GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 3/2005
STORIE DI CASA NOSTRA

A' taliata
Una storia di mafia


articolo redazionale

Questo racconto offre una lettura del contesto mafioso siciliano attraverso il confronto tra le esperienze di un pentito (che attraversa la storia di Cosa Nostra con tutte le sue speranze e contraddizioni) e quelle dell'ufficiale che lo ha arrestato (che interpreta un modello di investigazione speciale sperimentato nella lotta al terrorismo e convertito poi al contrasto alla mafia). È un incontro muto, il loro, è la 'taliata', vero soggetto del testo, che non è solo reciproco osservarsi. È, infatti, un 'riconoscersi' sull'orizzonte comune di una Sicilia intima, ramo storto che fiorisce nelle profondità dello spirito e insegue con muta bellezza la voglia di superare il cielo in un Eden siculo senza tempo. Il silenzio è pregnante di significato. 'Taliando', i protagonisti si denudano e si universalizzano, ben oltre le loro esperienze e il formicante scenario di una Palermo 'suddiata' ma vigile. Il pentito è l'occhio nel suo mondo di ieri, osservato con dolorante disincanto. Eppure il pragmatismo dello sguardo s'annoda con le complesse emozioni di un'antimafia stretta da lutti, spinte ideali e ossimori inquinanti. Un filo invisibile, come rete di ragno, tesse un ordito sulla storia, speranza di una resistenza antimafia più coerente, memoria di uomini che si sono dedicati ad un sogno. Una Sicilia libera.


da http://digilander.libero.it/immagini


(Palermo è un abbraccio caldo che stringe al collo. Un groppo che emoziona e soffoca.
I riflessi del mare impolverano i profili barocchi del centro, senza colorarli.
Il profumo della marina, che lo scirocco appesantisce, annega nei vicoli annodati. Filare sudato di ciottoli, processione di corpi suddiati, vuciari lento che addormenta.
Dalle palpebre semichiuse della città, che vuole resistere al sole e al ricordo, s'intravede l'iride vigile che vaga tra il distratto e l'indispettito.
Le sirene di polizia, un tempo vessillo di nuovo rinascimento, sono ingoiate dalla siesta.
Indifferenza stanca. Un po' annoiata.
La città assorbe il vento, le voci, il sangue, i resti di granita sul marciapiede colorato di turisti.
Non il silenzio. Che incombe fitto.
Dietro la scena è un albeggiare lento. Infinito. Che promette ma non regala il giorno.
Nella caserma di Piazza Verdi le finestre sono chiuse.
Una colonna d'auto attraversa la notte palermitana, sino al cancello che schiude l'antico budello dell'ex convento. Oggi tana degli sbirri. Nel dormiveglia Palermo segue la danza delle auto. Sospesa. Come di fiato spezzato.)

"Dov'è?".
"Dottore buongiorno, è dentro. Abbiamo portato il caffè, ma solo perché vuole fare il bravo…".
"Vuole gridarlo anche fuori che fa il bravo?".
"Scusi, ma…".
"Riservatezza…Riservatezza, diamine!".
Sempre nervoso il dottore.
"Guardi che non è il piantone. E' del nucleo operativo che ho assegnato a Sutera…".
"Va bene…va bene andiamo".


(L'euforia per un arresto, a Palermo, s'incupisce presto. Nel rosario dei ricercati il masticare un grano dura un attimo. Non c'è stazione di sosta, nel calvario sbirresco. Si passa oltre.
Come se le talpe si perdessero nella sensazione dell'inesauribile viaggio da compiere.
Il giorno passa rapido.
Palermo osserva sdraiata ai piedi di Mondello. Le barche lasciano le loro reti sulla battigia.)

"Calogero attaccaru".
"Miih…pure a iddu…".
"Non si capisce più niente…".
"Iddu non parla. Iddu…".
"Sono cani. Arreri – Arreri…".
"O' ziu che dice?".
"Chi lo vede lo zio? Si squagliau".
"I piccioli? Pagarono a iddu… Iddu faceva tutte cose…qui…i lavori della marina…Ora a Peppe diciamo…Dopo Calogero sei tu che devi…Che prendi in mano la situazione…".
"A minchia prende Peppe!! Parliamo con Totò di Bagheria…Lui deve dire allo zio che fare…Lui deve dire: ora non c'è Calogero, ora dite le cose a…Peppe o a Iano di Belmonte…U' pizzino…ma lo zio deve dire se no…se no, sorprese ci sono …!".


(Le voci sono lente. L'eco dei clamori esterni si ferma. All'ingresso della stanza. Come una fontana che perde. Goccia dopo goccia.
La fronte di Calogero è trapunta di rughe profonde, come la ferita di zolle che serpeggia nella sciroccata campagna nissena. Senza attesa di pioggia. Si direbbe senza speranza.
Come trincea osserva la muta barriera dei suoi interlocutori. Scoglio su cui lo sguardo s'infrange. Sottile rete di afra salsedine. Senza interrogare. Equoreo, come l'inutile marea di uno stagno.
Dall'altra parte del suo respiro, ove arriva flebile sino a spengersi, figure sembrano perdersi in traiettorie lontane. Lo lambiscono, senza sfiorarlo.
Le fronti sono liscie. Pallide. Con segni che sembrano dipinti. Nascondono orditi di passi che tradiscono la memoria.
Calogero parla. Racconta per ore la sua vita. Arrampicato sulla quercia, come quella su cui sfidava da bambino la gravità, sembra estraniarsi dai suoi passi. Che osserva da un altrove che è già la sua nuova vita. Dolorosa. Si scruta, si riconosce eppure talvolta si sorprende di trovarsi lì, in quel tratto di racconto. Altre volte si stupisce di arrampicarsi, su, ancora su, per i rami arditi di una quercia che scopre diversa.
Stranito. Opaco. Con l'abito di nebbia, straniero e falso. In una realtà che sembra appartenere ad altri.
" Fatti, persone, situazioni, signor Calogero. Fatti, persone, situazioni...".
Le parole risuonano, estranee come gli echi ammalianti delle sirene. Quali sirene!
Impara presto. Ordina i ricordi, li raccoglie con la certosina pazienza di un agricoltore. Segue il filo sottile delle stagioni, i limiti pietrosi dei campi arati e scavati dalla semente.
"Devi fare una cosa per volta, e quella cosa deve servire a quelle successive. Se no che spacchio travagli a fari?" ripeteva il padre, quando lo portava al giardino di famiglia, dove hanno sputato sangue generazioni di Sutera.
Si ferma, talvolta, come un pupo senza fili, quando la pioggia dei perchè di qualche magistrato lo ubriaca, senza togliere l'arsura. La sua. Di entrambi.
L'arsura rimane nel cuore di un pentito. Nella mente di chi tradisce il suo codice.
Tradimento che mille buone ragioni possono coprire, lenire, anestetizzare. Non riescono, però, a cancellare del tutto. Rimane una ferita. Uno strappo. Che apre un baratro tra la vita e la flebile speranza di catarsi. Talvolta, tra i lembi stretti alle dita si riconoscono le cose più care, che appartengono più a sé stessi che a Cosa Nostra. Altre volte, invece, nel tessuto divelto che s'allontana rimangono le radici... il sangue... figli, moglie, amici... tutto...
Il filo dei perchè è come quello degli aquiloni... si perde, in lontananza... senza portarti su, zavorra stupìta.
La voce del magistrato scuote, ma non basta il suo perchè a volare sopra le ragioni...)

"Perchè.
C'è un perchè per chi è nato nella mafia?
Come farlo capire a questi signori?
Loro la guardano dal di fuori, come un oggetto messo sui banchi del mercato.
La guardano, la toccano, ci battono le nocchie su per studiarne il rumore di fondo (ma non esce l'anima se bussi. Non così esce l'anima).
Magari l'hanno studiata, hanno letto pagine di processi, libri, interviste, magari anche dichiarazioni di pentiti. Parole, buone forse. Ma non bastano. Perché si confondono, talvolta più tragedie che verità.
Ma non sanno che la mafia è la pancia di tua madre, è il suo latte, è l'aria che respiri quando ancora non hai memoria? E' il gomitolo di parole che ti legano a tuo nonno, a tuo zio, a tuo cugino...?
È il tuo quotidiano. E' l'orizzonte che impari a conoscere, quando ancora non hai coscienza. E' l'anima che pulsa, orgogliosa, virulenta...
E' la tua vita. Gli appartieni perchè ti ha "fatto" Lei."


(Poi la porta si apre. Rumore di borse. Più ampie. Più pesanti. Si guarda intorno, Calogero. Tutti si alzano. Sorrisi e parole. Parole. Tante. Raccomandazioni: si ricordi bene tutto, se sa di Tizio, o di tal situazione. Ci pensi bene. Ha fatto la scelta giusta. Ha creduto nello Stato, alla famiglia.. Non ometta. Perchè poi viene tutto a galla... A domani… Riposi bene… Mangi qualcosa…
S'annacano vittoriosi. S'annacano.
In fondo, nella penombra, mette a fuoco il profilo sinora sfumato di un'ombra. Entrata nella mattina che sembra già di un secolo fa. Ospite silenziosa. Piantata in fondo alla sala. Ancora lì.
Muta. Immersa nel grigio che a tratti rischiara.
Riesce a guardare le sue mani. Appoggiate alla sedia. Senza trattenerla.
In bilico, in equilibrio precario e immobile. Sono velate da un paio di guanti neri, che lasciano scoperte le dita.
Osservandole, fissando quel pallido lucore che s'infrange sul palmo di filato nero, gli viene di pensare agli scogli di Mondello quando la salsedine riflette la luna nella scia.
Riconosce in quei guanti decapitati le mani di chi lo ha arrestato.
Gli occhi si schierano, frontali. Obliqui. Entrambi sospesi, come fossero lì per caso.
Gli sguardi s'incontrano, annodandosi.)

"E' ancora qui. Muto. Diverso.
Sembra ascolti con gli occhi.
Questo crastu vede quello che dico. Lo vive.
Trattiene senza avidità, ma non lascia cadere nemmeno uno dei sassolini della mia frana. Non si stanca di raccogliere la mia immondizia.
Io scappo, scivolo tra le tagliole, incespico, faccio un cerchio più grande del centro in cui siamo.
Lui è lì.
Con il centro tra le dita.
Lui è lì.
Minchia di sbirro!"


"Calogero. Calogero Sutera. Ha parlato un'intera giornata.
Lentamente. Scandendo ogni parola. Immobile, come se le parole escano da chissà quale diabolica bocca di pietra. Monocorde. Una maschera. Che racchiude tutta la Sicilia. Tutta Cosa Nostra. Tutto il suo mondo così arso, così violentemente colorato che ogni frase sanguina dalle labbra battute dallo scirocco.
La polvere nella clessidra scivola lenta. Ogni cascata, a guardarla bene, è un tratteggiare, un fraseggio, un solfeggio sacro nel lento fluire benedetto dal sole.
Intarsia la cornice dei suoi "cunti". Le figure, invece, che sono anamorfiche, maledette trappole del senso, quelle sono nel torto linguaggio della sua sapienza.
Nel parlare astratto, nel parabolare distratto e nell'uggia di spiegare l'ignoto cerca di perdere. Di smarrire nella sua storia di fichi d'india, che difendono il gusto con un manto di spine.
Calogero Sutera parla. Ci ha rotto la schiena, per trovarlo.
Noi sempre dietro, sulla scia evanescente della sua vita.
Con la rabbia di sbirri in corpo. Con la voglia di fargli ingoiare le preci dei colleghi uccisi, dei magistrati assassinati, degli innocenti sacrificati all'ordalia di potere e sangue mafioso.
Ora è qui.
Seduto come un pensionato al circolo delle bocce. Come quei malinconici vecchietti aggrappati alle radici sclerotiche. Pronti a raccontare la loro storia, con la verginità involontaria di chi si sente lontano dal campo di battaglia che ha insanguinato.
Magari a discorrere di figli, di nipoti. Di una partita di calcio o del pettegolezzo sul nuovo parrino.
Le sue mani sono affusolate e callose. Di chi ha alternato studio e fatica. Di chi ha curato o ucciso animali. Nello studio di veterinario. Nei macelli clandestini vicini ai fienili, alle spalle dei casolari di fatiche stagionali e d'incontri clandestini.
Eppure quelle mani hanno filato, annodato o spezzato anche destini umani. Con l'onnipotenza di chi si crede Dio."

"E' del continente. Lo straniero. E' sbirro. Di quelli che non hanno bisogno di una divisa per essere sbirraglia. Ha l'odore di crasto. Ha le mani leste. Gli occhi pieni.
Com'è il mare di Mondello quando raccoglie le nuvole gravide di pioggia nelle uggiose serate invernali. Se li guardi puoi annegare, con l'iride cieco legato ai piedi che ti trascina giù. Sino all'abisso infernale.
Lui non è come gli altri.
Ne ho conosciuti di sbirri!
Alcuni vengono in Sicilia come Garibaldi. Sono gentili, alcuni, ma come i padroni lo sono con i servi. Quali servi? Che ne sanno di noi? Della nostra terra? Guardano dall'alto in basso. Il loro sguardo sembra interesse. In verità nasconde solo curiosità. Si sentono liberatori, con tanto di lustrini e medaglie. Allettati dal costume di ossequio che si ripete tra la gente e l'Autorità. Di cui tuttavia, non colgono la subdola irrisione. Perché la presunzione sicula ben conosce l'inaffidabilità degli eroi di facciata, pronti a ripetere l'oltraggio di Bixio a Bronte, in nome di una storia che vuole essere solo loro. Non è la nostra.
Ci sono poi quelli che vedi nelle processioni. Sudati. Tirano fuori il fazzoletto e dietro il sorriso amaro rimpiangono di essere scesi in questi posti maledetti. Li riconosci. Piegati dallo scirocco, sembrano consumarsi lentamente, disperdendo una flebile luce di candela. La frustra rabbia li rende duri. Duri come un frutto appassito, lebbrosa scorza che copre un cuore pietroso. Duri come le cose vuote, che se spacchi non ci trovi niente. Per questo di loro si ride. Non c'è bisogno d'intimidirli perché sono già al limite dell'arrogante collasso.
Ci sono pure quelli che annusano i pericoli, trovano scorciatoie, si trovano sempre davanti a tutti, come i più coraggiosi dei capitani. Poi d'un tratto arretrano di un passo, come per fatalità, lasciando soli i compagni di viaggio nella tempesta.
Prendono i meriti, senza rischiare.
Li riconosci da come s'annacano pieni di sicurezza nei momenti di gloria, ben chiusi nella loro torre d'avorio nella disgrazia, pronti a riciclarsi con il più forte.
Sono inutili, nenti. Può il nenti disturbare?
Ci sono, ancora, quelli di mondo, un po' tristi, che il nemico l'hanno in casa. Una madre, una moglie o una figlia.. megere... Li riconosci perchè sono segugi ma in una caccia tutta loro, privata. Cercano una fimmina, un posto per i familiari, un regalo... esercitano così il loro potere. Secondo l'utilità, in un mondo che li opprime. Con pazienza, "stomaco", più stizza che coraggio...Sono fimmine. Basta corteggiarle. Magari trovando un lavoro alla moglie impaziente, in cambio di favori sempre più impegnativi.
E' una vita che non infastidisce, anzi, offre a Cosa Nostra anelli cui appoggiarsi.
Ci sono, infine, i cornuti. Quelli che ci nascono, con le corna. Possono fare qualunque lavoro, sono "niuri". Satanassi. Perchè hanno fantasia, perchè hanno miraggi e li seguono con insistenza, con intelligenza, senza fretta.
Non accettano compromessi. Vanno dritti con passione. Anche a costo di spezzarsi. Non sai come prenderli. Scivolano via.
Un sorriso. Un gesto cortese. Ma t'infilano in galera anche se sei domini'ddio.
Un tempo li potevi solo ammazzare. Poi abbiamo capito. Si, abbiamo capito che i cornuti sono tali non solo per noi mafiosi ma anche per i loro colleghi. Fanno rabbia e invidia. Scatenano rancori anche nelle loro organizzazioni. Perchè fanno paura e invidia i loro sogni.
Questo, davanti a me, è un cornuto.
Magari pensa che lo stretto sia un'invenzione, che qui lo Stato continua, senza annacquarsi tra Scilla e Cariddi."


(Viale Libertà sembra una freccia verso il mare. Piazza Politeama offre la sua maschera di sorrisi. Una mercedes si ferma all'incrocio.)

"Filippo, hai parlato con Totò…?".
"Sì, mi ha detto…ho parlato con Giuseppe. Non ha sentito Calogero… forse è presto… aspettiamo ancora qualche ora…".
"Totò intanto ha buttato l'occhio… l'amico ha detto che c'è movimento… normale… ancora… il cugino… Pippo… dice che è impossibile… che fa una strage… se dice solo una parola… figli… i nipoti… tutti".
Una folla s'avvia alla cattedrale.
Attraverso i quattro canti sorridono ammaliati, sotto l'ombra polverosa.
Ingiallita. La mercedes sfiora la frotta. S'incrociano i sorrisi. Squilla il telefono.
"Avvocato…".
"Sto arrivando".


(Nella stanza, dal buio muto s'affaccia lo sbirro. I baffi nervosi hanno un fremito.
Sembra che parlino. Invece il silenzio è fitto tra i due. Nemmeno i respiri sembrano trovare spazio. Sospesi. Il loro mondo, tutto, in una taliata. Profonda più degli abissi, di cui ripete i sussurri. Pesante più della terra che calpestano.
Nel gergo eterno degli occhi ogni parola è un sussulto. Ogni frase sfocia nella corrente del mare, sino all'orizzonte.
La taliata è un linguaggio che esplora e riconosce.)

"Chi vi ha chiamato? Voi del continente, peggio se in divisa?
Voi venite. Fate movimento. Poi andate via. E' sempre stato così. Può sembrare una cosa banale, troppo volte letta sui libri e suoi giornali, parole, parole che il vento porta via. Il continente si regge sulle parole, che non sono "cunti", solo "vuci", fiato, vano soffio, più leggero del nenti.
No. Noi siciliani l'abbiamo sulla pelle questa ferita infinita. Non fa in tempo a rimarginare che subito qualche altra frusta riapre i margini, li insanguina ...
Noi siamo abituati a scorrerie. A bandiere diverse. Sopportiamo, senza ubbidire. Il capo si china, talvolta, non il cuore. Nè la testa. Abbiamo anche imparato che senza di noi non c'è Sicilia. Nuddu c'è. Nenti ammiscato cu' nenti.
Noi siamo l'aria che si respira. La terra su cui si cammina.
Travagliamo, ci suddiamo pure, con lo stesso passo.
Cosa Nostra, poi, è più Sicilia della Sicilia. Ha imparato le regole straniere, annusando le cose storte per arrotolarle su sé stesse. Ha scoperto le crepe su cui buttare acqua perchè diventino diga.
Ha imparato anche l'essenza stessa della nostra terra, le contraddizioni, le malattie, le speranze e le disgrazie.
Cosa Nostra ... piccioli, sangue... potere.
Pensano che sia una cosa straordinaria. E' cosa di ommini. Ripete il sogno di uomini che è incubo per altri. Riflette quell'utile in cui cercano d'accomodarsi quelli com'a mia! Per la paura di essere nuddu, nenti.
Sono cresciuto nell'allegria e nel rispetto della mia famiglia. Minchia, la domenica anche il parrino, all'uscita della chiesa, s'inchinava più che davanti al crocifisso (che magari pregava pure, ma gli sembrava brutto imitare). Principi, ricchi e poveri, con la mano sempre tesa. Perchè i piccoli cercano qualcosa da mangiare, un lavoro, per campari la famiglia. Ma i grandi hanno la bocca ancora più grossa e la panza macari! Dietro la loro voce arrogante si nasconde a malapena la fame insaziabile. Venderebbero l'anima per avere di più. Cummannari di più.


da www.narcomafie.it

Bei tempi. Come immaginare la fine?
La vita era calma. Vita di paese, di pecore e di stagioni nei campi.
Tutto era più siciliano. Ci s'annacava, sulle sedie davanti al bar, a parlare in silenzio, come con questo castro di sbirro che ho davanti.
Le parole vestono i nudi. Sono foglie. Mugghiano facendo il verso al vento.
Come sottane di lavandaie.
Il silenzio è una lama.
Con un'occhiata si condanna a morte
o' fetuso.
Con un cenno leggero, impercettibile ai più, si salva una vita.
Palermo d'un tratto è il fruscio di
fronde, di memoria, di nostalgia.
Da quella stanza buia, la città è capovolta, come un pedalino. Budello sacro in cui si confonde la vita e la morte.
Alla Ficuzza, Corso dei Mille, Viale Lazio…Palermo racchiude i suoi misteri, offre le bellezze di tante epoche…I canaloni, le grotte, i Beati Paoli, le sette, i viceré…Palermo dai mille volti, dalle mille maschere che si rinfresca con l'aria afra del mare, con l'ombra delle sue viscere. L'eco maligna di raffiche, il gorgoglio ultimo dell'acido, il sussulto suicida degli incaprettati, il ferroso dispetto delle manette sono solo un sottofondo. Lo scirocco benda Palermo. Non c'è fortuna nella sua cecità.
Il continente era lontano. C'era ordine. Senza i pennacchi di carrabeneri, senza le piume dei bersaglieri.
Nelle sere estive solo il bacarà o il tre sette potevano far sudare.
Noi picciotti lavoravamo. Io studiavo. Mi piaceva. Anche se l'attesa non era per il lavoro. Io il lavoro ce l'avevo già.
Era bello prima. Prima.
Il prima di mio padre, di mio nonno, del mio bisnonno. Con le loro famiglie. Fratelli, che eleggevano il padre e lo zio. Che facevano crescere figli e nipoti. Secondo la legge del vero sangue. Quello versato per Cosa Nostra. Sulla Vergine Maria bruciata nella scommessa di fedeltà. Vocazione di morte.
Le famiglie comandavano nel loro territorio. Famiglie. Tutte si aiutavano quando ne avevano bisogno. Si discuteva. Per i "pizzi", gli "aggiustamenti"perchè tutti devono mangiare.
Tutti devono pagare. Da sempre il credito imposto rende padroni.
Mio padre partiva per le campagne di Palermo, con il suo cappello della festa, con il vestito grigio chiaro e la camicia bianca che spizzava da tutte le parti.
Sapevamo che andava "da loro", che erano cosa nostra.
Era felice e baldanzoso.
Noi lo pensavamo leggero. Invidiandolo. Mirando il suo passo e il suo tratturo, con un languore che sapeva di destino. Decideva il futuro nostro e della gente del paese. La morte per i nemici e i traditori.
Tornava con la cinghia aperta e il primo bottone dei pantaloni fuori l'asola.
Il suo alito era forte del vino di Salaparuta.
Forse nella bocca rimaneva il mandorlato amaro della coscienza.
Non potevo ancora immaginarlo!"


"È un gioco la vita, Calogero. La vita è un maledetto gioco. Da piccolo stanavo i fratelli, loro indiani apaches fuggiti dalla riserva, io capitano del VII cavalleggeri, come quello di Rin Tin Tin. Poi decisi di essere Geronimo. Ribelle. Giuravo che non sarei rimasto nelle riserve. Nessuno avrebbe vissuto nelle riserve. Eravamo nel cortile della caserma. Mio padre era in uniforme nera, che ingrigiva il sorriso. Era stato nelle squadriglie di Corleone nella sua parca gioventù, con il tenente Dalla Chiesa. Raccontava i profumi, i colori, la bellezza antica delle province siciliane, quando si ritrovava con il suo amico Vincenzo. Brigadiere di quei tempi. Sicula speranza nei diroccati bivacchi che sapeva far rilucere come una magia. "Perchè siamo lo Stato. Anche così si riconquista la dignità.." "Vincenzo, ancora non capisco come riesci a trovare una soluzione per tutto".
Poi il collegio militare, l'Accademia, le riviste, l'ordine pubblico... a quando il mestiere di sbirro?
Il vento, come un martello, univa i resti siciliani di mio padre al verso di Sciascia.
Mi romperò la testa, in Sicilia."

"Negli ultimi tempi era cambiata l'aria. Era sempre meno tranquillo negli ultimi tempi. Preoccupato di "fari trasiri u sceccu avant'arrieri".
Più cupo. Circospetto. Ripeteva nel silenzio sussurato delle sue notti inquiete: "Cosi niuri". S'ingrigiva. Diventava più cattivo. "Macari u sali fa i viermi". Nei tempi brutti anche l'uomo d'onore è come l'ovu, cchiù cocia e cchiù dura addiventa.
Minchia di cornuto di ziu Totò. Cornuti e infami. Lui e quelli che, come lui, hanno avvelenato Cosa Nostra. E' diventata Cosa loro. Doppia. Trasversale. Sempre inquieta. Tra ombre di paura e fantasmi di tragedie.
Tragediatori. "Venticello", il pettegolezzo, che loro riuscivano a far diventare tempesta. Montava lentamente. Sospetti. Vuciari. Che ti portavano sotto terra. "A lingua nun avi uossu, ma rumpa l'ossa".
Inzerillo. Bontade. Carabinieri. Poliziotti. Magistrati. Delirio di potenza. Distruttivo e sanguinario. Il terrore. Bombe a Roma. A Milano. A Firenze. Per tutti. Non contava più la famiglia. Contava quella cerchia di dannati che spiava, controllava e pigliava le megliu cosi.
Ne sape qualcosa De Cristina. Anche mio padre ha avuto paura. Tinta cosa lu vidiri o' patri scantarsi. Ha chinato la schiena. Diventando freccia dell'arco corleonese.
Io sono nato mafioso in quegli anni di trapasso. Ho aperto le braccia ai corleonesi. Perchè il sangue caldo non cerca diga. Vuole correre. Dilagare. La potenza di Riina, allora, sembrava inarrestabile. Era la voce dell'angelo.
Munnu a statu e munnu è, ripeteva mio padre.
Prima Vizzini, poi La Barbera, Cavataio, Torretta e Di Pisa, poi Inzerillo e Bontade. Prima i palermitani. Poi i viddani corleonesi cresciuti all'ombra di Liggio.
Poi Riina, Provenzano, Bagarella..
Mio padre aveva capito. Ogni epoca ha i suoi idoli. Cosa Nostra si adegua ai traffici e ai nuovi equilibri. Le famiglie che capiscono prima l'andazzo scavano la fossa agli alleati. Il ricambio è l'anima mafiosa. Ricambio violento. Sanguinario.
Eppure la forza non basta. È essenziale, per vincere. Ma è anche questione di testa. Di furbizia. Perchè si vince nei giochi d'ombra. Nei silenzi...nella difficile nobiltà dei silenzi."


"Invecchiato. Gli anni passano. Anche il pelo sullo stomaco è cresciuto. I pochi capelli sono bianchi. Come quelli di mio padre. Che mimavo allo specchio, con la grande uniforme, nei giochi bambini che durano tutta una vita.
Dall'estate toscana, lussureggiante e fresca, dagli amori morbidi più delle colline del Chianti, alla voglia testarda di carabiniere, all'oleoso rumore carrista dell'esercito di storiche imprese, sino, meta ambita, alla divisa nera con gli alamari d'argento.
Senza un palese perché. I motivi crescono silenti, si fanno foresta. Poi un sentiero s'apre. Sai ch'è il tuo. Era la stagione del terrorismo. Senza tempo. Sospeso a capire il nemico. Impararne il linguaggio, il passo, le contraddizioni. Con Dalla Chiesa, il mito di cui imparavo a conoscere le pagine umane, la quotidiana pesantezza e la felicità, ogni mattina, di sapermi dalla sua parte. Eletto, quasi. Dedicato, come un sacerdote senza religione.
Comandante, diamine! Trucidato con la tua voglia di vivere negli occhi spenti. Con il tuo futuro e la tua donna piena di voi stessi.
Cribbio! Un lutto che non cessa. Un senso di abbandono. Di solitudine.
Fino a cercarlo nell'ombra, a tirare fuori dal cilindro tutte le sue parole, le sue intuizioni. Per iniziare una nuova lotta proprio dove lui aveva finito, morendo.
Dal terrorismo alla mafia.
Una vertigine che affonda. Una palude.
Il terrorista è violento, ma si immola intellettualmente. Si dichiara. Ti sommerge di dichiarazioni, di volantini. Grida il suo verbo malato e nella malattia trovi l'antidoto. La sua terra è l'organizzazione. Il tema. La prassi. La teoria. Di nuovo la prassi. Circolo inesausto. No. La mafia è altra cosa. E' diversa. Cosa Nostra la vedi solo dopo aver visto la Sicilia. Ultronea. Ulteriore. Non solo la meravigliosa ed eccentrica geografia. Ma un mondo diverso. Una filiera invisibile. Una ragnatela fitta. Annodata. Difficile da decifrare. Pronta a fagocitarti. Tra mostri e sirene.
Ero ancora giovane. Troppo. Ma già con tanti lutti.
Eppure.. ho imparato.. che non muoiono i Dalla Chiesa..."

"Era potente Cosa Nostra. Legami di sangue con i mafiosi americani avevano intessuto una rete fitta fitta. Nelle campagne milicie si parlava francese, i chimici marsigliesi travagliavano a pieni ritmi. Droga e soldi avrebbero potuto coprire tutta la Sicilia. Esistevamo all'ombra dei salotti come al sole dei giardini di arance.
Poi i peri incritati di Riina, i viddani corleonesi, infangarono tutto. Gli sbirri ci stavano dietro. Gli affari grossi si vedono.... si sentono.. o' ciauro tinto... bastunati da una parte e dall'altra.. I carabbeneri alle costole, i viddani pronti a tagliare la testa.
Tempu niuru!
Il cancro mordeva le viscere. I corleonesi se ne futtevano di Cosa Nostra. Assatanati, volevano il potere.
Minchia! Lo sapevano tutti, in cuor loro che la situazione iva a' schifiu. Mai però avrebbero pensato! Poi, ma solo con il giudizio di chi sta a cassetta e non fa il cavallo, ci siamo chiesti come sia potuto accadere.


foto ansa

Lui faceva sequestri di persona, con Leggio. In Sicilia. A Milano. Si metteva sotto anche gli amici, come fu per i Salvo. Erano tagliatine di faccia. Si convinceva che poteva fottere a tutti quanti... viddano.
A viale Lazio consumaru i palermitani. Così se futtiu il cemento di Palermo, che invase tutta la provincia... ora le case s'arrampicano pure per le scale sante!
Poi la droga. Fiumi di droga e di soldi. Riina ha lo sguardo di iena. Come si muoveva. Come ringhiava rabbioso. Come s'avventava sulle carni degli altri era una iena. Anche quando faceva quel sorriso maligno ed ebete era una iena...una iena che sapeva giocare con le regole!!!
Ma non c'erano leoni. Non c'erano più.
C'erano solo altre iene.
Lui aveva ucciso Inzerillo, Bontade, Riccobono. Anche u' picciriddu di undici anni stutau, prima tagliandogli il braccio, per oltraggiarlo, perchè sapesse che la vendetta era impossibile, poi colpendolo in testa. Come al macello.
Non è stata una guerra. No. È stata una carneficina. I morti sono stati tutti da una parte. Macellati. Messi in un recinto da chi credevano amico. Perchè Riina ha distrutto Cosa Nostra. Ha riempito i sacchi delle famiglie delle sue serpi. Al suono del suo infernale richiamo, i sonagli, tutti insieme, hanno stritolato i loro capi, gli amici, i parenti.
Ha distrutto tutto. Tra di noi. Tra di voi. Mettendo zizzania, tragedia, sospetto. Una sola parola, magari falsa, e ti dovevi fare il segno della croce. Non c'era più Cosa Nostra. C'erano Riina e i suoi.
Prima c'era una struttura democratica. Le decine e le famiglie eleggevano il loro capo. I capi eleggevano il rappresentante del mandamento. La commissione aggregava gli apici dell'organizzazione, per trattare le questioni comuni, quelle più importanti.
Ma i denari prima e il potere poi hanno invaso la mente dei capi. Chi ha il potere vuole conservarlo. Il sistema naturalmente è diventato chiuso, un'oligarchia, sino a scadere nella tirannia corleonese.
Poi avete preso Riina. Bagarella. Brusca. Aglieri, Santapaola, Spera, Giuffrè…
Avete vinto, sulla carta. Chi l'avrebbe mai detto? Tutti quei pezzi grossi in carcere! Al regime speciale. Stavate fottendoci perché avete arrestato, ma soprattutto avete stretto la cella, reso disonorevole e senza speranza la detenzione. Urli pure Bagarella dal carcere! Minacci pure! Scriva pure brutte copie di disegni di legge improponibili Aglieri! Il 41 bis taglia la faccia. Toglie il comando. Disorienta anche i capi fuori. Hanno imparato che una volta arrestati è finita. Certo qualche spiraglio c'è pure.
Un elettricista, un parente, un infedele. Ma certo non è più come prima.
Un tempo si comandava, dal carcere.
Il tempo...il tempo gioca a vostro sfavore.
Il tempo di Cosa Nostra è tempo siciliano. Dilatato. Paziente. Non si vive sperando, ma non si è disperati. Nella vita dell'isola molti sono venuti, baldanzosi ed eccitati. Come se dovessero rimanere in eterno. Eppure se ne sono andati. Chi rimane?
I siciliani. Noi.
Voi, invece, non siete altrettanto pazienti. Come se aveste paura di vincere, qui. O che vincano quelli che hanno combattuto. Perchè anche da voi ci sono diverse tribù. Magari non vi ammazzate. Magari lasciate che siamo noi a fare il lavoro sporco. Ma tra voi ci si isola. Spesso si rinuncia a vincere perchè non salga qualcun altro sul carro del vincitore. Disposti a buttare l'acqua cu caruseddu.
Voi avete tante, troppe croci.
Voi, tutti voi, prima togliete l'aria agli amici, poi li piangete...
Anche tu lo sai. Si capisce. Tu come tutti quelli come te... più ti avvicini, più sei morto. Non solo per la lupara che si carica... Perchè più ti avvicini, più sei solo.
Girati. Contali.
Oh, non contare quelli in processione nei momenti felici...
Dopo..
Perchè dopo ogni vincitore è solo. Ogni vittoria apre una guerra. In cui non sai chi è il nemico."


"Alduccio...".
"Mm...".
"Calogero...".
"Cose tinte...".
"A Catania...".
"Ero con Piddu, a Caltanissetta. C'era anche l'agrigentino...chiddu di Sciacca...ne abbiamo parlato...Mi...pure dell'amico mio...Quello dello scavatore...Ora Calogero non c'è, da chi deve andare? Si chiedono...per mettere a posto...".
"Tu fallo aspettare. Non è ancora chiaro. Aspettiamo...Lo zio...Totò però no...lo zio dice – chi lo conosce? – capito...?Lo zio l'ha posato... Forse pensa...è assurdo...follia...forse pensa che parla troppo...Totò...".
"Morto è...".
"Se non lo conosce...".
"Fammi sapere...L'amico parte...Va in Romania...Lui continua...anche senza Calogero...".
"Tu dici che parla...".
"Chi...?".
"Calogero...".
"Minchia, non confondere...Calogero mica è tinto...non lo devi dire...non lo devi pensare...".
"Di questi tempi Noi possiamo pensare tutto...di questi tempi...".
"...la fine del mondo...non ci voglio pensare...non ci voglio credere...".


"Conosco la Sicilia. Conosco Palermo. Ho capito che operare in una provincia non bastava. Cosa Nostra è un'organizzazione. Composta da tante famiglie. Autonome. Ma tutte legate. Un unico corpo. Le polizie avevano solo presìdi. Al massimo provinciali. Secondo rigide competenze. Il segreto, la panacea, potevano essere l'intuizione antica di Dalla Chiesa. L'avevano capito in molti. Falcone. Borsellino. Gli illuminati che li seguivano (di meno di quelli che oggi dicono di essere stati lì. Invisibili forse. Tanto. Troppo.)
Un reparto centrale, speciale, slegato dal territorio ma che operasse sulle informazioni territoriali. Una punta finissima sulla freccia delle forze di polizia. Che mirasse e colpisse al cuore dell'avversario.
Difficile parto. Difficile contesto. Difficile tutto.
Ma possibile.
Ed ora sono qui. Con giovani colleghi cresciuti in fretta. Su cui pesa il comune fardello. Svegliarsi, vivere, dormire e sognare con il nemico nella testa.
Poi l'ordine di smantellare.
La vita si ripete. Vichianamente. Maledettamente.
Tutti vogliono sconfiggere la mafia. Poi l'invidia. La paura. Il gioco al massacro. La guerra civile. Tanto che non sai nemmeno più chi sei. Dove stai. Dove vai. Quali sono i tuoi compagni, in questo sentiero in cui chi sta avanti ti scava la fossa. Fissandoti con un cieco sorriso.
Almeno noi sappiamo di essere nemici. Di essere stati nemici.
Soldati. Ciascuno nel suo esercito. Vecchie quercie alimentate da ruscelli diversi. Piantati qui. Affidati come in un naufragio.
Io, certo, sono dello Stato. Dello stesso Stato che magari qui non ha scuole, non ha circoli, non ha ritrovi, non ha vere cooperative competitive, non ha saputo portare nel tempo quel senso di appartenenza che è il vero antidoto all'isolazionismo inquinante mafioso.
Tu sei della mafia che permea. S'infiltra. La mafia che cerca di controllare il territorio. Con l'accordo o con la guerra.
Ma, in fondo, tu hai sempre l'orizzonte cupo e parco del crimine. Del criminale.
Certo, l'insavia e la memoria corta dello Stato potranno lasciarvi quel respiro che vi ridà vita. Ma tu stesso, oggi, sei il testimone della malattia mortale. Il pentitismo. Potrete argomentare che era convenienza.
Uno stato di necessità per preservare il salvabile. Potrete pensare di aver collaborato per combattere Riina. Nauseati dalla sua follia. Ma ogni volta che vi guarderete.. si guarderanno.. sapranno di non potersi più fidare.. sapranno che c'è una via d'uscita a quello che era il vicolo cieco e irredimibile di Cosa Nostra.
E' il tarlo che vi e li polverizzerà. Perché isola. Frammenta. Implode. Separa. In questo modo, guardinghi e divisi, sarà più facile vincervi.
Riducendovi a cortili.
Il capo disegna un cerchio. Raggiunge un centro trasparente. In linea con gli occhi di Calogero. Le palpebre sostano, in alto. La fissità dello sguardo è in bilico, tra una domanda retorica e l'attesa di una risposta che si conosce."

"Io ormai sono fuori. Arreso. Schizofrenico. Ma non t'illudere che la guerra sia finita. Ancora no.
Provenzano è libero. L'ultimo feticcio. Bagarella, Riina, Vitale non sono riusciti a eliminarlo. In quella che voi chiamate guerra tra falchi e colombe. Era solo scontro di falchi. In Cosa Nostra colombe non ce ne sono!
Anche Spera, Giuffrè e quanti altri ne avrebbero volentieri preso il posto.
Ma è furbo. Diffidente. Ragioniere della vita. Pronto a scaricare gli amici, in modo eccellente.
Turi ha fatto un errore. Zio Binnu voi lo conoscete?
Io? Forse, come tutti lo conosco.
No, non riesci a incastrare Binnu nella rete della tragedia. Lui c'è nato nella tragedia. Lui è la tragedia.
Ha una rete per i "pizzini". Un'altra per la latitanza. Un'altra operativa. Dividi e impera. Senza che la sinistra sappia della destra. Magari si taglia un braccio per negare una fratellanza.
Ma lui oggi è l'unica voce della storia mafiosa.
E' il sottile filo che tiene alla partenza i puledri da corsa.
Quando cederà, quando il suo filo si allenterà allora inizierà la corsa dei gregari affamati.. Arriverà solo il vincitore. Non è, questa volta no, un gioco di squadre. Vincerà il migliore, gli altri si fermeranno dietro una croce.
Vinceranno coloro che che sono forti d'esercito e di legami.
Radicati nell'economia e nella politica.
Economia....
Il sistema di Siino è forse finito. Nessun tavolino. Nessun incontro nelle sale di comando dell'economia.
Ora si va sulla foce, si attende l'onda. Perchè se non si controlla la fonte almeno si incatenano tutte le onde nella stessa corrente. Quella mafiosa.
Lo so. Noi siamo il castigo dell'economia. Noi siamo il cancro della burocrazia, perchè dalla nostra parte è meglio avere un tecnico che un manager. Lui ha il tempo.
Ma ti sei chiesto, sbirro silenzioso, tu che hai fatto l'indagine che ha scosso Palermo e ha vomitato rancori, che ha svelato i retroscena degli appalti e della mafia, proprio tu ti sei chiesto perchè molte vittime sono diventate complici?
Non uomini d'onore, eppure pronti a navigare la nostra diga. Spartendosi appalti e onori. Quelli non sono migliori di noi."

"Avete avvelenato l'isola. Avete tolto la speranza. Avete imbarbarito il sistema sociale ed economico.
E' vero che non siete stati soli.
Cosa Nostra rappresenta spesso una sorta di catalizzatore. Un volano degli appetiti più diversi della collettività.
Siete pedine, spesso dame, in un gioco ben più complesso di voi.
Pidocchi. Parassiti. Che entrano nella vita quotidiana e ne regolano il gioco.
Con la forza. Con la malìa della corruzione. Con l'invasiva intelligenza delle cose.
Finalmente, però, si attacca il patrimonio. Non solo l'organizzazione.
Finalmente si sequestra e si confisca.
Con le tasche vuote non si va lontano.
Lo Stato, almeno questo, l'ha capito!"

"Tu sei dalla parte dei giusti. Ti senti di uno Stato. Che minchia di Stato? Che poco mancava e i corleonesi facevano tremare Roma. Minchie. A schifiu finiu. Perché noi nienti siamo oltre lo stretto.E' vero che chi nun ti canuscia caru t' ccatta. Ma quando ti conoscono e non ti riconoscono allora torni dove sei partito. Schiacciato. Magari "scantatu". Invece Dalla Chiesa non si scantau. S'è buttato sulla donna. Come nei libri d'eroi. Altro che Coriolano della Floresta!
Io c'ero a Carini.
Tu lo sai.
Tu che hai i suoi stessi occhi. Scommetto che lo conoscevi. Tutti voi cornuti e sbirri lo conoscevate. E se sei qui, ora, è perché devi essere di quel branco che ancora ulula dal dolore.
Ma è tardi, sbirro.
Quando abbiamo ammazzato il colonnello Russo, che era stato con Dalla Chiesa, era stato dei suoi, dei tuoi, sbirro, Riina disse "Minchia, se la tengono".
Ci aspettavamo ferro e fuoco. Invece i giornali parlavano di mascariate. Di sospetti. Che spasso. Che spasso quando vi vediamo tragediare meglio di noi. Da allora non ci siamo fermati più. La colpa è anche vostra.
Per questo motivo più di noi dovete temere di voi stessi!
Guardatevi. Falcone. Borsellino. Tutti o quasi quelli che abbiamo ucciso voi li avevate abbandonati da tempo. Avete iniziato ad ucciderli voi.
Eppure, tragediati e tra cornuti e serpenti, che cu avi a mala vicina avi a mala sira e a mala matinave ne futtite.
Convinti che ci sarà sempre qualcuno come voi a prendere la matassa dal vostro bandolo. Per la verità... la verità... sta buttana che in Sicilia sta con tutti senza essere di nessuno!"


"Verità. No. Non credo nella verità a caratteri cubitali che oggi si urla a uso e consumo di ciascuno.
No. E' quella macerata nelle coscienze dell'uomo della strada, del commerciante onesto, del giornalista che s'interroga e non si ferma all'orizzonte di una penna. La verità di chi vive lo scontro, la battaglia, con il sudore del nemico attaccato alla pelle, con la paura e il coraggio che ti rendono eroe, con la coscienza di chi non torna indietro...


foto ansa

E’ di chi non vive di certezze, di chi sbaglia e torna a sbagliare e ancora sbaglia ma non si arrende. Impara. Lotta. Davanti alle barricate. Ad analizzare atti messi insieme per dare corpo a un pensiero, a prendere la carta e metterla nella realtà.
Con la buona fede che si condivide tra chi rema e segna la rotta.
A cercare di capire nelle notti senza stelle, a pedinare, a mettere una cimice, a irrompere in un casolare.
Ne sanno qualcosa il territoriale Giovannone, brigadiere dalle mani grosse, il baffo stanco che non cede di Michelino, il quotidiano coraggio di Mimì, che vuole il figlio carabiniere, ma non basta abbia faticato da bambino nella stazione, deve leggere i quiz sui carri armati...
Sì, loro, insieme agli “speciali”, a Vincenzo in cui ogni sguardo racconta della storia siciliana, a Ultimo, Drago, Bandito, Samba, Grande, Tex, Indio, e la pletora di fantasmi che s’insinua nell’ombra sicula come lucciola di speranza.
Per quelli della “seconda ondata”, del dopo è più facile. Dopo è facile essere censori. Essere burocrati. Cacadubbi. Con il fondoschiena e il cuore sulla sedia.
Leggeranno la mafia. L’antimafia. Sapranno cosa sarebbe stato meglio. Con il microscopio e i guanti per non infettarsi.
Ma anche allora sarò felice...
Felice se l’orizzonte di Cosa Nostra sarà finito e passato come un volo d’aprile...

Non essere certo che la tua guerra sia la stessa di quelli che ti circondano. Non lo pensare. Come in Cosa Nostra, la nostra vittoria è stata goduta da altri. Noi abbiamo combattutto tre grandi guerre. Contro Cavataio. Contro Inzerillo. Contro Provenzano.
Eppure verranno altri, che oggi sono ben coperti, a trarre i frutti dei nostri errori.
Anche da voi. Il sacrificio di tanti come te servirà ad altri.
Sarete offuscati. Mascariati. Tragediati.
Dovrete uscire, perchè altri entrino.


Chi sei?
Con quel profilo tagliato dall’accetta. Con quelle mani ruvide. Con le radici di quercia?
Ne riconosco la forza. La carica di una generazione di mafiosi.
Tutti duri. Resistenti. Coriacei.
Protagonisti principali, interpreti del loro tempo.
Non tutti, ora, sono come te.
C’è alle porte il nuovo mafioso.
Più duttile. Tattico, con pochi spunti strategici.
Che ha letto di mafia. Ha studiato nei racconti orali e nei cunti di memoria l’atteggiamento dell’uomo d’onore. Che scimmiotta. E dove non arriva, pretende di innovare. E’ gente che non ha combattuto nelle grandi guerre di mafia. Che deve ancora provarsi. Che cambierà cosa nostra, verso una modernità che è la vera sfida della mafia.
Per questo bussa alle porte un futuro che non è tanto sicuro quanto il passato.
Dovrei gioire, oggi, del tuo pentimento, Sutera.
Dovrei gioire. Forse ci riuscirò. Forse.
Quelle mani di corteccia hanno stretto il kalashnikov che ha sputato il suo porco piombo su Dalla Chiesa. Hanno premuto il comando dell’attentatuni. Hanno divelto vite che erano annodate alla mia.
Ora parli. Avrai gli sconti della legge.Ma non giudico.
Lascio che la ferita si pieghi come una preghiera.
Mi consola l’illusione di redimerti.

Infamità. I tuoi occhi riflettono i pensieri.
Ho indovinato? Hai conosciuto Dalla Chiesa. Hai pensato anche che sia pentito per fottere gli amici che tali non sono più.
Ho ucciso, sbirro.
All’inizio non è stato facile. Ma l’orgoglio è stato più forte della natura.
Mio padre era fiero di me.
Voleva che diventassi qualcuno. Perchè non fossi nenti. Il niente, in Sicilia, è più niente che altrove.
Essere qualcuno è un ufficio, in Sicilia.
Un ruolo, più che professione.
In Cosa Nostra, siamo quel qualcuno che è una vocazione.


Ti ammazzeranno qualche familiare. I tuoi ti tradiranno. I figli non vorranno vederti. Forse.
Ti attaccheranno, nelle aule come nei giornali.
Qualcuno ti accuserà di essere strumento di un’antimafia privata.
Forse sarai corretto.
Forse non lo sarai.
Noi riscontreremo. Cercheremo di capire. Colpiremo. Forse ci riusciremo. Sicuramente, però, la tua isola interiore sarà pervasa da tempeste.
Sarai un naufrago, più che un esiliato.
Resisti, bastardo.
Te lo chiedo come sbirro. Come italiano. Resisti.
Perchè proprio tu, assassino e mafioso, sei la speranza che si può cambiare.

Sbirro che talìi senza sosta. Non mollare. Perchè la mia vita è in alto mare.
Vedo l’orizzonte che mi offri. So anche che solo tu puoi portarmi lì dove si rinasce.
Cercheranno di fermare me e te. Tragedieranno e mascarieranno.
Io sono solo. Forse. Non t’illudere, anche tu lo sei.
Resisti.


“Signor Sutera...il furgone è pronto...Scusi...Signor colonnello, sono il piantone..Lo porto via...?”.
L’ufficiale scuote la testa. “Si, lo può portare via”.
Dietro, un collega si sporge. Prende le braccia di Sutera. Chiede al piantone:
“...era con il colonnello...?”.
“...si...”.
“che...hanno parlato...?”.
“chi?”.
“Loro due”.
“No...”.
“E che ficiru?”.
“Nenti...si taliarunu...”.



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA