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Storie di chi si è dato coraggio

Alberto Li Gobbi Alberto Li Gobbi

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

L’8 settembre 1943, pur sofferente per una grave ferita riportata in precedenti combattimenti, abbandonava la famiglia per raggiungere il proprio reggimento in lotta contro i tedeschi. Catturato e riuscito a evadere, attraversava le linee di combattimento e si offriva volontario per una importante, lunga e rischiosissima missione di guerra in territorio italiano occupato dai tedeschi. Durante un lungo eroico periodo, illuminato da purissima fede, prodigava il suo valore e la sua intelligenza a organizzare e dirigere il movimento di liberazione della Patria, affrontando impavido il rischio di ogni ora e le certe insidie che lo avvolgevano e lo avrebbero travolto. Durante un feroce rastrellamento nemico, caduto in combattimento un valoroso ufficiale comandante di una formazione partigiana presso la quale in quel momento si trovava, assumeva senza esitazione il comando del gruppo, ne riuniva gli elementi già duramente provati, riuscendo a sottrarli alla morsa nemica con azioni episodiche condotte con decisione e abilità ammirevole. Arrestato e trovato in possesso di documenti che costituivano inequivocabile condanna, fu sottoposto a estenuanti interrogatori e a inenarrabili torture. Ma il sentimento del dovere e dell’onore, sorretti da sublime stoicismo, vinsero la ferocia teutonica: nessun segreto fu svelato, nessun compagno fu tradito. Avuta la possibilità di evadere vi rinunciava a favore di un compagno di lotta e di fede la cui opera riteneva tornasse più vantaggiosa. Procrastinata la fucilazione cui era stato condannato, nei lunghi mesi di prigionia non manifestava debolezza, né recriminava la sua giovinezza sacrificata, lieto di averla donata alla Patria. Quando fortunate circostanze gli permisero di fuggire, riprendeva il suo posto di combattimento e si offriva di continuare ancora la sua missione. Fulgido esempio di assoluta dedizione alla Patria e al dovere.

Italia occupata, 5 dicembre 1943 – 21 agosto 1944


Aldo Li Gobbi Aldo Li Gobbi

MOTIVAZIONE
Medaglia d'Oro al Valor Militare

Patriota di elevati sentimenti, partecipava con slancio e decisione alla lotta fin dall’inizio del movimento di liberazione. Radiotelegrafista in una stazione clandestina di collegamento con il Comando Alleato, benché perseguitato dalle polizie nazifasciste, mai esitava innanzi ai pericoli pur di assolvere alla delicata e importante missione affidata al suo alto patriottismo. Catturato, tentava la fuga per non far cadere nelle mani del nemico il cifrario di cui era in possesso; rincorso e ferito gravemente, prima di essere ripreso trovava la forza di far scomparire il documento. Atrocemente seviziato taceva fieramente e, dopo aver resistito per diverse ore alle disumane torture, esalava lo spirito immortale di eroe. Fulgida figura di altissima dedizione al dovere e di sublime spirito di sacrificio.

Italia settentrionale, settembre 1943 – 1 aprile 1944




Alberto e Aldo Li Gobbi

Nati in Emilia, Alberto nel 1914 e Aldo nel 1918, i fratelli Li Gobbi provengono da famiglia borghese. Il padre, ufficiale di carriera, muore prematuramente. Allo scoppio della guerra, nel 1940, Aldo è chiamato alle armi ed ha mansioni di radiotelegrafista. L’armistizio lo sorprende a Oggebbio, sul Lago Maggiore, nella casa materna, dove sta trascorrendo una breve licenza premio. Si dà alla macchia.
Con il nome di battaglia Flores, partecipa ad azioni di guerriglia; poi, con la qualifica di Capo Servizio Informazioni, s’inserisce nella formazione partigiana Beltrami. Arrestato il 31 marzo 1944 a Genova, è sottoposto ad atroci sevizie: muore il giorno dopo.
Affine l’itinerario del fratello maggiore Alberto, la cui vita di soldato fu leggendaria e probabilmente unica nel Secondo conflitto. Dopo l’8 settembre riesce ad attraversare le linee e, dopo molteplici peripezie (è anche sofferente per una ferita precedentemente riportata in combattimento), raggiunge un Comando italiano. Assegnato allo S.M.E. - Ufficio Informazioni, si offre volontario per una missione nel territorio occupato dai tedeschi.
Paracadutato, insieme a Edgardo Sogno, nelle campagne del Biellese, guida azioni di guerriglia contro i nazifascisti e contrasta efficacemente i feroci rastrellamenti nemici. Catturato con il fratello a Genova, è imprigionato, torturato e condannato a morte. Riesce a scappare dal carcere, non prima di aver lasciato fuggire al suo posto Sogno. Ha già due Medaglie di Bronzo e due d’Argento meritate in Grecia e sul fronte russo: viene decorato come Aldo con la Medaglia d’Oro. Continua nella carriera militare, raggiungendo i gradi più elevati: lascia il servizio come Generale di Corpo d’Armata, Comandante le Forze Terrestri Alleate del Sud Europa (1977).
Nel 1997 è pubblicato il volume Alberto Li Gobbi, radiografia di un combattente, ovvero guerre parallele. Il libro, prefato da Edgardo Sogno e curato da Vittorio Buccheri, offre una puntuale biografia dell’ufficiale che, dopo essere entrato in quiescenza, si dedica anche all’attività pubblicistica. Li Gobbi muore nel 2011.
Il racconto che segue, tolta la conclusione assolutamente vera, è frutto di fantasia: l’autore non conosce nulla dell’adolescenza dei fratelli Li Gobbi e, quindi, le vicende narrate sono frutto d’inventiva. Con una postilla. L’arresto dei fratelli Li Gobbi a Genova fu provocato da una delazione: questo è un fatto accertato. Chi fosse il delatore, a questo punto, ha scarsa importanza, mentre sembra questione non trascurabile capire perché vi fu tradimento. L’ipotesi più verosimile è che qualcuno, per salvare la propria pelle, abbia venduto quella degli altri compagni di lotta. Ma questa ipotesi non spiega tutto: resta il mistero luciferino di una creatura umana che si cala negli abissi della delazione e che, poi, riesce a convivere con la propria ignominia. È su questo tema che il racconto ha tentato di fare un po’ di luce, ed è un tema che di sicuro ha assillato Aldo, prima della sua tragica fine, e non meno Alberto, che nel corso della sua restante vita ha dovuto soffocare un ricordo certamente angoscioso. Infine vi sono un paio d’impertinenze su Garibaldi: il tono è palesemente scherzoso, non vi è possibilità di equivoco. La più bella icona della storia patria continua a risplendere, e il nipote di uno degli ultimi garibaldini non osa offuscarla (mio nonno Claudio, durante la guerra franco-prussiana, combatté a Digione con l’Eroe dei due Mondi).

Un angelo che si chiama Giuda di Giampaolo Rugarli
Mi chiamo Ignazio Caldirolo e la natura è stata molto avara con il mio aspetto: per la strada, la gente si volta a guardarmi. Ero molto brutto anche allora, sebbene non fossi che un ragazzino. Quell’anno avvennero grandi cose: Charles Lindbergh volò senza scalo dall’America a Parigi, mentre in Cina il generalissimo Chiang Kai-Shek, dopo aver preso il comando del Kuo Min Tang, ossia del partito nazionalista, diede il via alla guerra civile contro i comunisti di Mao Tse-tung. Ma, di tanti avvenimenti memorabili, la Carta del Lavoro parve un fatto epocale come suoi dirsi, tant’è che fu emanata il 21 aprile, Natale di Roma. Che cosa fosse esattamente questa Carta non l’ho capito, ma, a giudicare dal chiasso e dai festeggiamenti, doveva essere una meraviglia.
Abitavo a Sampierdarena e, intorno, vi era fervore di opere: si lavorava per costruire la zona industriale, per ampliare le strutture portuali, per dotare la città di un confacente aeroporto. A scuole finite, le famiglie ci lasciavano uscire a giocare nei prati non ancora divorati dalle ruspe, e bisogna dire che della libertà accordataci per lo più non facevamo cattivo uso. Eravamo in una ventina, tra gli otto e i quindici anni e, divisi in due bande, giocavamo alla guerra, però senza vera inimicizia. Prima che scendesse il buio, la pace era ristabilita, salvo riprendere le ostilità il giorno dopo. Eravamo armati di fucili di legno (non tutti, qualcuno doveva accontentarsi di spade fabbricate con i giornali) e, pim pum pam, con la bocca esplodevamo colpi mortali. Contendevamo per la conquista di un capannone provvisoriamente abbandonato. Alberto era uno dei più vecchi di noi, ed era certamente il più saggio, come spesso è destino di chi è possente nella persona (già si intravedeva il futuro gigante). Suggerì: «Ragazzi miei, perché dobbiamo prenderci a cazzotti per occupare uno spazio dove potremmo giocare tutti, d’amore e d’accordo? La pace non è più bella e più semplice della guerra?». Per un poco sembrò che avesse ragione e, sancito un armistizio, occupammo il capannone: ma subito cominciammo a litigare per decidere quali giochi erano possibili, d’amore e d’accordo. Non ce n’erano. Alberto si era sbagliato, non c’era niente di meglio della guerra. Una guerra cavalleresca, senza cattiverie. Le due fazioni in campo si chiamavano ‘Gli sparvieri’ e ‘Gli squali’, a seconda delle propensioni per il cielo o per il mare (era molto viva la competizione tra la nascente aviazione e la vecchia marina, perseguitata dal ricordo di Lissa). Personalmente ero uno Sparviero e, a casa mia, quand’ero sicuro che nessuno mi vedesse, mi scrutavo nello specchio, e mi dicevo: «Tu sei uno Sparviero», e alzavo le braccia, immaginandomi in procinto di spiccare il volo. Era un decollo impossibile. Restavo inchiodato a terra, con la mia goffagine. Almeno mi avessero lasciato in pace! Il mio patrigno, appena seppe della mia classificazione ornitologica, sgranò gli occhi ed esclamò: «Non è possibile! Con quella faccia, al massimo potresti essere un avvoltoio... ». Mi ritirai nella mia stanzetta e, cercando di non farmi sentire, piansi.
Il giorno dopo domandai ad Alberto se mi vedeva molto brutto. «Abbastanza» rispose. «Un chirurgo non potrebbe cambiare la mia faccia?» precisai. «Non lo so» sorrise, «ma, se fossi in te, non vorrei cambiare. L’apparenza non conta. Tu sei un bravo ragazzo. Che altro pretendi dalla vita? A ogni modo, ti darò una prova di fiducia, di grande fiducia, e ti confiderò dove è nascosto il nostro gagliardetto, il gagliardetto degli Sparvieri. Adesso siamo in due a saperlo, io e mio fratello Aldo: d’ora innanzi saremo in tre, anche tu conoscerai il segreto. Ma bada! Con la bandiera c’è il nostro arsenale, ci sono le nostre armi... Se gli Squali mettessero le mani sul tesoro, per noi sarebbe la fine, lo capisci?».
Lo capivo e, non mi è chiaro il perché, sentendomi gravato di una responsabilità di importanza cruciale, pensai di essere migliore e riuscii persino a credermi un po’ meno brutto. Andai a ispezionare il nascondiglio. Ai piedi di un platano, un mucchio di pietre celava un buco e, nel buco, una scatola di latta, di quelle usate per i biscotti, serviva da cassaforte. Guardai, preoccupandomi che nessuno mi guardasse. Ripiegato su se stesso, c’era il gagliardetto, di una stoffa lucida e pungente. Su uno sfondo bianco, era stata ricamata un’aquila o un volatile della stessa parrocchia: il ricamo era sommario, stilizzato. Trovai poi un sacchetto pieno di chiodi, cinque petardi, quattro scintillini, otto fionde e undici mollette per appendere i panni ad asciugare. Rimisi tutto a posto. C’era di che vincere la guerra.
Tornai a casa, rincuorato. Avrei voluto comprarmi una pistola giocattolo, la stima di Alberto nei miei confronti sarebbe aumentata. Chiesi dieci lire al mio patrigno: si mise a ridere, e poi disse che, al massimo, avrebbe potuto mollarmi dieci ceffoni. Lo odiai e sognai di fargli del male. Leggevo Piccolo alpino, un romanzo di Salvatore Gotta, appena uscito: era la storia di un ragazzo travolto dalla guerra mondiale e, per fortuna di Giacomino Rasi (così si chiamava il protagonista), erano tutti bravi, tutti buoni, tutti perbene. Anche i cani. Anche gli austriaci. Mi persuasi che Piccolo alpino era un libro sbagliato: c’erano i galantuomini ma c’erano pure le carogne, a questo mondo. Chi fossero i vincitori rimaneva un terribile enigma. Nei giorni che seguirono vi fu uno scontro molto duro tra gli ‘Sparvieri’ e gli ‘Squali’: volarono sassate e cazzotti più pesanti del solito, le botte non furono scherzose ma violente. Alla fine in tre avevano il naso sanguinante, e Aldo, il fratellino del nostro generalissimo, era stato fatto prigioniero. Era una novità. Nelle nostre battaglie, per tacita convenzione non si facevano prigionieri, anche perché, a ora di cena, bisognava ritornare a casa, e sarebbe stato impossibile protrarre una pur simbolica carcerazione. I genitori non dovevano immischiarsi e, per tenerli fuori, la prima cosa era non sgarrare sugli orari. A settembre le giornate si accorciano visibilmente, e fa buio abbastanza presto. Alberto mi chiese di scortarlo, e andò a parlamentare con Genesio, il capo degli ‘Squali’. Genesio era famoso: ripeteva per la seconda volta la terza ginnasiale, e sua sorella Fatima era più bella delle attrici del cinema. Era persino più bella di Francesca Bertini.
«Se non mi dici dove hai nascosto mio fratello» esordì Alberto, «ti spaccherò la faccia». «Sta a vedere se ci riuscirai» lo provocò Genesio. «Ci puoi giurare» lo rassicurò Alberto, «non ti accorgi che sono grosso il doppio di te?». Era vero e, dopo una breve esitazione, Genesio mandò a liberare il prigioniero. Non intendeva spingersi oltre, sapeva che doveva farsi perdonare non soltanto il dubbio scherzo della cattura di Aldo. Che riapparve nel giro di pochi minuti. Lo avevano nascosto in una vecchia garitta abbandonata, forse sperando di intimidirlo, di impaurirlo. Non aveva fatto una piega. Sorrideva. Aveva un occhio nero, e il brutto ematoma legittimava le peggiori illazioni. «Non è colpa di nessuno» Aldo prevenne possibili domande e, mostrando l’ecchimosi, spiegò: «Sono andato a sbattere contro una porta, stupidamente. Ho fatto tutto io. Ora però sarebbe meglio tornare a casa, è ora di cena e la mamma sarà in pena». «Aggiusteremo i conti» fu il congedo di Alberto da Genesio, che, a sua volta, scandì: «Aggiusteremo i conti».
Non era vero che Aldo avesse sbattuto contro una porta. Lo avevano pestato, e di brutto. Ma non si erano accontentati, lo avevano torturato per quanto possono farlo ragazzi incoscienti. Lì per lì, aveva preferito tacere la sua disavventura, non voleva innescare una spirale ritorsiva destinata a prendere una brutta piega. Ma il gioco della guerra era diventato diverso da quello che avevamo praticato sino ad allora: non più combattersi senza farsi troppo male, fisicamente e moralmente, per ritornare amici al termine di ogni battaglia. Invece un imprevedibile maleficio era arrivato a trasformare una finta inimicizia in una inimicizia vera: e la cattiveria, se non la crudeltà, aveva infettato i nostri contrasti. ‘Sparvieri’ e ‘Squali’ stavamo imparando ad odiarci.
Di questo triste cambiamento di scena ebbi conferma un paio di giorni più tardi, quando Aldo si decise a vuotare il sacco, e a raccontare le umiliazioni e le perfidie subite durante la sua prigionia.
L’occhio nero non era effetto di un cazzotto ma di una pedata dopo che lo avevano buttato a terra. Perché tanto accanimento Genesio voleva sapere dov’era nascosto il gagliardetto degli ‘Sparvieri’ e, pur di raggiungere il suo scopo, non aveva esitato a usare le maniere forti. «Ma io non ho parlato» concluse Aldo con orgoglio. «Sei un bravo ragazzo» lo elogiò Alberto, «e tutto il male che ti hanno fatto è stupido. Il dolore non piace a nessuno, ma, nella vita, capita abbastanza spesso di doverlo sopportare, stringendo i denti. Un piccolo intervento chirurgico, una medicazione, una colica... Strillare non serve a niente, la pena non diminuisce. A essere sotto tortura, basta pensare che, dopo aver parlato perché i tormenti finiscano (se finiscono), comincia la vergogna del tradimento, che è molto peggio. Ogni bravo soldato dovrebbe esserne convinto».
Mi venne affidato un compito delicato: dovevo consegnare a Genesio una dichiarazione di guerra totale. «Torturerà anche me» mi permisi di obiettare. «E tu stringerai i denti» sorrise Alberto. Lesse lo sgomento sul mio volto, e: «Non oserà toccarti» mi rincuorò, «con la guerra totale avrà le sue gatte da pelare. Questa volta useremo le fionde, e tireremo i chiodi con le fionde... ». «Ci sarà da farsi male» osservai. «Perché?» sogghignò Alberto. «Vorresti fargli una carezza?» «C’è il rischio di spedire qualcuno al pronto soccorso» mi permisi di insistere, «e qualcun altro potrebbe finire al riformatorio... I chiodi li lascerei perdere». «D’accordo» tagliò corto Alberto, «li useremo solo in casi disperati, però dovrà essere lotta senza quartiere». Genesio lesse la dichiarazione di guerra totale e mi guardò in silenzio. «Come sei brutto, Ignazio!» disse all’improvviso. «Non me ne ero mai accorto. A romperti il muso non c’è senso: è impossibile ridurti ‘più peggio’ di come sei». La violenza usata ai comparativi tradiva il pluriripetente, ma il ragazzo non era stupido. «Ebbene?» buttai là, senza raccogliere l’offesa (e poi di essere disgustoso lo sapevo), «C’è una risposta?» «Sicuro che c’è una risposta» Genesio confermò, «ma, prima che ti faccio conoscere le mie intenzioni, ci voglio fare una chiacchierata con te, amico mio. Sono convinto che ci sarebbero molti argomenti dei quali discutere». Non risposi né si né no (adesso erano in pericolo i verbi), decisi di non sottilizzare: restai ad ascoltarlo metà offeso e metà incuriosito. Genesio mi offrì un bicchiere di citrato, comprese la mia diffidenza, bevve anche lui. Cominciò a parlare.
In principio credetti che volesse divertirsi alle mie spalle, e nient’altro: riprese il tema delle mie sembianze, se era una disgrazia ereditaria, se era una beffa della natura, se era il risultato di malattie deturpanti. «Fai schifo, amico mio» continuava a ripetermi, «fai proprio schifo», e io a scanso di guai, gli davo ragione, soggiungendo che però non avevo colpa di essere una creatura ripugnante. «Peggio ancora» continuò implacabile Genesio, «il tuo caso è abbastanza simile a quello del signor Hyde... Hai letto il libro? lo no, perché leggere mi disturba, però ho visto il film... un vecchio film muto che ti mette addosso una fifa tremenda. Hyde, nel suo genere di figlio di un cane, è perfetto: è mostruoso di fuori e di dentro, è orrendo per quanto è carogna. È imparentato a Belzebù. È il male. E, bada bene, non ci ha nessun problema di coscienza, lui se ne sbatte, anzi è tutto contento di essere un verme, perché pensa che tutti lo siano, e che è inutile menarla, dal momento che in ogni caso il traguardo è la morte. Certe volte mi piglia la tentazione, e mi ricordo le illustrazioni di non so chi, per l’Inferno di Dante: nello sguardo dei dannati ci trovo quasi una luce di gioia, e mi domando come si deve stare, tutti nudi tra le fiamme, mentre i diavoli ti punzecchiano, e tu bestemmi chiunque ti ha creato. Amico mio: con la tua bruttezza, non devi prendere a modello Garibaldi o Mazzini. Il signor Hyde deve essere il tuo ispiratore, il tuo protettore, il tuo santo patrono... Guardati nello specchio, bastardo: e capirai che non ti rompo la testa perché tu mi fai paura».
Genesio volle che bevessimo un altro bicchiere di citrato. Tornò a divagare sul bene e sul male, finché mi feci coraggio e dissi la mia: del resto, lui stesso mi aveva accordato una sorta di impunità, dichiarando che non avrebbe osato toccarmi tanta paura gli facevo. Mi ascoltò con attenzione. Replicò. Replicai anch’io. Alzammo la voce, ci accalorammo. Finalmente trovammo una giusta intesa che definimmo nei particolari. La guerra totale sarebbe stato meglio rimandarla alla primavera: tuttavia, se gli Sparvieri volevano lo scontro a ogni costo, la data migliore era la prima domenica di ottobre. E l’affronto che era stato fatto ad Aldo? Al fratello del mio capitano? «Andrà tutto a posto» mi rincuorò Genesio, «e tu sai come. Non è così?». «Sì, è così» io dissi, e me ne andai.
Mi turbava l’idea di appartenere alla famiglia del signor Hyde. lo ero un bravo ragazzo e detestavo il male, a dispetto della mia faccia ripugnante. Ma era proprio così? Tornato a casa, rintanai nella mia stanzetta e mi spogliai completamente: c’era un grande specchio di fronte a me, e mi guardai... Mio Dio, sembravo davvero una apparizione infernale e, quel che è peggio, saliva in me non so che desiderio di abiezione, di ignominia. Mi ero ingannato su me stesso, sul significato della vita, su tutto: il male era bellissimo, ed era l’unica risorsa possibile di un mondo che ti accoglieva per respingerti dopo un tempo più o meno breve. L’unico sentimento autentico era la disperazione, e il male era la voce della disperazione. Fui tentato di smoccolare, di convocare l’Altissimo a spiegarmi le sue follie, ma non osai... avevo dodici anni o poco più, bisogna scusarmi. Allora cominciai a inveire contro Garibaldi, a gran voce, questo avventuriero che, non lontano da me, dallo scoglio di Quarto, aveva preso il mare per la sua famigerata spedizione. Mentre imprecavo all’indirizzo del sedicente Eroe dei due Mondi, la porta della mia cameretta si spalancò. Apparve il mio patrigno.
«Che cosa fai nudo come un verme?» si sdegnò. «E perché insulti il generale Garibaldi? Un fulgido condottiero, accidenti!» «Volevo rendermi conto della mia bruttezza» spiegai «e, quanto a Garibaldi, dicono che fosse biondo, mentre io sono scuro di capelli». «Non dire scemenze» mi rimproverò il patrigno, «e vedi di rivestirti per direttissima: sei brutto quando sei coperto, ma, spogliato, giuro davanti a Dio che si potrebbe temere una manifestazione infernale... ». Restò a guardarmi, intanto che tornavo a indossare i miei poveri abiti, ed ecco che, da una tasca dei calzoni, cadde in terra un biglietto da cento lire, malamente accartocciato. «Cento lire!» si stupì il patrigno. «Dove le hai rubate?» «Sono mie, punto e basta» mi discolpai, con una incrinatura di pianto nella voce. «È farina del diavolo» sentenziò il despota. «Rimangono confiscate a beneficio della famiglia, e poi... è immorale che un ragazzino come te abbia tutti questi soldi». Girò i tacchi, e mi abbandonò in un abisso di desolazione.
Il giorno dopo riferii ad Alberto l’esito della mia ambasceria. Non riferii tutto. Sperai che per la guerra totale avrebbe preferito aspettare la primavera, invece optò per la prima domenica di ottobre. Convocò il fratello Aldo, e mi annunciò che sarebbero andati a riprendere il gagliardetto e le armi nascoste ai piedi del platano. Con l’aria che tirava, era meglio trovare un rifugio più sicuro; e bisognava riprendere gli allenamenti a colpire con le fionde. Mi passò un brivido per la schiena, e balbettai: «Forse non c’è tanta urgenza». Alberto scosse il capo, mi accarezzò su una guancia e: «Una volta la guerra era un gioco» disse a voce bassa, quasi per confidarmi un segreto, «e la conquista di un capannone abbandonato non era che un pretesto. Non dimenticare che pure nel gioco io volevo la pace, suggerivo di giocare d’amore e d’accordo. Purtroppo siamo cresciuti, e dobbiamo agire da grandi, da uomini... I grandi sono un pessimo esempio. Occhio per occhio dente per dente, non è questa la regola?». «Si potrebbe anche perdonare... » azzardai. «Ne sei convinto?» domandò Alberto. «Tu perdoneresti chi ti ha regalato la tua bella faccia?». «È stato un regalo di mio padre» bisbigliai, «e mio padre è morto».
Restai in attesa, trepidando. Non dovetti aspettare a lungo. Alberto e Aldo ritornarono, a mani vuote. Erano scuri in volto. «Nella scatola non c’è più niente» annunciarono, «è stato rubato tutto, e quel che abbiamo trovato è un biglietto, dov’è disegnato un pescecane». «Hanno scoperto il nascondiglio» balbettai con una voce ipocrita che mi era estranea e che nondimeno era mia. «Lo hanno scoperto perché c’è stata una delazione» disse Alberto. «Forse Aldo, mentre lo tormentavano, ha ammesso qualche cosa... » balbettai. «lo non ho ammesso niente» protestò Aldo, «io non ho parlato». «Mio fratello non ha parlato» confermò Alberto, «però io credo di sapere quello che è accaduto... ».
Lo sapevo anch’io quello che era accaduto. Il traditore ero io. Mi ero lasciato convincere da Genesio, al secondo bicchiere di citrato: però mentirei, se dicessi che a fare di me un delatore erano stati un biglietto da cento lire (confiscato dal patrigno) e una vaga promessa di un bacio che Fatima, la bellissima sorella di Genesio, avrebbe posato sulla mia fronte. I soldi me li aveva fregati il mio genitore fasullo e il bacio sarebbe rimasto uno dei tanti sogni che non si avverano. Lo ammetto, farmi corrompere mi era piaciuto, ma a darmi la spinta decisiva verso il tradimento era stata la considerazione che, finalmente, smettevo di essere una comparsa, un anonimo, uno qualsiasi, e invece diventavo un protagonista, un eroe pur negativo, un vile marrano come quelli dei romanzi. Ero stato abbagliato dal male, e avevo scrutato nei luoghi più segreti e riposti del mio cuore: avevo capito che il comandamento ‘ama il prossimo tuo come te stesso’, nel mio caso andava rovesciato. io odiavo me stesso, e dunque odiavo il prossimo mio. Mio padre era morto, mia madre mi aveva svenduto a un gaglioffo, non avevo parenti, non avevo amici, non avevo nessuno che mi volesse bene, ed ero brutto più di un diavolo dell’inferno: per vendicarmi del destino, non c’era che la nefandezza.
«Sei stato tu che hai parlato» affermò Alberto, fissandomi negli occhi, «non è così?». Mi domandai se confessare o negare, nella certezza che in tutti e due i casi avrei ricevuto una severa lezione: perciò mi buttai a terra e mi raggomitolai, in quella posizione le botte facevano meno male. «È inutile che tu faccia il riccio» disse Alberto crollando il capo, «puoi rimetterti in piedi. Io non ti toccherò e, per quanto mi riguarda, nessuno ti toccherà. Non fai più parte degli ‘Sparvieri’, questo è tutto. Non c’è posto per i traditori. D’altronde, gli ‘Sparvieri’ non esistono più, finiscono di esistere da questo momento. Abbiamo giocato abbastanza, e ne ha fatto le spese Aldo che non ha ancora dieci anni ed è il più piccolo... Incredibile. Un ragazzino, anzi un bambino ha mostrato più carattere di te. Non ci sarà nessuna guerra, almeno tra i giovani di Sampierdarena. La guerra totale la combatta Genesio con i suoi compagni. Noi altri si chiude bottega. Perché vedi, Caldirolo Ignazio, di una cosa sono tuo debitore. Ne sono debitore anche a Genesio, ma sei stato tu che mi hai aperto gli occhi, che mi hai fatto capire: l’età dei giochi è finita. Non lo so se siamo già diventati uomini, è sicuro che non siamo più innocenti».
Era da qualche tempo che avevo smesso l’abitudine di pregare, al momento di addormentarmi. Quella sera lottarono dentro di me il desiderio di raccomandare a Dio la mia anima sciagurata e la tentazione di persistere nel sacrilegio. Alla fine, con gli occhi umidi, recitai un ‘Padre Nostro’, senza chiedere perdono: prima di scivolare nel sonno, pensai che il mio Angelo custode era Giuda.
Passarono vent’anni, poco meno. La guerra totale era scoppiata, non per gioco, e i giovani di Sampierdarena avevano vestito la divisa, erano stati mandati al fronte e si erano trovati alle prese con il terribile dilemma creato dall’armistizio. Alberto e Aldo Li Gobbi non avevano esitato, la legalità era dalla parte della monarchia, e poi era stupido sommare altri morti e altre rovine per una causa persa. Persa e sbagliata. Alberto e Aldo Li Gobbi entrarono in clandestinità, e io con loro. Ma sì, c’era stato un mio spiacevole infortunio al tempo dei nostri giochi di ragazzi: Alberto era un generoso, e mi aveva perdonato presto. Capiva che la mia bruttezza mi condannava alla solitudine, sapeva che nessuna donna si accompagnava con me. Mi aiutava, per quanto poteva.
Purtroppo vi fu un agguato, e il 31 marzo del 1944 venne arrestato a Genova, e con lui il fratello Aldo. Quest’ultimo, con il nome di battaglia ‘Flores’, aveva compiuto nel novarese azioni di guerriglia e soprattutto aveva svolto efficace opera informativa: fu trovato in possesso di un cifrario, che riuscì tuttavia a distruggere, e quindi fu seviziato perché rivelasse notizie sulle organizzazioni partigiane. Flores si lasciò uccidere senza nulla confessare.
Alberto ebbe destino quasi analogo, ma più fortunato. Era stato paracadutato con Edgardo Sogno oltre le linee nemiche e, benché ancora sofferente per una ferita di guerra, aveva stabilito un collegamento con il Comando Alleato e si era posto alla guida di formazioni partigiane. Dopo la cattura, anche lui fu torturato, perché in possesso di documenti compromettenti – ma nessuno venne tradito. In carcere, ebbe l’opportunità di evadere: volle che, al suo posto, fuggisse Sogno, vittima a sua volta dell’agguato genovese. Condannato alla fucilazione, fu trattenuto in prigione per lunghi mesi e, alla fine, riuscì a scappare e riprendere la guerriglia.
Quanto a me, non ebbi alcun fastidio, forse perché il mio aspetto ripugnante induceva a credere che fossi inoffensivo. La mia partecipazione alla lotta clandestina un poco si inceppò, e dovetti fare i conti con sospetti e con diffidenze. Tutti pensavano che, a Genova, vi fosse un delatore.
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