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GNOSIS 3/2005
L'Islam 'porta a porta'
la rete missionaria del Tabligh Eddawa  articolo redazionale




l Tabligh Eddawa è una rete mondiale di missionari itineranti, impegnata nella diffusione ’porta a porta’ della fede islamica ritenuta più autentica, per convertire i non credenti o ‘riconvertire’ i cattivi musulmani, soprattutto tra la popolazione emigrata in Occidente. Ostile a qualunque prospettiva politica di tipo rivoluzionario, il movimento assume piuttosto i caratteri della setta per il continuo lavaggio del cervello dei suoi affiliati sulla necessità di adottare un rigido codice di autodisciplina e di preghiere utili a preservare l’identità islamica dalle tentazioni del non-Islam. Questo estremo rigore potrebbe però determinare nei soggetti più deboli un atteggiamento di chiusura verso l’Occidente ed offrire il fianco a speculazioni da parte di formazioni estremiste islamiche, interessate a reclutare ‘carne da cannone’ per il fronte qaedista, come dimostrano, fra le altre, la storia di Johnny ‘il Talebano’ o quella di Richard Reid. Questo articolo, senza voler incorrere in alcun pregiudizio, si interroga sul problema.


Che cosa faceva John Walker Lindh (alias ‘Suleyman al Faris’, alias ‘Abdul Hamid’), un ventenne rampollo della borghesia californiana, tra i Talebani ed i militanti di al Qaeda rinchiusi nel carcere-fortezza di Mazar-i-Sharif, durante il raid anglo-americano in Afghanistan?


da www.nndb.com


da www.news.bbc.com

Perché il londinese Richard Reid (alias ‘Abdel Rahim’) si trovava, nel dicembre del 2001, sul volo 63 Parigi - Miami dell’American Airlines, pronto ad innescare la miccia esplosiva nascosta nelle sue scarpe? E ancora, come mai Mohammed Aouzar, ex idraulico marocchino, cresciuto nell’hinterland di Torino, è finito a Cuba, nel carcere speciale di Guantanamo, dopo un ‘passaggio’ nella solita Mazar-i-Sharif?
Le risposte sono differenti.
Possiamo immaginare che ‘Johnny il Talebano’, cattolico di nascita con madre buddhista, inseguisse nell’Islam “la riscoperta del sacro’, come frutto di una scelta di vita alternativa o, come dire, radical-chic, preferendo ai palloni da football la lettura della biografia di Malcom X (il leader dei neri d’America divenuto musulmano) ed i viaggi nello Yemen, in Pakistan e, come ultima tappa, in Afghanistan.
Possiamo anche supporre che Richard Reid abbia cominciato ad interessarsi all’Islam nel riformatorio londinese di Feltham per ‘redimersi’ da un passato di rapine e piccola criminalità; ed, infine, che il marocchino ‘torinese’ intendesse compiere un percorso a ritroso alla ricerca di quella identità islamica ‘vera’ che la lontananza dal Paese di origine tende in genere a soffocare.
Eppure, in queste storie con matrici culturali e contesti sociali diversi, c’è un qualcosa in comune, il cui peso non sarà stato marginale nella scelta dei tre giovani di islamizzarsi o re-islamizzarsi (nel caso di Mohammed), insomma di essere dei ‘born again’ (‘nati un’altra volta’) a qualunque costo, rompendo con le loro famiglie ed il loro passato ed abbracciando il radicalismo islamico nel contesto o come conseguenza di una ‘rinascita’ religiosa.
Questo qualcosa adattabile a tutte le situazioni, dai campus americani, alle carceri minorili, alle periferie di metropoli, si chiama Tabligh Eddawa ed è una rete mondiale di missionari itineranti impegnati a convertire i non credenti e ‘riconvertire’ i cattivi musulmani, con la quale John, Richard e Mohammed sono entrati in contatto.
Per intuire la portata del Tabligh Eddawa, un movimento islamico che si professa apolitico, facciamo un salto indietro di tre quarti di secolo.
Alla fine degli anni ’20, durante il periodo di massima espansione degli imperi coloniali sulle ceneri dell’impero ottomano, si formano - a fianco dei partiti che rivendicavano l’indipendenza - due movimenti di rinascita religiosa che intendevano, entrambi, ma con metodi differenti, riportare sulla retta via i musulmani corrotti dal secolarismo e dal materialismo occidentale, oltre che dal processo di deculturazione subita sotto la dominazione europea.
L’associazione dei Fratelli Musulmani (Gam’iyyat al-ikhwan al-muslimin), fondata in Egitto nel 1928, riteneva che questo obiettivo fosse raggiungibile con una ‘reislamizzazione dall’alto’, impadronendosi in un modo o nell’altro del potere politico, secondo una linea di pensiero che è stata ereditata ed ancor più radicalizzata dagli attuali gruppi estremisti islamici che mettono al primo posto il jihad e l’abbattimento dei governi musulmani apòstati.
Al contrario, l’associazione Tabligh Eddawa - o, più esattamente, Tablighi Jama’at (Società della propaganda) - sorta nell’India britannica un anno prima, pensava che il risanamento della società dovesse passare attraverso la riforma morale e religiosa dei singoli individui con un processo di ‘reislamizzazione dal basso’, destinato a coinvolgere le masse ad ogni livello.
Rivolgendosi soprattutto alle classi più povere ed illetterate (gli ‘alaf’, ossia ‘erba’ come sinonimo di ‘creature modeste’) - senza escludere i ceti colti ed intellettuali (gli ‘ashraf’ ossia ‘i nobili’) - il movimento riesce a sintetizzare efficacemente e ad esportare l’influenza di due correnti indo-pakistane di metà ottocento che hanno segnato sino ad oggi l’evoluzione dell’Islam: la Barelwi di impronta mistica e popolare e la Deobandi - che ci è più nota, dopo l’11 settembre, come dottrina ispiratrice dei Taleban afghani - dogmatica e puritana, impegnata a codificare nelle madrase (scuole coraniche) i comportamenti autenticamente islamici.
Forte di un dichiarato disimpegno politico, il profilo dei Tabligh parte in maniera più discreta rispetto ai Fratelli Musulmani, ma il disegno, basato su una sorta di ‘propaganda fide’ dell’Islam più autentico, è di quelli che guardano ed arrivano lontano nel tempo e nello spazio e che la rivoluzione delle coscienze la fanno per davvero, lentamente e senza troppo rumore, interiorizzando il jihad.
I primi passi di quella che diventerà la più grande rete islamica transregionale e transnazionale li muove il fondatore dei Tabligh, Mawlana Muhammad Ilyas, un letterato e mistico musulmano. Attraverso il richiamo ad uno stile di vita rituale, improntato alla meditazione ed agli insegnamenti di Maometto, egli intendeva restituire calore alla fede dei musulmani del subcontinente indiano che si era lasciata intiepidire dalla dominazione britannica, oltre che dal peso demografico della maggioranza hindù e dalla spinta dei gruppi missionari gesuiti e protestanti. Di fronte al politeismo dei beduini, ai ‘bizantinismi’ del cristianesimo ed allo scarso equalitarismo del credo zoroastriano diffuso nella vicina Persia, il messaggio dei Tabligh, semplice e intenso, sembra funzionare.
Nel periodo tra le due guerre, l’attività missionaria (da’wa) comincia infatti a consolidarsi per poi espandersi, progressivamente, negli anni ’40 nei paesi musulmani, tra il ’50 ed il ’60 nei paesi più industrializzati (Stati Uniti, Canada, Giappone) e toccare, sulle molte vie dell’emigrazione, l’Europa (Italia compresa), dove sta attraversando una fase di accentuato dinamismo.
Di moschea in moschea, da un quartiere ‘musulmano’ all’altro, nelle banlieues metropolitane, con il sistema del ‘porta a porta’ - alla maniera dei Testimoni di Geova - i missionari Tabligh spiegano che la nazionalità d’origine o la cultura etnica di partenza non servono a stabilire chi sia o non sia musulmano, mentre è il rituale quotidiano di preghiere e di norme comportamentali (potremmo chiamarla l’ortoprassi) che definisce l’identità islamica e la preserva dalle tentazioni delle società occidentali, dalla contaminazione del non-Islam.
Non a caso, in Francia - dove ha sede il principale centro missionario europeo, presso la moschea parigina ‘al Rahma’ di Seine- Saint-Denis - il movimento è stato ufficialmente registrato come ‘Foi et Pratique’.
Possiamo riconoscerli facilmente dall’aspetto e dal vestiario ‘simil talebano’ questi ‘testimoni di Allah’ che si muovono periodicamente a piccoli gruppi misti (con buona percentuale di elementi marocchini), secondo un calendario e dei target prefissati dalla dirigenza e dietro la guida di elementi indottrinati presso il centro missionario mondiale ‘Nisam Eddin’ di Reiwand in Pakistan. Nei loro pellegrinaggi, i missionari si portano dietro una raccolta di detti (‘Ahadith’) del Profeta, redatta, nel VII secolo, dall’imam Nawawi ed intitolata il “IL GIARDINO DEI PII CREDENTI”, che costituisce una sorta di ‘istruzioni per l’uso’ dell’ortodossia Tabligh.


da www.ieb.world-federation.org

Vi è indicato come il ‘pio credente’ debba vestirsi, nutrirsi, comportarsi in questa o in quell’altra circostanza, per imitare Maometto sino ad una perfezione che può rasentare il mimetismo, tenendo la barba ad una certa lunghezza ed indossando, alla sua maniera, il copricapo bianco e la jallabah o gandouras, una veste fluttuante, che non deve arrivare alla caviglia, perché il Profeta diceva che lasciar toccare terra ai vestiti è segno di arroganza.
Il centro della predicazione Tabligh è offrire ai nuovi proseliti - musulmani o convertiti, che si interrogano sulla propria fede e la propria identità - un’ancora di salvezza dalle tentazioni della delinquenza, dal razzismo, dall’esclusione sociale e persino dall’alcolismo ed un modo per riappropriarsi della dignità perduta, attraverso un percorso graduale di affiliazione che coincide con una metamorfosi della persona.
Da una vita di partenza disordinata e senza punti di riferimento, l’aspirante Tabligh acquisisce una progressiva religiosità che lo trasformerà in un ‘forzato della religione’ o ‘praying machine’ (‘macchina pregante’). In questo periodo cruciale, egli non parla altro che di Allah, del Paradiso e dell’Inferno, la sua barba si allunga a misura del distacco che prova verso la realtà che lo circonda, mentre si dedica ai digiuni ed alterna ai ritiri spirituali i pellegrinaggi su e giù per il mondo, dovunque lo porti la rete missionaria, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Africa del Sud al Bangladesh, dove i festeggiamenti annuali del ‘Biswa Ijtema’ richiamano in massa fedeli di ogni nazionalità.


da www.altmuslim.com

Naturalmente, la virata verso il terrorismo da parte di alcuni militanti non è un automatismo derivante dall’affiliazione al Tabligh e, a scanso di equivoci, i responsabili del movimento non perdono occasione per professarsi estranei all’uso della violenza a differenza delle formazioni radicali islamiche di matrice salafita, che aspirano al ritorno all’Islam delle origini (dall’etimologia ‘al-salaf al-salih’ : pio antenato) ed alla fondazione di uno stato islamico sul modello del califfato, anche attraverso il ricorso alla lotta armata.
Tuttavia il carattere settario dei Tabligh, con il continuo lavaggio del cervello sulla necessità di tracciare una rigida demarcazione tra la vera religione (‘din’) e l’empietà (‘kufr’), può predisporre, tra le comunità emigrate, ad un atteggiamento di chiusura verso i paesi ospitanti e frenare i processi di integrazione. Si tratta di una forma di neo-fondamentalismo comunitarista che ben si adatta alle esigenze di una Umma globalizzata, a prescindere dalle singole realtà.
Ma il rischio maggiore è che il rifiuto di ogni ‘contaminazione’ occidentale, sia pure per ragioni etico-religiose, ed il senso del ‘jihad interiore’ possano essere sfruttati dal network terroristico islamico come un mix di base per indurre gli adepti psicologicamente più fragili e più suggestionabili al salto di qualità tra le fila della militanza jiadista tout court, magari per riscattare una condizione di disagio personale o sociale.


da www.mukto-mona.com

Da questo punto di vista, la rete missionaria, per la capillarità e fluidità dei suoi legami multietnici, può prestare il fianco a tentativi di infiltrazione o interferenze da parte di formazioni jihadiste e rappresentare non solo un veicolo per la selezione ed il reclutamento di moujaheddin - meglio se convertiti e di nazionalità occidentale - ma anche una copertura ad hoc per gli spostamenti (ad esempio, quale motivazione per il rilascio dei visti) e le attività di finanziamento e di supporto logistico. Non a caso, nella primavera del 2001, Kamal Derwish - un membro di Al Qaeda ucciso, un anno dopo, nello Yemen - aveva reclutato sei americani-yemeniti di Lackawanna (New York) per l’addestramento in Afghanistan. Il gruppo - che è stato condannato per terrorismo al rientro negli USA - aveva dichiarato di essere diretto in Pakistan, per studiare l’Islam con i Tabligh. Come si può immaginare, dalle madrase coraniche pakistane ai campi ‘fumanti’ di al Qaeda in Afghanistan il passo era stato breve.



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