recensioni e segnalazioni 1/2016

The story of western intelligence Oxford University Press, 2013 pp. 312 - euro 55,00
di Last hero
Il libro si apre con una domanda interessante: «Quando abbiamo iniziato a fidarci delle spie?». La risposta appaga l’interesse suscitato: «Quando i Governi hanno smesso di rivolgersi alle spie per sapere come vincere le guerre e hanno iniziato a chiedere agli agenti segreti di assicurare la pace (e la sicurezza); quando hanno inteso raggiungere i propri obiettivi ‘sostituendo’ l’attività spionistica a quella bellica, decretando così la fine dello ‘spionaggio’ e la nascita dell’intelligence». Rhodri Jeffreys-Jones, professore emerito di storia americana all’Università di Edimburgo, fondatore e presidente onorario dell’Associazione scozzese di studi americani, rivela in questo libro la complessa storia dei rapporti fra i Servizi inglesi e americani nel corso dell’ultimo secolo; prima saldissimi, sulla scia della special relationship iniziata fra Churchill e Roosevelt, e poi gradualmente ridisegnati seguendo la morfologia dei rapporti politici fra Stati Uniti – ormai assurti al ruolo di indiscutibile superpotenza – e Regno Unito che (formalmente a partire dalla crisi di Suez ma, di fatto, dopo la fine della Seconda guerra mondiale), ha perso il rango di grande potenza per vestire quello di potenza regionale; la dinamica dei rapporti fra i due bastioni dell’intelligence occidentale si snoda attraverso il dopoguerra, la Guerra fredda – forse la parte più affascinante – il crollo del muro, l’undici settembre, per arrivare, con sorprendente dettaglio, all’analisi del sistema di intelligence europeo (prima SitCen, poi IntCen). Lungo questo percorso, pur non risparmiando osservazioni e critiche, l’autore non lascia mai che le sue riflessioni acquistino un tenore scandalistico ma, anzi, propone l’analisi profonda tipica del ‘Professore’, dell’Uomo d’Accademia: quello che offre un proprio punto di vista perché se ne discuta, senza procedere a colpi di proclami o inossidabili verità. In alcuni casi le osservazioni richiamano la severità censoria di Catone (le ‘mendacità’ del nine/eleven); serbano, invece, un’ironia quasi caustica quando riportano alcune confidenze di agenti inglesi, i quali ricordano come, durante gli ‘anni d’oro’ della collaborazione con gli americani, molti colleghi tentassero di imprimere un’accelerazione alla loro carriera «facendosi una reputazione» o «diventando amiconi» con gli americani. Singolarmente breve e avaro di dettagli il capitolo dedicato alle relazioni con il Mossad: un rapporto descritto come quello tra Davide e Golia; fatto sta che, ritenuta condivisibile la similitudine, permane il dubbio su quale dei due protagonisti del Mito sia da accostare alla figura del Servizio israeliano. La collaborazione anglo-americana, dunque, ha rappresentato senza dubbio l’architrave su cui si è retta l’intelligence atlantica; il rapporto era intenso perché entrambi avevano molto da offrire: gli Stati Uniti avevano grandi risorse ma poca esperienza sul campo, gli inglesi avevano una rete di informazioni unica al mondo (possibile anche grazie alla struttura coloniale dell’Impero, risorsa oggi non più disponibile) e una capacità SigInt all’avanguardia (si pensi alla famosa «stanza 40» di Bletchley Park, dove fu decrittato Enigma). Come spiega l’autore in uno dei suoi passaggi più accademici, a partire dagli anni 60 la Gran Bretagna ha iniziato una fase di declino; specularmente, l’atteggiamento degli Stati Uniti è cambiato, assumendo un ruolo di egemonia indiscussa divenuta ancor più evidente al momento del crollo dell’Unione Sovietica e della conseguente dissolvenza della minaccia comunista. L’impolverata special relationship è più che altro ormai un retaggio storico e «l’America ha iniziato a guardare oltre la Gran Bretagna in cerca di alleati e fonti d’informazione»; inoltre – e forse soprattutto – la credibilità dei due apparati d’intelligence è stata severamente danneggiata nel decennio a cavallo degli anni 90 e 2000, quando la Gran Bretagna, a volte a dispetto dell’evidenza, si è prestata a diventare una fonte di informazioni false, spiega Jeffreys-Jones: «… ansioso
di compiacere gli americani, il Governo di Tony Blair ha proceduto senza esitazione a rendere più suggestive (sex up) le indicazioni che suggerivano che Saddam disponesse di armi di distruzione di massa. È vero – continua l’autore – sia Bush che Blair hanno entrambi rivinto le elezioni nei loro rispettivi Paesi, ma la loro perdita di credibilità è continuata senza pietà (remorselessly)». A ben vedere, non pare la prosa di Don Abbondio: lo stile è anglosassone. Ancorché il meccanismo di collaborazione rodato per oltre mezzo secolo non si sia definitivamente rotto, non può più rappresentare il modello di riferimento per l’attività d’intelligence occidentale: «Where do we look now?», si chiede l’autore. Il vero privilegio per chi legge questo libro è di trovare molto spesso anche le risposte (o i suggerimenti per rispondere) alle domande poste: la collaborazione all’interno dell’Unione Europea è adombrata come possibile soluzione, ma sconta il fatto che una vera intelligence europea ha ancora molta strada da fare perché il suo contributo possa ‘sostituirsi’ a quello reso dal Regno Unito fino alla metà del secolo scorso. L’intelligence europea potrà assumere un ruolo protagonista nello scenario mondiale quando le rivalità saranno superate dalla capacità di ‘vedere’ e perseguire l’interesse comune. Una lettura impegnata e forse impegnativa ma, certamente, interessante.

di Last hero
Un autentico dizionario dell’intelligence; uno strumento di lavoro per gli esperti e una guida per i meno avvezzi attraverso i meandri di questo argomento sempre in limine fra conoscenza e fantasia, studio, riflessione, analisi e immaginazione. Bisogna forse partire proprio da qui: pochi sanno cosa sia l’intelligence, troppo spesso confusa e sospesa in un limbo a mezza via tra le spettacolari gesta celebrate al cinematografo e le dietrologie più inconfessabili dei nostri tempi. Quest’opera – piuttosto imponente – non si pone come un arido elenco di sigle, tecnicismi e spiegazioni, ma proietta un raggio di luce sulla storia dei Servizi d’intelligence statunitensi e – per chi legge attraverso la lente di un’autentica curiosità – sull’evoluzione che ha innervato il cammino della professional intelligence americana dalle sue origini a oggi, senza tralasciare il significativo snodo della Seconda guerra mondiale. A questo proposito è apprezzabile scorrere in apertura, anticipando il cuore dell’opera, la cronistoria dei principali avvenimenti storici e politici dal decennio precedente la dichiarazione d’indipendenza ai giorni nostri; non manca nulla: dalla formazione, voluta dai ‘Sons of Liberty’ (i primi ‘dissidenti’ americani), del Committee of Secret Correspondence (Novembre 1775, pochi mesi prima della dichiarazione del 4 luglio), alla fondazione dell’Oss, diretto progenitore della Cia; dalle prime ricognizioni in mongolfiera durante la guerra di secessione, all’Espionage Act, promulgato (in chiave anti bolscevica) dal presidente Wilson dopo l’assalto al Palazzo d’inverno; dall’insuccesso dell’operazione ‘Zapata’ (l’incursione alla Baia dei Porci), alla nomina del generale Alexander a Direttore della Nsa (inclusi gli strascichi per le attività spionistiche in danno dei capi di governo di Paesi alleati che finirono per determinare il suo avvicendamento). Segue una poderosa opera di descrizione, ordinata in ragione alfabetica, dei termini professionali, delle più importanti operazioni in codice che si ricordino, nonché delle varie – variegatissime – attività proprie dell’intelligence. Un’opera descrittiva ma non didascalica, monumentale se si prende in considerazione il volume delle informazioni riportate e la chiarezza delle singole spiegazioni. Lo spettro è amplissimo: Al Qaeda, Contras (gli oppositori del governo rivoluzionario dei Sandinisti, in Nicaragua: protagonisti dello scandalo Iran-Contras che coinvolse l’amministrazione Regan), Counterintelligence, Eisenhower, KGB, Khrushchev, Philby, Phoenix (l’operazione di scarso successo che avrebbe dovuto individuare la segreta rete comunista in Vietnam), Sigint, la dottrina Truman… Tutte queste voci, fra le oltre 600 raccolte, sono analizzate e rese familiari al lettore con un linguaggio volutamente atecnico e una serie di riferimenti che facilitano la comprensione. Un manuale che troverebbe posto d’onore nella biblioteca di ogni facoltà di Scienze Politiche.

di Tumyo
L’atto premonitore della Guerra fredda, anche se lungi dal poter essere pienamente preconizzata, fu l’innalzamento nel 1945 della bandiera sovietica sulle macerie di Berlino da parte di un manipolo di carristi russi. Da quel momento il mondo si spaccò in due blocchi, dando vita a uno scontro latente di ideologie e interessi. Al fragore delle armi si sostituì il gioco delle diplomazie, della deterrenza e quello sommerso, ma imponente, dello spionaggio. Questo libro racconta la storia di Rudolf Ivanovic Abel, individuato e catturato dai federali nel 1957 per cospirazione, dopo aver vissuto per parecchi anni negli Stati Uniti sotto mentite spoglie, acquisendo informazioni sensibili sulla sicurezza militare americana. Un capolavoro operativo, quello di Abel, che lasciò attonita l’opinione pubblica della prima potenza mondiale, violata intimamente sul proprio territorio. L’autore del testo è l’avvocato che le autorità governative assegnarono alla spia russa per assicurargli il giusto patrocinio in un processo che avrebbe potuto comportare la pena di morte. Per il difficile e delicato compito assunto, Donovan si vide catapultato in un complesso caso giuridico, che mise a dura prova la sua reputazione e la sua sicurezza fisica, in una società che mal tollerava l’idea di assicurare la difesa anche a un nemico della Patria. Alla fine del procedimento, Abel venne condannato a trent’anni di carcere, riuscendo a evitare la pena capitale grazie alla professionalità di Donovan che riconobbe nel suo assistito un patriota che aveva servito il proprio Paese, così come avrebbe fatto qualsiasi cittadino americano in circostanze analoghe, oltre quella maledetta ‘cortina di ferro’. La vicenda, tesa e pulsante come un romanzo, si concluse nel 1962 quando, al termine di una lotta strenua e cavillosa, l’avvocato/autore, supportato dietro le quinte dalla Cia, organizzò e condusse di persona lo scambio di Abel con il pilota Francis G. Power, caduto in Urss durante un volo segreto di ricognizione. Lo scambio avvenne a Berlino nel 1962, sul ponte Glienicke, da allora il ‘ponte delle spie’. Il testo non è suddiviso in capitoli, non indulge in riflessioni enfatiche; il suo tracciato è scandito come un diario, giorno dopo giorno, quasi con rigore forense, con la puntualità di chi svolge una missione da consegnare alla storia. Le pagine ci riportano alle angosciose alternative del processo, ai faticosi incontri con l’assistito che rifuggiva dall’idea di essere considerato un ‘traditore’, alle ambiguità dei Bureau governativi, al clima di sospetti e menzogne che sostanziavano i rapporti con le autorità comuniste. La narrazione è ben più di un rapporto appassionante su uno dei massimi processi di spionaggio della storia, nonché della drammatica conclusione del caso sul ponte scelto per lo scambio dei prigionieri. La lettura colpisce chi ama le storie di spie vere, di brillanti investigatori e chi sa soppesare le sottigliezze giuridiche a costante confronto con i diritti dell’uomo. Un racconto che merita di essere conosciuto dalle nuove generazioni perché riporta in un’epoca cruciale per i destini dell’occidente, più di quanto possa fare un saggio di storiografia contemporanea. Questo libro, edizione aggiornata de Il caso del colonnello ABEL (Rizzoli, 1968), soddisferà chi cerca di conoscere come andavano ‘queste cose’ negli anni 50/60 e quali fossero le idee e i sentimenti di un’epoca recentissima, dove un esagerato sbalzo della tensione politica avrebbe potuto innescare una catastrofe nucleare. D’altro canto, emerge la dimensione intimistica del rapporto tra Abel e il suo avvocato che, mai scivolando in inutili personalismi di maniera, ebbe a dire «… siamo due uomini molto diversi avvicinati dal destino e dalla legge americana… ».

Virginia Verasis di Castiglione Novantico, 2015
pp. 400 - euro 30,00
di Federico Prizzi
Virginia Verasis di Castiglione, conosciuta anche come la Contessa di Castiglione, è uno dei personaggi femminili centrali del nostro Risorgimento. Il suo ruolo di spia si inquadra negli eventi successivi all’intervento piemontese nella Guerra di Crimea e con la partecipazione italiana al Congresso di Parigi, nella primavera del 1856. In particolare, con la volontà di Cavour di avere in quella occasione la possibilità di ottenere da Napoleone III un intervento a favore del Piemonte contro l’Austria, azione necessaria per la liberazione del Lombardo Veneto, vero e proprio primo passo verso l’Unità d’Italia. La Contessa fu tra i primi agenti del Servizio segreto del ministero degli Esteri del Regno di Sardegna, servizio, nato nel 1854 per volere dello statista piemontese, e a Parigi, grazie alla copertura, Virginia poté consegnare messaggi riservati, corrispondere, viaggiare liberamente tra la Francia e l’Italia, scavalcando il protocollo diplomatico ed esponendosi a seri rischi. Soprannominata con accenti di disprezzo dalla nobiltà d’Oltralpe ‘Notre Dame de Cavour’, intorno a lei si strutturò un sistema di spionaggio volto a controllarne i movimenti, con tentativi di assassinarla, e congiure per screditarla e allontanarla dalla corte di Parigi. Il crollo del Secondo Impero e il cinismo ingrato dei Savoia contribuirono alla definitiva scomparsa di Virginia dalle scene pubbliche, dando inizio a quel periodo d’Ombra fatto di rimpianti, lutti, mali fisici, ma soprattutto spirituali che a poco a poco spensero la sua natura solare, spingendola verso una morbosa attrazione per l’oscurità, «per l’ombra, per la notte sentita come quiete, invocato preludio dell’annullamento finale». Morì con un grande rimpianto: quello di non aver scritto la propria biografia. Merito a Gabriella Chioma non solo per essere stata la prima biografa della Contessa di Castiglione in un mondo, spesso di detrattori, tutto maschile, ma soprattutto per aver finalmente scritto quel libro di verità e giustizia che Virginia avrebbe voluto tanto realizzare.

di Gian Luca Barneschi
Nei decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale era materialmente impossibile pubblicare qualcosa, adeguatamente documentato, sullo Special Operation Executive (Soe). A partire dagli anni 90, invece, gli archivi britannici hanno iniziato a rendere accessibili le carte relative alla segretissima struttura, creata nel 1940 per condurre attività non convenzionali. La disponibilità di atti ufficiali ha così consentito di conoscere la storia di questo Organismo che acquisì notevoli meriti, concorrendo in modo significativo a ridurre il protrarsi del conflitto e favorire la vittoria degli Alleati. Per l’Italia, basti ricordare che fu proprio un agente del Soe (Dick Mallaby) a divenire uno dei protagonisti della resa italiana del settembre 1943, e di quella tedesca dell’aprile 1945. Questo saggio, commissionato dal Governo britannico, con il supporto di documentazione in parte inedita ricostruisce in maniera puntuale e attendibile le missioni del Servizio britannico nel nostro Paese dal 1940 al 1943, periodo nel quale incontrò notevoli difficoltà nel conseguire i suoi obiettivi, sia per la carenza di volontari italiani da ‘infiltrare’ sia per l’eccellente lavoro del nostro controspionaggio, che in molte occasioni riuscì caparbiamente a vanificare le iniziative del nemico. L’opera di Bailey, oltre che per l’approfondita e argomentata analisi delle varie operazioni condotte o tentate in Italia, si connota per l’equilibrata contestualizzazione di quegli eventi, mettendo anche a nudo, con obiettività, taluni errori di valutazione, anche clamorosi, e i numerosi problemi di natura operativa affrontati dagli apparati inglesi, offrendo al lettore un approccio che smentisce precedenti ricostruzioni addomesticate. Gli episodi narrati, spesso strumentalmente ignorati dalla pubblicistica di settore, rivelano sorprendenti vicende, poco o nulla conosciute, che costituiscono tasselli di fondamentale macrostoria, indispensabili alla compiuta conoscenza di quanto effettivamente accadde nella nostra penisola in quel periodo.

di Ittei
Il tema di questo volume è saturo, da anni, di studi e riflessioni di varia natura, svolti secondo svariati piani d’impostazione: politico, economico, religioso, antropologico ecc. Gli autori che s’incontrano e si confrontano aggiungono all’argomento un’ulteriore dimensione, svolgendo le rispettive considerazioni secondo una direttrice anche intimistica, quasi a ricercare una logica riparatoria della violenza intrinseca nelle cause e negli effetti del terrorismo mondiale. Il principale imputato viene indicato nell’Occidente che, ormai crisalide residua di una civiltà millenaria, pretende di potersi considerare baluardo di libertà ed epigono di contrasto alle barbarie. Ma l’Occidente permane impantanato nel suo spirito colonialista, incapace di profilare politiche svincolate dai dettami delle multinazionali e dalle finalità delle grandi lobby votate esclusivamente al profitto e al potere. Il testo è articolato secondo la disciplina dialogica del Simposio di Platone, dove Chomsky e Vltchek si cimentano a osservare ciò che accade in ogni angolo del mondo: dall’Europa orientale al Sud est asiatico, dal Medio Oriente all’Africa, sino al Sudamerica. La panoramica, senza pregiudizi, registra l’esito sconfortante delle scelte politiche occidentali, orientate a destabilizzare intere aree geopolitiche, provocando genocidi, esodi di massa, disastri ecologici che i cittadini europei e americani subiscono, intossicati da una propaganda liberistica, ipocrita ed elusiva. L’esame della situazione procede senza enfasi e con crudezza, facendo trasparire uno scenario desolante che non si risolve in enunciazioni di doglianze di tipo ideologico, bensì offrendo spazi critici di ripensamento civico, in cui meglio ricollocare le soglie di responsabilità politica dei governanti, non senza trascurare la necessità di riformare la sensibilità ontologica di chiunque voglia approfondire le ragioni che alimentano le lotte di ribelli e fondamentalisti a ogni latitudine. Gli autori guardano ai fatti scatenanti, esplorando frangenti inspiegabilmente taciuti dalle attenzioni mediatiche che rischiano di scrivere una storia incompleta e falsata, dove gli ‘eroi occidentali’ sono gli esclusivi vessilliferi di libertà e giustizia. Il dialogo, nutrito da riferimenti puntuali e circostanziati, rifugge da irrigidimenti di sorta, anche se la passione del dissenso emerge con chiarezza, più dalle corde del cuore che dell’intelletto.

di Tokaido
Dopo la vittoria comunista a Cuba, la rivoluzione castrista divenne, per gli Stati Uniti, un vero incubo. Una spina nel fianco da estirpare a tutti i costi, attraverso una campagna controrivoluzionaria che la Cia pianificò e svolse per oltre 56 anni, adottando ogni strumento per destabilizzare il nuovo Stato socialista. Una ‘guerra’ combattuta a tutto campo, con i mezzi della propaganda, dell’ingerenza, dello spionaggio più sofisticato, fino alla sovvenzione di gruppi criminali al soldo della dissidenza. Una campagna pianificata con un rigore che consentisse di sradicare dalla società cubana l’idea del comunismo buono e attrarre le nuove generazioni sotto l’ombrello protettivo di un sano capitalismo. Questo volume racconta la storia realmente vissuta nel 2004 da un giovane scrittore sperimentale, professore universitario di storia contemporanea a Cuba e appartenente al milieu culturale del suo Paese. Un personaggio convintamente comunista ma aperto alle altre idee del mondo; un mondo in cui la superpotenza americana non aveva rinunciato a svolgere un ruolo egemone, coltivando i lasciti della Guerra fredda. Agli inizi del Duemila Capote attira l’attenzione della Cia che, attraverso i rappresentanti consolari all’Avana, decide di avvicinarlo per coinvolgerlo in un programma di divulgazione culturale dei valori occidentali: il progetto dei Servizi americani si chiamava Genesis. In realtà, non si tratta di una blanda azione d’influenza, bensì di una dettagliata campagna di depotenziamento politico tesa a favorire – nel segno di esperienze realizzate nei decenni precedenti – il radicamento di sentiment antinazionali nelle nuove generazioni e accelerare la definitiva implosione dello spirito rivoluzionario. Capote si presta al gioco, conquista la fiducia dei suoi manipolatori e diviene l’agente ‘Pablo’, accettando di fornire informazioni e analisi riservate sulla società cubana e sulle pulsioni politiche che l’alimentano. Capote diviene così un prezioso insider del nemico, vestendo i panni del traditore, apparentemente votato all’espansione dei modelli occidentali. Da quel momento la sua vita cambia, ed entra in un circuito inimmaginabile che lo avvicinano progressivamente al mondo oscuro e segreto dell’intelligence americana. Ma l’intellettuale che la Cia crede di aver reclutato brillantemente è in realtà un doppiogiochista, fedele alla rivoluzione e al suo Paese. Mentre gli americani lo annoverano tra i tanti successi del loro massiccio targeting operativo, diviene un efficiente agente del controspionaggio nazionale, l’agente ‘Daniel’, rivelando dinamiche, obiettivi e tecniche di lavoro degli apparati di sicurezza avversari. La storia di Davide e Golia si ripete. Lo smart power vince sull’imponente macchina avversaria. Questo libro, nato artigianalmente con il titolo di Enemigo, non è la classica vicenda raccontata da un professionista dello spionaggio in pensione, bensì la vicenda umana di un intellettuale che ha scelto di combattere la battaglia finale della sua vita, per una fede che non poteva ammettere flessioni di sorta. Il racconto richiede attenzioni critiche e stimola riflessioni profonde, sia da parte degli appassionati del genere spy story che dei cultori di storia contemporanea, al netto di possibili giudizi ideologici o del fatto che possa, esso stesso, costituire atto di propaganda in giorni in cui Raul Castro e Barack Obama si sono stretti vigorosamente la mano, lasciando auspicare l’avvio di una nuova era di distensione.