solco incolmabile fra vita apparente e vita segreta”. E’ una vicenda che con lievi varianti Silone riproporrà in altri romanzi, racconti e opere teatrali nell’arco di oltre vent’anni. Ma è anche una vicenda che Silone chiude sacrificando se stesso per riconquistare la sua libertà. Per questo accentua in modo irreparabile il suo dissidio all’interno del Partito Comunista, fino ad esserne espulso. E’ il 1930 e “Silvestri” chiede e ottiene di interrompere la collaborazione, dopo essere stato, secondo Biocca “il più prezioso dei fiduciari di polizia infiltrati nel Partito Comunista e forse l’unico che, grazie alla propria astuzia e alla protezione accordatagli dall’ispettore Bellone, non venne individuato dai compagni”. Una protezione che si protrarrà fino al dopoguerra. Infatti né Bellone né Guido Leto diranno mai una parola sul nome di “Silvestri”. Il rapporto fra Silone e Bellone, secondo l’Autore, “è dunque al centro di una vicenda dai contorni in parte irrisolti e forse inconoscibili”. Emerge un “rapporto personale esteso al di là dei semplici compiti di spionaggio” che induce Biocca a scrivere nella Conclusione: “Il contesto, il tono e il linguaggio delle corrispondenze, nonché i numerosi incontri avvenuti in Italia, Francia e Svizzera e la protezione accordata fino all’ultimo, a volte reciprocamente, lasciano supporre che la relazione implicasse elementi emotivamente significativi e forse, per entrambi, inconfessabili.” La “piovra” che ha avviluppato Silone avvolse nei suoi tentacoli, come vittima, un personaggio illustre: Gabriele D’Annunzio. Il Duce non si fidava del Vate, anzi lo vedeva come un possibile antagonista, “fascista per convenienza, antifascista (o, meglio, a-fascista) per implicita convinzione”, al punto di dire di lui:”D’Annunzio è il dente cariato d’Italia: o strapparlo o ricoprirlo d’oro”. E’ così che il poeta divenne “l’uomo più controllato d’Italia”, come scrive nelle sue memorie il Federale di Brescia, Giovanni Comini. Proprio Giovanni Comini fu incaricato direttamente dal segretario del PNF, Achille Starace di quel giro di vite nella sorveglianza, chiesto da Mussolini, alla vigilia dell’impresa d’Etiopia che D’Annunzio riteneva sic et simpliciter una guerra coloniale. Al punto di sconsigliare i suoi “legionari fiumani” dal partecipare all’avventura africana. Roberto Festorazzi ha potuto attingere alle memorie di Comini, ma anche ai documenti dell’Archivio del Vittoriale e ricostruire gli anni del controllo della “vedova nera” del regime. Scrive Festorazzi: “Estenuato dalla rappresentazione della politica come uso esclusivo della forza, a detrimento degli slanci di idealità, D’Annunzio sopravvisse a sè stesso nella quiete agitata di un vero e proprio confino sia pure dorato”. Dalle memorie di Comini, Festorazzi trae la convinzione che D’Annunzio si presenta come un “principe vinto che, accettando di finire murato vivo nella quiete del suo eremo gardesano, rinunciò alla libertà e a parte cospicua della propria dignità.” Ogni volta che intendeva attenuare la resistenza di D’Annunzio, Mussolini allargava i cordoni della borsa, senza allentare la sorveglianza. Comini assolse al suo incarico con coscienza e senza vessazioni, sconvolto dallo scoprire che spiavano D’Annunzio il prefetto Giovanni Rizzo, longa manus del Ministero dell’Interno e dell’OVRA, e poi “Questura, Prefettura, Carabinieri, Milizia, Guardia di Finanza, e così via. Mi dissero di agenti dell’OVRA. Sono certo che ci sono, ma non mi è riuscito di stanarli”. Al Federale di Brescia Gardone appariva “fradicia dei più sofisticati arnesi di tutte le polizie. Confidenti e delatori di ogni risma. Agenti più o meno segreti. Investigatori professionisti e dilettanti, sagaci e no, ma tutti sempre pronti a vendere pettegolezzi e fandonie al miglior offerente. Se me l’avessero detto un mese fa, mica ci avrei creduto”. Ecco con chi si ritrova ad avere a che fare l’onesto e fascistissimo Giovanni Comini che però prosegue nel suo incarico un po’ per “proteggere” D’Annunzio e un po’ per proteggere il Regime dalle prese di posizione di D’Annunzio. Giorni, mesi, anni pesanti quelli fra il 1935 e il 1938. Anni di travaglio che fanno scrivere a Comini alla scomparsa del poeta: “La morte di D’Annunzio mi toglie da una grossa preoccupazione”. Ma l’aver ben servito non salva Comini dalla rimozione, nel 1939, quando onestamente da Brescia informa Palazzo Venezia che la popolazione è contraria alla guerra. Se D’Annunzio fu ricoperto d’oro, Comini fu rimosso e amen. Merito di Festorazzi averne riscoperto oggi le voluminose memorie che gettano nuova luce sul travagliato rapporto fra D’Annunzio e il Fascismo, ma anche l’onestà di un uomo del regime. Dai documenti al sospetto. Un incidente automobilistico alquanto “strano” è invece al centro del libro-inchiesta di Fasanella e Incerti che prendono le mosse da una intervista dell’ottobre del 1991 al senatore Emanuele Macaluso. L’esponente del Partito Comunista, collaboratore di Togliatti, Longo e Berlinguer, rivela ai due giornalisti che proprio quest’ultimo gli raccontò che il 3 ottobre del 1973, a Sofia, mentre viaggiava verso l’aeroporto, al termine della visita ufficiale in Bulgaria, la sua automobile fu investita da un camion. Dall’incidente il segretario del PCI uscì illeso, ma il suo interprete perse la vita. Macaluso racconta: “Berlinguer mi disse che lui aveva un sospetto....dovrei rivelare una notizia delicatissima....sospettava che non fosse stato un incidente...ma un attentato organizzato dai Servizi segreti bulgari per conto del KGB. Lo stesso Berlinguer ne era convinto. Fu proprio lui a dirmelo una volta rientrato in Italia. Ma non voleva assolutamente che se ne parlasse e mi impose di non rivelare a nessuno le sue confidenze”. Un silenzio imposto dalla mancanza di prove, ma anche dalla necessità di non interrompere i rapporti con l’Unione Sovietica e la Bulgaria. Anche perché pezzi importanti del partito non avrebbero seguito il segretario su questa strada. Il silenzio fu rotto dopo diciotto anni. E adesso, dopo oltre trent’anni l’episodio torna a essere protagonista di una ricostruzione molto interessante, ma che purtroppo continua a non trovare il suffragio della prova. Fasanella e Incerti ricordano come Alessandro Natta, che pure di Berlinguer era stato collaboratore, amico e successore, liquidò in una intervista la rivelazione di Macaluso: “Non credo che sia sufficiente una ricostruzione politica delle ragioni che potrebbero giustificare un attentato per insinuare il sospetto”. Dunque la “pista bulgara” da relegare nella fantapolitica? Così avrebbe voluto la nomenklatura dell’ex PCI. Nonostante la vedova di Berlingur, Letizia, confermasse i sospetti del marito. A Fasanella e Incerti non restò che cercare negli archivi bulgari, accessibili dopo la caduta del regime. Ma una volta negli uffici della Durzavna Sigurnost si ritrovarono ad avere a che fare con uno stralunato archivista che cercò, sfogliò un librone, lesse e allargò le braccia per dire che l’episodio “venne classificato come semplice incidente stradale, ma tutti i documenti sono stati distrutti, come prevede la nostra legge, dopo un certo periodo di anni, quando si tratta appunto di incidenti stradali”. In compenso i due giornalisti trovarono le foto dell’incidente, tenute nascoste per oltre tre lustri negli archivi del servizio segreto UBO. Foto pubblicate ora nel loro libro che dimostrano l’incidente, ma ancora una volta non dimostrano l’attentato. Fasanella e Incerti onestamente ammettono che così stanno le cose, ma evidenziano i dubbi, i sospetti, le testimonianze. Soprattutto ricollocano i fatti nel quadro politico dell’epoca, i rapporti interni del Partito Comunista e quelli con i partiti “fratelli”, la “quinta colonna” di Mosca, il ruolo di Armando Cossutta. E suona sinistro il ricordo di un altro incidente stradale “strano”, quello che coinvolse Togliatti in viaggio per Cogne, nell’estate del 1950. Anche allora la sua automobile venne investita da un camion. Macaluso racconta che, in visita a Mosca, a Luigi Longo, il braccio destro di Togliatti, che spiegava l’incidente, il capo della polizia segreta Lavrentji Beria avrebbe detto: “Lasci stare, noi sappiamo bene come si fanno questi incidenti”. Evidentemente dopo 23 anni non se ne erano dimenticati e il duo Fasanella-Incerti lo ricorda anche a noi. |