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Il Forum

Roberto CENTARO - Emanuele MACALUSO - Lino JANNUZZI - Alfio CARUSO - Fabrizio FEO - Francesco LA LICATA

FORUM:
Un fenomeno di nome mafia Cosa Nostra


Cosa Nostra rappresenta lo strumento utilizzato per identificare e comprendere anche altre tipologie mafiose. Il suo modello organizzativo è la cartina di tornasole per connotare come mafioso un comportamento illecito. La sensibilità acquisita nel tempo ne ha segnato la comprensione sul piano sociale e legislativo. La ormai consolidata e diffusa conoscenza del fenomeno consente, grazie al contributo di qualificati esperti di settore, di esplorarne, con interrogativi mirati, alcuni possibili scenari evolutivi di una realtà tuttora di estrema attualità. Non vogliamo proporre una “storia” di Cosa Nostra, ma tentiamo di esplorarne il presente e il futuro.


Roberto CENTARO
Emanuele MACALUSO
Lino JANNUZZI
Alfio CARUSO
Fabrizio FEO
Francesco LA LICATA


D. La storia di Cosa Nostra è prevalentemente frutto di conoscenze investigative e giudiziarie. Quanto rimane ancora da scoprire? Esistono nuovi strumenti di ricerca che consentano una visione integrata del fenomeno?

Roberto Centaro - Rimane ancora molto da scoprire giacché le dinamiche interne all‘organizzazione sono state conosciute occasionalmente, in virtù di indagini o di dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ma una completa ricostruzione dell ‘evoluzione dell‘organizzazione, quantomeno nel secolo scorso, è stata realizzata solo in parte attraverso fatti specifici e spesso per linee generali. Medesima considerazione vale per la situazione nell‘attualità. Nuovi strumenti di ricerca in grado di consentire una visione integrata del fenomeno possono pervenire a risultati più soddisfacenti ma pur sempre incompleti poiché la segretezza dell’associazione e la sua organizzazione a compartimenti stagni precludono una ricostruzione assolutamente esente da zone d’ombra; ancor più, se si ha riguardo ai rapporti con la politica e le istituzioni.

Lino Jannuzzi - La storia di Cosa Nostra muta nel tempo, e più di quanto non si creda e non si desuma dalle conoscenze investigative e giudiziarie. C'è sempre da scoprire, e gli strumenti di ricerca fondamentali sono sempre le indagini, quelle trascurate e disattese con l'ubriacatura del pentitismo, quelle non distorte e strumentalizzate a fini politici, quelle più autonome e meno soggette alle improvvisazioni e al dilettantismo dell'autorità giudiziaria.

Francesco La Licata - Le indagini scaturite dopo l’esplosione dell’ultima guerra di mafia (dalla fine degli anni Settanta alla metà degli Ottanta, poi continuata e trasformatasi in una guerra totale della Cosa Nostra ‘corleonese’ - uscita vincente dallo scontro interno - contro la Stato) hanno consegnato un quadro d’insieme che, in qualche modo, riusciva a colmare l’enorme vuoto di conoscenze creato negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta da una colpevole distrazione istituzionale e dalla sistematica sottovalutazione del fenomeno. La conoscenza attuale della cosiddetta mafia militare, seppure con qualche pericoloso vuoto che fa temere una sorta di ritorno alle distrazioni del passato, sembra di livello accettabile. Rimane da scoprire, ma forse sarebbe più preciso dire monitorare, la ricaduta che la presenza di un fenomeno così invasivo esercita e nel territorio e lontano dalla ‘casa madre’ dove pure Cosa Nostra dimostra di saper insediarsi e radicarsi. Rimangono da scoprire le dinamiche dell’intreccio, ormai frutto quasi di automatismi difficili da estirpare, che salda (per via politica, finanziaria, economica e sociale) la mafia alla società civile in tutte le sue articolazioni. Sarebbe perciò auspicabile che si promuovesse una ricerca - semplificando si potrebbe definire genericamente sociologica - all’interno delle diverse categorie sociali per conoscere fin dove si spinge la capacità invasiva di Cosa Nostra e del ‘sentire mafioso’. Per fare un esempio: è di qualche mese fa una ricerca, portata avanti col semplice ricorso al questionario anonimo, nel mondo dei preti e dei parroci impegnati nelle comunità di borgate e paesi a rischio. Bene: sembra siano venuti fuori risultati interessanti su come i religiosi si pongano nei confronti della mafia e della ‘ideologia’ mafiosa, spesso avvertita come meno pericolosa di altre manifestazioni del costume. Penso con curiosità a cosa accadrebbe se simili iniziative fossero avviate all’interno delle categorie professionali, dei partiti, dei sindacati, dei giornali, delle banche, etc. etc.

Emanuele Macaluso - La storia di Cosa Nostra – a mio avviso - non è ‘prevalentemente’ frutto di conoscenza investigativa e giudiziaria, anche se questa vi ha contribuito. Studi, libri, inchieste parlamentari, dal 1870 in poi, hanno individuato i caratteri della mafia, i suoi rapporti con la politica, le istituzioni e le società. Purtroppo a queste conoscenze e alla lotta politica svoltasi per estirpare questo cancro, non ha corrisposto sempre l’opera dei governi e una adeguata azione investigativa e giudiziaria. Quando questa azione si è attivata, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, c’è stata la reazione mafiosa che conosciamo, con gli omicidi di tanti servitori dello Stato, poliziotti, carabinieri, magistrati. Oggi gli strumenti per una visione integrata del fenomeno esistono, sia sul piano legislativo sia su quello operativo. Il nodo è un altro, ed è antico e moderno: la volontà politica.

Fabrizio Feo - Io credo che la nostra condizione sia ancora oggi quella di chi osserva la luna, continuando a vederne, ad occhio nudo, solo ed esclusivamente un lato. Si ripete, anche senza grande fantasia, che la mafia degli anni di Provenzano ha scelto l’immersione: penso che si dovrebbe, una buona volta, decidersi a dire più correttamente che ‘con Provenzano è diventata più ampia la parte immersa del corpo di Cosa Nostra’. In sostanza il risultato non colto, negli ultimi dodici anni di lotta alla mafia siciliana, non è soltanto quello di non essere riusciti ad interrompere la ultra quarantennale latitanza di Provenzano, quanto non essere riusciti a recidere sudditanza e/o consenso di ampi segmenti della società siciliana verso la cultura mafiosa - che si manifesta sempre poliedrica e sottile - e verso le sue dinamiche di potere, a qualunque livello si esprimano. Ne consegue anche la constatazione di non essere riusciti a percepire fino in fondo l’articolazione, i connotati, l’ampiezza, la diffusione, la pericolosità di quella che sbrigativamente - forse anche a giustificare il deficit di conoscenza - viene definita ‘area grigia’. È tutto qui - e scusate se è poco - il versante più inesplorato di Cosa Nostra: e comincerei proprio da questo punto, dovendo stilare un elenco delle priorità in un ipotetico ‘c’è da fare’ nella lotta alla mafia. Penso, dunque, che una parte della risposta alla domanda sia contenuta in essa stessa: il deficit di conoscenza – che poi abbraccia anche il lato più aggredito di Cosa Nostra, quello organizzativo-militare - è anche conseguenza del non aver pensato alla ricerca di strumenti che consentano una visione integrata, veri e propri ‘shuttle’ che permettano di andare ad esplorare anche la parte oscura del fenomeno. Strumenti per marciare in questa direzione possono venire solo dall’incontro e dall’attività sinergica delle conoscenze investigative, della ricerca sociale e dell’esperienza della società civile. Si è lavorato invece (nonostante gli ammonimenti di Falcone e di Borsellino) sul fronte normativo, giudiziario e investigativo, in una condizione psicologica e culturale che ripropone, alternate, le logiche e le forme degli interventi ordinari o dell’emergenza. Tutto questo è dovuto, tra l’altro, proprio al fatto che la lotta a Cosa Nostra (nonostante le grida d’allarme che da anni vengono dagli stessi magistrati e da settori della società civile) è rimasta un ‘problema’ dei soli magistrati e degli investigatori. Per non dire poi che l’argomento è stato affrontato dalla politica – ad essere buoni - in modo dozzinale. Quando non è stato affrontato per nulla o si è assistito ad interventi finalizzati solo a sterilizzare strumenti e capacità di contrasto al fenomeno. Un danno altrettanto grande è venuto dal fatto che il tema della lotta alla mafia è stato tenuto, salvo rare eccezioni, lontano dai campi di indagine della ricerca, quella vera … e che l’informazione , sempre meno o per niente, ha concorso all’esercizio fondamentale della memoria. Troppo spesso non è andata oltre la frammentarietà della cronaca, diventando fine a sé stessa. Se non addirittura strumento… - e qui non parlo dei singoli giornalisti sul campo ma di chi concorre a formare modi, regole e scelte della comunicazione - non certo della lotta alla mafia.

Alfio Caruso - Rimane da scoprire tutto quello che non è stato scoperto fin qui. Al di là della facile battuta, continuiamo a ignorare i rapporti e le complicità tra i mafiosi e i presunti insospettabili. Basterebbe cominciare da una domanda semplice, semplice: da dove provengono i 20 miliardi di euro liquidi che piovono ogni anno sulla Sicilia e consentono ai siciliani di sopravvivere in una realtà dove in dieci anni hanno chiuso un terzo delle attività produttive? Per arrivare alle risposte non servono, o non bastano, vecchi e nuovi strumenti di ricerca, bensì la volontà politica. Finora è mancata. In questo campo tutti i partiti, naturalmente in misura diversa, hanno mostrato la coda di paglia.

D. Per lunghi decenni Cosa Nostra ha anticipato le dinamiche della globalizzazione, acquisendo connotati e logiche transnazionali. Oggi, di contro, sembra ‘subire’ la competitività, anche in ambito nazionale, di organizzazioni sempre più aggressive e inserite nei circuiti illegali di un mercato ormai globalizzato. L’insularità siciliana, pertanto, è da ritenersi ancora centrale oppure strategicamente superata?

Centaro - L‘insularità non rappresenta un elemento favorevole o sfavorevole in una logica di traffici transnazionali giacché essi dipendono dai rapporti che Cosa Nostra riesce ad intrattenere ed alla sua valenza ‘militare’ ed ‘economica’. Per certi versi, la centralità dell‘isola nel Mediterraneo è ancora un vantaggio, rappresentando un punto di transito obbligato.

Macaluso - Cosa Nostra può per qualche tempo subire la competitività di altre organizzazioni nazionali e internazionali. Tuttavia, arriva il momento dell’intesa, del rapporto operativo, anche come stato di necessità. ‘L’insularità’ di Cosa Nostra, penso che non sia né centrale, né superata. Esiste come articolazione dell’organizzazione mafiosa che oggi opera in forme policentriche.

Jannuzzi - L'insularità siciliana non è più centrale ed è strategicamente superata. Anche senza pensare all'invasione delle mafie straniere, basta misurare l'ormai indiscusso primato della 'ndrangheta, e persino l'esplosione senza precedenti della camorra.

Caruso - Cosa Nostra continua a essere l’unica organizzazione criminale che deriva dalla natura stessa di un popolo. Prima si è siciliani, dopo si diventa mafiosi. E il concetto di mafiosità è estendibile anche a quanti non solo ne sono lontani, ma a volte la combattono.

La Licata - Si diceva che a Palermo mai e poi mai si sarebbe verificata l’invasione del ‘mercato’ territoriale da parte di organizzazioni criminali straniere. Oggi, invece, assistiamo al progressivo ‘allargamento’ di presenze un tempo impensabili. Basti indicare come la zona adiacente alla stazione centrale sia ormai una sorta di territorio ad alta concentrazione magrebina e cinese. E’ nata una specie di microeconomia pseudolegale più che tollerata da Cosa Nostra. Nello stesso territorio viene accettato anche il mercato della prostituzione condotto da africani e albanesi. A mio parere questo non è il segnale di una crisi di Cosa Nostra. Le indagini (poco approfondite, purtroppo), infatti, sembrano andare nella direzione della scoperta di una accettazione mafiosa del ‘nuovo mercato’ che Cosa Nostra governa concedendo una specie di ‘licenza’ a pagamento. Qualche tempo fa ho letto di alcuni rapinatori palermitani che preferivano i colpi ‘fuori casa’ per sfuggire al pagamento del ‘pizzo’ su ogni rapina consumata a Palermo. Non mi sembra, questo, un sintomo di perdita di centralità. Mi sembra, invece, si stia verificando ciò che avviene nei periodi di crisi della mafia, e cioè il ripiegare sul territorio intensificando il controllo e le attività primarie (specialmente le estorsioni) per investire, poi, con l’ausilio di validi ed insospettabili consulenti. Ciò consente il perdurare di quel ‘silenzio mafioso’ che sembra la strategia vincente di Bernardo Provenzano.

Feo - Più si prova ad approfondire la conoscenza di forme di organizzazioni criminali, italiane e di altre aree del globo, della storia recente, su base territoriale o coagulate intorno a specializzazioni e a segmenti particolari dei traffici illeciti, più si studiano forme di criminalità ‘antiche’ e al tempo stesso così moderne come la ‘ndrangheta , e più viene la tentazione di dire che sì l’insularità siciliana è da ritenersi superata, che Cosa Nostra non solo ha perso leadership ma non ha più un modello criminale di riferimento da proporre, sia sul piano economico che delle relazioni politiche, e ancor più sul versante dei rapporti internazionali. Anzi, a giudicare da quello che ci dicono le inchieste più recenti, Cosa Nostra deve cercare partnership, sul piano organizzativo, alleanze, non sempre paritarie sul piano finanziario, per continuare ad avere una parte in grandi traffici illeciti internazionali - titoli, droga, armi, ecc. - di cui, pure, nel secolo scorso ha tracciato la strada di qui e di là dell’oceano. È indiscutibile: le famiglie della ‘ndrangheta del reggino, ma non solo - basta pensare a quella dei Mancuso che controlla con le sue fazioni l’area centrale della Calabria - hanno un ruolo importantissimo nel traffico internazionale della cocaina, dettano i prezzi di questa droga, in aree importanti del globo, stabiliscono regole e condizioni del traffico, dispongono di quantità immense di denaro e di relazioni. Si dimostrano impenetrabili, capaci di riproporre le proprie forme organizzative originali, di esercizio del potere, con l’intimidazione, di condizionamento istituzionale, fuori dal proprio territorio di origine, non solo in Italia. Ma già basterebbe fermarsi solo al ‘lavoro’ svolto nel nostro Paese per capire che è proprio la ‘ndrangheta a costituire una risposta, tradizionale eppure al passo con i tempi, alla insopprimibile esigenza che hanno individui e interessi criminali di trovare in una forma di associazione forza, mutualità, mediazione, regolazione, coagulo, garanzia di successo. Eppure, nonostante tutto, resta, in tutta la sua potenza, la dimensione della pervasività culturale e politica di Cosa Nostra, capace di garantire il controllo degli apparati e del personale politico, non riproducibile, solo imitabile, ed imitata: una sorta di laboratorio permanente. Una ‘forma’ messa in crisi più da dinamiche e mutazioni interne che da fattori esterni, come possono essere inchieste, indagini, arresti.

D. Che tipo di continuità è ipotizzabile tra l’attuale dirigenza che si identifica nei personaggi storici, detentori anche dell’iniziativa economica, e le nuove leve, che gestiscono di fatto il territorio e rappresentano il braccio militare dell’organizzazione?

Centaro - L’alternarsi continuo della ‘classe dirigente’, dovuto a conflitti interni ed all’azione dello Stato, crea frequentemente una discontinuità operativa e strategica. Si registra, fra l‘altro, sempre una competizione interna tra soggetti emergenti indirizzata verso i ruoli apicali. Oggi sembra probabile la presenza di un direttorio, che esprime le decisioni più importanti e le strategie, delegando ai capi mandamento compiti esecutivi e di azione sul territorio. La regola, tuttavia, subisce eccezioni per alcuni boss di elevata caratura, scoperti anche ad occuparsi di minuzie. E, tuttavia, ciò si spiega alla luce della necessità di riaffermare il potere, anche attraverso interventi per fattispecie di modesta entità. Si riscontra sempre un‘enorme differenza tra la capacità economica dei vertici ed i quadri, dal livello medio a quello più basso. I primi sono detentori di vere e proprie fortune, gli altri non raggiungono il livello di agiatezza. I primi tendono a gestire traffici ad alto profitto e basso rischio, i secondi sono delegati alle attività di segno opposto, agli indicatori sopra cennati. Si registra, inoltre, una parziale mutazione genetica giacché capi mandamento sono risultati essere anche medici, avvocati, ingegneri; cioè appartenenti alla fascia delle cosiddette persone bene. Tutto ciò comporta una maggiore insidia per la politica e per le istituzioni. Inoltre, figli di boss vengono inviati a studiare nelle università, per acquisire il bagaglio tecnico necessario a gestire managerialmente traffici transnazionali ma anche gli ingenti capitali derivanti dalle attività più lucrose. Sono ormai rare le figure come Provenzano, in grado di vivere di poco essendo soddisfatti solo dell‘esercizio del potere, anche in virtù della provenienza dal mondo agricolo. La gran parte intende godere degli agi conquistati illecitamente; ciò rappresenta un vantaggio per l’attività investigativa.

Macaluso - Alla domanda rispondo con altre domande: si conosce l’attuale ‘dirigenza’ di Cosa Nostra? E la ‘dirigenza’ si identifica nei ‘personaggi storici’ che si conoscono? Penso di no. Come sempre ci sono ‘uomini – cerniera’ tra la dirigenza e i soldati, che vengono reclutati in continuazione e usati per gestire il territorio.

Jannuzzi - Più che continuità, ci sono ormai rotture. Le nuove leve se ne fregano dei personaggi storici, e l'avvicendamento è sempre più rapido e frequente.

La Licata - Mai come in questo momento, se bisogna dar credito alle indagini conosciute e a quelle in itinere, la continuità mafiosa non sembra essere garantita tanto da nomi quanto da un metodo già collaudato nel tempo. A parte la gestione spicciola del territorio, affidata necessariamente agli uomini sfuggiti alle indagini e, in più di un caso, a quelli tornati su piazza per effetto delle scarcerazioni (gli anni passano ed arrivano i ‘fine pena’), la gestione degli affari rimane nell’ambito di antichi sodalizi consolidati da lunga frequentazione maturata nei circoli, nei partiti, nelle Logge massoniche e negli uffici pubblici. Quando si parla di politica si parla anche dell’ enorme apparato burocratico spesso risparmiato dai riflettori investigativi (tranne in questi ultimi anni, quando si è capito che spesso più dell’assessore serve il geometra capo dell’ufficio urbanistico del Comune). Forse non è esagerato dire che, comunque, una novità certa riguarda la natura del nuovo personale politico. Da Palermo, da Trapani, da Agrigento (cito le realtà che conosco meglio) viene fuori un quadro allarmante di una politica che si identifica sempre più con l’organizzazione mafiosa. L’uomo d’onore sempre più spesso si fa politico (e trova ospitalità nei partiti) per gestire direttamente gli affari, quando non addirittura per indicare linee di sviluppo e priorità in ragione degli interessi personali o dei gruppi vicini. Lo smaltimento dei rifiuti normali e di quelli tossici sembra la nuova frontiera degli affari: perché, v’è da chiedersi (e se lo chiedono i titolari di qualche inchiesta sporadica), amministratori e comuni siciliani dovrebbero trasformare il loro territorio in enormi pattumiere delle scorie europee, in opposizione al buonsenso che vorrebbe il turismo come linea di sviluppo naturale? Il tutto senza tralasciare di ricordare come l’altro grande affare sia stato l’enorme mercato della sanità pubblica e privata. Ma questa è materia ancora troppo attuale per poter essere analizzata serenamente, specialmente per l’aspetto che più da vicino riguarda il legame tra politica, imprenditoria e Cosa Nostra.

Feo - Anche se tutto sembra autorizzare una schematizzazione in questo senso, cioè personaggi dotati di curriculum di storia criminale che gestiscono gli affari, e invece giovani capi che tengono le redini dell’organizzazione, sono convinto che non sia possibile avere certezze riguardo alla durevolezza di questo schema, il modello forse, soprattutto di una fase intermedia dell’era Provenzaniana. Se non è escluso che alcuni dei capi delegati alla raccolta, alla distribuzione e al reinvestimento del denaro abbiano realmente delegato il controllo del territorio, è anche vero che i nuovi capofamiglia e capomandamento non di rado sono, o lo sono rapidamente diventati, uomini ‘di spessore’, con le mani in pasta, addirittura veri e propri imprenditori. Con la conseguenza di una sovrapposizione di ruoli. Credo che in generale Proven-zano e gli uomini più vicini a lui abbiano lavorato e stiano lavorando da tempo per garantire quella continuità che sembra essere il segreto della inaffondabilità dello stesso padrino latitante anche dopo colpi importanti inferti alla struttura che lo assiste, che garantisce la circolazione delle informazioni e degli ordini. Se così non fosse non si spiegherebbe come dopo tredici anni di regno, in una condizione di totale dipendenza dalla affidabilità della struttura che lo assiste e lo favorisce, riesca ancora a sfuggire alla cattura. Una minima falla avrebbe potuto perderlo: ma questo non è accaduto. Eppure è evidente che Cosa Nostra non è fino in fondo un monolite, che i dissensi con quella che una volta era definita l’ala militare o, se si preferisce, l’ortodossia corleonese, sono solo momentaneamente sopiti. Se un problema di continuità c’è, sino ad ora non si avverte. Le indagini degli ultimi cinque anni hanno rivelato non solo un apparato dell’organizzazione mafiosa che funziona a pieno regime ma anche intere coorti di favoreggiatori che si materializzano in alcuni casi letteralmente dal nulla. E questo in presenza di pezzi interi di mandamenti e famiglie continuamente sconvolti da indagini ed arresti... Accade anche perché, probabilmente, Provenzano chiamando a raccolta le truppe intorno all’obiettivo di impedire la propria cattura, è riuscito ad essere comunemente individuato come la ‘bandiera’ di Cosa Nostra, la garanzia della continuità e non solo per l’organizzazione mafiosa… un obiettivo strategico che mobilita, come dimostrano processi ed arresti, non solo gli uomini d’onore ma anche elementi infedeli dello Stato, imprenditori, professionisti… proprio l’inesauribile serbatoio della cosiddetta "area grigia".

Caruso - Considerato che si entra per cooptazione, la continuità ed i legami sono inscindibili pur all’interno di lotte sanguinarie. Ho l’impressione che oggi sappiamo pochissimo delle nuove leve, che non è certamente la generazione dei Messina Denaro e dei Lo Piccolo, ormai veleggiante sui cinquanta.

D. Dopo l’esperienza del pentitismo sono pensabili strategie alternative di contrasto al fenomeno mafioso capaci di garantire risultati operativi efficaci ma nel contempo originali ed esenti dai rischi intrinseci a collaborazioni talvolta strumentali?

Centaro - Strategie alternative possono derivare dall‘uso della tecnologia avanzata ma certamente il mezzo più efficace è il coinvolgimento dei cittadini, mediante l’associazionismo. Bisogna rendere sempre più ‘conveniente’ l’essere con lo Stato, investire nell‘educazione alla legalità nelle scuole coinvolgendo le famiglie, risanare quartieri degradati e renderli ‘vivibili’, ricucire il tessuto sociale disgregato, creare posti di lavoro.

Jannuzzi - L'esperienza del pentitismo, al di là dei primi apparenti successi, è fallimentare. E comunque il fenomeno è in esaurimento. L'unica strategia alternativa di contrasto al fenomeno mafioso è il richiamo alle regole, alle leggi dello Stato, alla Costituzione della Repubblica.

La Licata - I risultati delle indagini più recenti ci dicono che, al di là della conferma del pentitismo come strumento efficace, a patto che sia gestito con scrupolo e professionalità, è la tecnologia il terreno su cui addentrarsi per mantenere uno sguardo costante su un’organizzazione criminale che fa della segretezza la sua vera forza. In questo senso, è da accogliere con favore l’utilizzazione di uomini e mezzi ‘specializzati’ che una volta si ritenevano patrimonio esclusivo degli apparati di informazione e sicurezza. Conosciamo l’obiezione che viene fatta quando le indagini (intercettazioni ambientali e telefoniche, riprese filmate, agenti infiltrati) si addentrano nei meandri di mafia e politica. È ovvio che la garanzia deve essere rappresentata sempre dai limiti della osservanza della legge affidata alla Magistratura.

Macaluso - L’esperienza dei ‘pentiti’ è fatta di luci e ombre. A mio avviso più ombre che luci. Non credo che complessivamente sia un’esperienza che abbia fatto crescere una coscienza civile e antimafiosa. Anche perché i testimoni che non erano nell’organizzazione non hanno avuto la tutela e le garanzie date dai pentiti. Il ‘pentitismo’ è stato talmente dilatato, e anche strumentalizzato, al punto da indebolire e mortificare le capacità investigative delle strutture statali e bloccare innovazioni e sperimentazioni in questo campo. Recentemente, importanti e complesse operazioni antimafia (a Palermo e altrove) sono state portate a compimento senza l’ausilio dei pentiti. Il che dimostra come oggi ci siano tecniche investigative e personale specializzato nelle strutture statali che i magistrati possono usare con successo. A questo proposito, sarebbe utile uno scambio di esperienze e coordinamenti più efficaci sul piano nazionale e internazionale. A tal fine, la DIA e la Procura Nazionale Antimafia dovrebbero essere un punto di riferimento per attivare innovazioni e coordinamenti. Ma essenziale, in questo campo, è la credibilità della guida politica. Oggi - non mi riferisco al Ministro dell’Interno - questa credibilità non c’è.

Feo - Intanto una premessa. Sono più di vent’anni che si discute dei pentiti, del loro contributo, della loro attendibilità, di comportamenti manifestamente strumentali se non addirittura palesemente e volutamente inquinanti. Alla fine sono anche arrivati interventi legislativi che hanno fortemente - direi gravemente - limitato l’opportunità di lavorare sulle loro informazioni. Nessuno però , che io ricordi, in tutto questo tempo ha mai avviato una riflessione profonda - e vorrei dire operosa - sui metodi di indagine in relazione all’uso dei collaboratori di giustizia, sulla gestione, sui metodi di interrogatorio prima ancora che sulla raccolta dei riscontri, e così via... mi pare un discorso che non si può esaurire in due battute. Potrà apparire una bestemmia, eppure trovo che investigatori dotati delle giuste qualità morali, di professionalità specifica, di metodi collaudati nel tempo, riuscirebbero ad ottenere elementi importanti, saprebbero utilizzare perfino collaboratori di cui sono stati scoperti il doppio gioco, le bugie, l’intenzione di agire strumentalmente... dunque credo che l’argomento pentitismo, per qualcuno già liquidato - e sottolineo questa parola - nel più comodo dei modi, non sia un capitolo chiuso, anche se oggi appare una trincea arretrata sul fronte delle strategie di lotta alla mafia. Sicuramente è stato un errore – per chi lo ha fatto in buona fede - considerare i pentiti l’arma finale, decisiva: in più questa impostazione ha quanto meno concorso a rallentare la riflessione sulle metodiche, l’adozione di nuove tecniche, di strategie innovative. Non è partita, nei metodi di lotta a fenomeni criminali complessi o organizzati, la profonda rivoluzione che ad esempio ha attraversato settori come quello delle indagini scientifiche - e che passa soprattutto per un adeguamento ai tempi, al progresso tecnologico. Mi limito ad annotare che non paiono esplorate molte opportunità. Quelle offerte da attività sotto copertura di respiro e durata, non solo su versanti di intervento tradizionali (ad esempio traffici di stupefacenti) ma anche dell’organizzazione mafiosa, in segmenti che offrono spesso alta opportunità di penetrazione. Per non parlare della fatica, della vera e propria lotta quotidiana cui sono costretti tanti bravissimi investigatori per impiegare dove, quando e con la frequenza che sarebbe necessaria mezzi tecnici avanzati, di osservazione, di ascolto... E poi l’analisi, l’applicazione di professionalità e di esperienze alla lettura di elementi, indizi, notizie... la creazione di veri e propri profiler delle organizzazioni criminali. Si potrebbe dire che già ragionare su queste tre direttrici, studiare il miglioramento, l’innovazione degli strumenti normativi, una applicazione moderna, concorrerebbe ad aprire seriamente il capitolo delle strategie innovative.

Caruso - Non esistono pentiti di mafia per il semplice motivo che deve ancora essere concepito il siciliano capace di pentirsi di qualcosa, perfino di esser nato. Esistono centinaia di robuste braccia in cerca di un ingaggio, i quali a seconda delle circostanze si arruolano con Cosa Nostra o con lo Stato, tenendo presente che la prima fa parte dei geni di famiglia e il secondo no. Il giorno in cui il potere politico ed economico deciderà di contrastare la mafia saranno subito individuate le strategie vincenti. Ma quel giorno arriverà mai?

D. Cosa Nostra ha avuto, tradizionalmente, con la politica un rapporto molto semplice: il cosiddetto ’terzo livello’ - quello politico - anche secondo Giovanni Falcone era un livello di ‘servizio’, non un livello di ‘comando’. Come è destinata a mutare la dialettica tra mafia e politica? Resterà confinata negli ambiti territoriali dove Cosa Nostra esercita il suo potere o tenterà – come talvolta è accaduto in passato - forme di contatto con il potere centrale?

Centaro - II rapporto con la politica, con le istituzioni è assolutamente essenziale per la vita dell‘organizzazione e si articola sia nei livelli periferici o decentrati che in quello centrale, secondo la convenienza o l‘utilità. Per un‘associazione che mira al controllo socio-economico del territorio, al fine di poter svolgere indisturbata le proprie attività, è necessaria l‘acquisizione del consenso dei cittadini attraverso l’intermediazione con il versante pubblico e quello lavorativo. Poiché le utilità derivanti dal rapporto con la politica possono essere svariate, l‘organizzazione proseguirà nella tattica diversificata, allacciando rapporti presso tutte le rappresentanze territoriali, senza mai tralasciare i luoghi di tradizionale attività. Per certi versi, l‘infiltrazione capillare nelle perferie, nei piccoli centri può complessivamente essere più redditizia del rapporto con un politico di elevata caratura nazionale giacché permette all’associazione di mantenere saldo il controllo del proprio territorio, origine della sua fortuna.

Macaluso - Concordo con la diagnosi di Giovanni Falcone. L’uccisione di Salvo Lima ci dice che nel momento in cui il livello di ‘servizio’ non funziona, chi lo forniva viene eliminato. Non credo che la ‘dialettica tra mafia e politica’ sia cambiata o sia destinata a cambiare. Se si osserva con attenzione come, dall’Unità d’Italia ad oggi, si è manifestato quel rapporto vediamo che c’è una costante: l’ambito in cui si realizza è quello territoriale e, contestualmente, quello del rapporto con il potere centrale. Così è stato nell’‘800 con i governi della destra storica e, successivamente con quelli della sinistra storica. Così è stato con i governi autoritari di Crispi e con quelli del democratico liberale Giolitti (basta leggere cosa scrivevano Napoleone Colajanni e Gaetano Salvemini). Così è stato con Mussolini sino al 1925, quando a Palermo parlò avendo al suo fianco il capo mafia Cuccia. Così è stato nel dopo-guerra, se penso alla strage di Portella della Ginestra, all’uccisione di Salvatore Giuliano e di Gaspare Pisciotta. Così è stato negli anni successivi. Nel momento in cui questo rapporto, sul piano territoriale e su quello legato al potere centrale, cominciò a rompersi (1979) non solo grazie all’opposizione, ma ad opera di forze politiche di governo in Sicilia (Piersanti Mattarella), di forze dello Stato (penso a Boris Giuliano) e della magistratura (penso al procuratore Gaetano Costa), iniziò la truce stagione dello stragismo mafioso, nel tentativo di piegare la politica e lo Stato. Quella stagione sembra conclusa. È stato ricordato, anche dal Procuratore Piero Grasso, che Cosa Nostra ha cambiato strategia: non spara come prima. Ma lo stesso Procuratore ha notato come la penetrazione della mafia in settori importanti delle professioni (i medici), dell’amministrazione regionale e anche negli apparati delle forze dell’ordine è profonda e allarmante. Gli episodi che hanno coinvolto in operazioni giudiziarie contro la mafia due marescialli che lavoravano nella Procura palermitana sono significativi. In questo quadro si verifica un inquinamento di forze politiche di governo, in un rapporto di osmosi tra ciò che avviene nel territorio e ciò che muta nelle forze politiche che governano. Fra i due momenti - territorio e vertici politici - non c’è mai stata una separazione, non c’è neppure oggi, né è pensabile che si possa verificare.

Jannuzzi - Il cosiddetto “terzo livello” non esiste, non è mai esistito. Il rapporto della mafia con la politica, sempre diverso e cangiante con i tempi, è relativo al radicamento della mafia nella “società civile”, e da esso discende e dipende (e non viceversa, come generalmente si crede e si fa credere). Più la mafia è radicata nella società civile e la influenza, anche sul piano elettorale, più riesce a condizionare e a corrompere la politica. Se non solo in Sicilia, ma anche in Calabria, in Campania, nella Puglie, in tutto il mezzogiorno d’Italia, la mafia dilaga e condiziona la società, allora fatalmente arriva a condizionare anche il potere centrale.

Caruso - Non è previsto alcun mutamento: è infatti difficile immaginare di spingersi oltre il cento per cento dell’aderenza. Temo che molti galantuomini, uomini di rispetto, uomini d’onore, amici, bravi ragazzi, gattopardi, amici degli amici quando vogliono guardare negli occhi un esponente delle istituzioni non debbono fare altro che mettersi davanti allo specchio. Come ci dimostrano le inchieste giudiziarie degli ultimi cinque anni.

Feo - Il potere politico viene esercitato attraverso gli eletti o direttamente da essi. Si è eletti con i voti. Il controllo del territorio garantisce il controllo dei voti o di una buona parte di essi. Dunque se il territorio è controllato dalla mafia gli eletti, il potere politico che essi esprimono e rappresentano, sono nelle mani della mafia. La fotografia di tanta parte della Sicilia e del Mezzogiorno d’Italia (anche di altre regioni , almeno nelle ambizioni di alcune organizzazioni criminali calabresi e campane), una verità semplice semplice -pure negata da tanti - che induceva Giovanni Falcone a parlare di politica al servizio della mafia, sottoposta, come il resto della società, al potere che promana dalla capacità di intimidazione, da quello che qualcuno ha definito il ‘monopolio della violenza’, nella logica dello scambio, del patto con satana-Cosa Nostra. Come si fa a non concordare con questa lettura al cospetto di condanne a morte di politici ‘amici’ o anche avversari della mafia? Condanne che, a prescindere dalle cause specifiche, equivalgono sempre per Cosa Nostra a dare o togliere il potere, la carica, i voti insieme alla vita, o a negare a pezzi di elettorato il diritto di essere indipendente e quindi di votare uomini non condizionabili. Era Provenzano a decidere perfino le scelte politiche di Gioacchino Pennino medico e democristiano che voleva abbandonare la corrente di Ciancimino. E’ lo stesso Pennino, uomo d’onore con solidissimo pedigree mafioso – dunque non un politico qualunque -, una volta divenuto collaboratore di giustizia, a raccontare l’incubo degli incontri con il padrino che doveva decidere il suo futuro politico. Eppure lo stesso Falcone, abituato alla solida, sana pratica di teorizzare solo il dimostrabile, non si nascondeva l’esistenza di luoghi, figure e momenti in cui il rapporto tra Cosa Nostra, la politica e i politici, è ben più complesso. Ove non può essere schematizzato ed è coincidenza di interessi, progetti che corrono paralleli, si sovrappongono e sanno condizionarsi, riuscendo persino ad apparire privi di diktat e conflitti. Ad esempio: cambia Cosa Nostra e cambia anche la politica se l’uomo d’onore recluta il pubblico amministratore, il parlamentare, o se, piuttosto, scende direttamente nell’agone politico, e non solo in occasione delle elezioni o nei momenti di cruciale gestione degli interessi, ma anche nella formazione delle decisioni politiche, nella selezione delle classi dirigenti. Ed ecco che alla domanda se Cosa Nostra resterà confinata negli ambiti territoriali dove esercita il suo potere o tenterà forme di contatto con il potere centrale non si può a mio avviso che rispondere: il contatto non si è mai interrotto… nemmeno nel periodo delle mattanze, delle stragi del ‘92 e del ‘93. I vecchi soggetti politici interlocutori o emanazione del sistema di potere mafioso erano in grave crisi, addirittura morenti. Gruppi di potere ed uomini furono sostituiti. Non solo in Sicilia. E Cosa Nostra potè giocare le sue carte.

La Licata - Certo, immaginare il terzo livello come un tavolo dove prendono posto, tutti insieme, mafiosi, politici, imprenditori ed istituzioni è rappresentazione cinematografica deviante. L’esistenza, tuttavia, di un terreno dove pezzi della politica e dell’imprenditoria entrano in contatto con Cosa Nostra è ampiamente dimostrato e dall’attività di Giovanni Falcone (i Salvo, Lima, Ciancimino) e dall’attività investigativa più recente (la cosiddetta ‘tangentopoli siciliana’ offre esempi scolastici). Forse non è esatto dare per scontato che mafia e politica sia stato un fenomeno cosiddetto ‘locale’, cioè ‘confinato negli ambiti territoriali’. Basterebbe ricordare, per tutti, la strategia stragista del ‘92 e del ‘93 messa in atto coi sistemi del terrorismo politico-mafioso non in Sicilia, ma nelle città più rappresentative dell’intero Paese. Quel ‘nodo’ che Cosa Nostra intendeva sciogliere con un braccio di ferro, facendosi soggetto politico in prima persona, non è stato ancora sciolto. I mafiosi che chiedevano ‘comprensione’ stanno ancora in galera e continuano a premere perché la dirigenza di Cosa Nostra trovi ‘una strada qualunque’ per venire incontro alle loro esigenze. È un discorso ancora aperto e difficilmente i governi che verranno potranno fingere di non vedere questo ‘convitato di pietra’ che si fa sempre più irrequieto e ingombrante. Ed è una partita che non si gioca a Palermo.





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