Espansione del potere giudiziario e risposta della politica |
Ciro SBAILO' |
In tema di lotta al terrorismo internazionale continua l’approfondimento già avviato su privacy e sicurezza, sulle strategie legislative adottate negli Stati Uniti nonché, da ultimo, con il contributo di Stefano Dambruoso, sugli strumenti giudiziari ritenuti più idonei per una adeguata risposta alla minaccia. Questo articolo affronta il problema con un approccio prevalentemente filosofico-politologico constatando il superamento del concetto di Stato nazione e quindi la non circoscrivibilità territoriale del problema sicurezza. Si auspica così una soluzione centrata sulla globalizzazione delle politiche di contrasto e della attività di intelligence. Al riguardo si sostiene, in particolare, che il salto “qualitativo” della minaccia terroristica, sempre più “reticolare” e sempre più “globale”, richiede una “globalizzazione” e una “reticolarizzazione” dello spazio giuridico. Occorrerebbe, ad esempio, che vi fosse un comune sforzo per dar vita a meccanismi giudiziari che consentano la trasformazione dell’intelligence – la raccolta di informazioni – in evidence – ovvero in prove da esibire in tribunale. Questa posizione, per quanto argomentata con rigore anche su queste pagine (2) e per quanto utile allo sviluppo delle politiche della sicurezza, ci pare tuttavia contenere tra le proprie premesse una convinzione assai discutibile, e cioè che l’ordine giudiziario debba occuparsi della sicurezza e, in particolare, della lotta al terrorismo. Ora, l’adeguamento delle leggi e della funzione giudiziaria alle nuove minacce terroristiche è senza dubbio auspicabile. E bisogna riconoscere che si stanno facendo al riguardo molti sforzi in Europa e negli Stati Uniti. Ma questo c’entra con la lotta al terrorismo in maniera solo indiretta. E ciò non solo perché la funzione giudiziaria consiste, come è noto, nella garanzia dell’effettiva applicazione delle norme giuridiche e può, dunque, venire esercitata solo in presenza di una controversia sull’applicazione delle norme. Il punto è che proprio i processi di globalizzazione richiedono una maggiore responsabilizzazione dell’esecutivo in materia di sicurezza e di intelligence. A tutti noi piacerebbe vedere i terroristi dietro le sbarre. Ma la destinazione ultima della guerra al terrorismo è la sconfitta strategica di quest’ultimo, la sua neutralizzazione sul piano operativo. L’elemento giudiziario è importante, ma è esterno – e tale deve restare – rispetto alla determinazione di questo telos. D’altra parte, la questione nasce dal fatto che si assiste in tutto il mondo a una forte espansione del potere giudiziario in connessione con lo svilupparsi dei processi di globalizzazione. Noi intendiamo sostenere, innanzi tutto, che quell’espansione non necessariamente deve dirigersi anche verso l’ambito della sicurezza e che, anzi, è interesse sia dei giudici sia dei governi evitare che ciò avvenga. Vogliamo inoltre sostenere che è possibile – oltre che auspicabile – che i governi conservino e rafforzino le loro competenze in tale materia, reinterpretando la persistente esigenza di accountability con riferimento non più a comunità chiuse in rigidi confini territoriali, ma a una società civile transnazionale sempre più estesa e dinamica. L’espansione del potere giudiziario Cominciamo, dunque, con l’espansione del potere giudiziario. Proponiamo la seguente definizione del fenomeno: affermazione delle decisioni giudiziarie e delle procedure delle corti nell’arena politica. Si tratta, insomma, di una «giuridicizzazione della politica» (3) . Questo processo, a sua volta, s’accompagna a una crescente integrazione tra gli ambienti giudiziari nazionali, nel senso che i giudici tendono a comportarsi come se il mondo si stesse evolvendo verso la formazione di un’unica giurisdizione, producendo così una profezia che si autoavvera. Si tratta di un fenomeno tipico delle democrazie. È stato giustamente osservato che è molto difficile immaginare un dittatore che inviti i giudici a partecipare alle decisioni pubbliche, senza riguardo alle «uniformi» e alle «ideologie» (4) . Tra i primi a occuparsene è stato, non a caso, anche il primo studioso della democrazia americana nonché antesignano dei moderni studi sui sistemi giuridici, Alexis de Tocqueville, che notava come negli Stati Uniti non vi fosse avvenimento politico nel quale non si intendesse invocare «l’autorità di un giudice» (5) . Le Corti hanno oggi un crescente ruolo in molti paesi occidentali, così come in Africa, in Asia e in Oceania. Si può parlare, per certi versi, di una sorta di «ubiquità» (6) delle Corti e dei giudici, chiamati a risolvere questioni politicamente rilevanti. La giurisprudenza dei diritti, ad esempio, ha ormai carattere mondiale e non conosce confini stato-nazionali. Essa addirittura può determinare dei mutamenti delle carte costituzionali, costringendo a interpretazioni nuove – e quasi sempre estensive – dei diritti in queste ultime già contemplati. Sono sempre di più le decisioni che vengono prese dai giudici, in materie che prima erano di «esclusiva competenza dello Stato nazionale» (7) . Le Corti in molti casi scrivono o riscrivono le Costituzioni e le Dichiarazioni dei diritti, avendo quale punto di riferimento le persone umane e non gli stati con le rispettive legislazioni. Esse possono influire sui processi legislativi, incanalando l’attività dei parlamenti dentro percorsi rigidi da esse stesse disegnati. E possono influire sui sistemi giudiziari nazionali, indipendentemente dalla loro collocazione territoriale. Quello dell’arresto di Pinochet nel Regno Unito su input proveniente da procedimento spagnolo è ormai un caso di scuola. Questo, per quanto riguarda la cronaca. Sul piano istituzionale, possiamo ricordare il caso emblematico del varo del mandato di arresto europeo, la cui accettazione sic et simpliciter, senza le modifiche introdotte dal Parlamento, avrebbe potuto determinare squilibri nel nostro sistema costituzionale. Da dove viene questa espansione del potere giudiziario? Innanzitutto c’è una nuova concezione – interventista e tendenzialmente transnazionale – della democrazia, che per certi versi è già presente nell’intervento americano nelle due guerre mondiali, ma che è rimasta per così dire sepolta per quarant’anni sotto le coltri della guerra fredda. C’è inoltre un crescente processo di legittimazione della cd. “creatività” dei giudici da parte sia dei giuristi sia della pubblica opinione. La “decisione” di un giudice in materie come i diritti fondamentali o la tutela dei consumatori, ad esempio, non è quasi mai oggetto di contestazione, bensì di analisi e di discussione: essa è un “fatto” di cui si discute, non un problema. A ciò si lega la crescita della “cultura dei diritti”. In tutti i campi – dall’economia alla politica, dalla cultura allo spettacolo – la questione dei “diritti” diventa determinante per la definizione delle competenze istituzionali e personali. È una sorta di rivoluzione copernicana: non si parte dal “sistema” per determinare i diritti, ma si parte dai diritti per stabilire la legittimità del sistema. Emblematico, al riguardo, il ruolo delle associazioni dei consumatori, che mettono in radicale discussione istituti da tempo considerati intoccabili – la proprietà, la comunicazione commerciale, la concorrenza – a partire, ad esempio, dal diritto alla salute. L’Organizzazione mondiale per il Commercio o la Comunità europea intervengono pesantemente nella vita produttiva interna dei paesi, imponendo determinate regole di sicurezza o tecniche di produzione o garanzie economiche: i “trattati” reclamano «più potere» rispetto ai sistemi legislativi, mettendo a dura prova le nostre tradizioni costituzionali (8) . La globalizzazione si caratterizza per il moltiplicarsi di fornitori e fruitori di diritto, per la diversificazione delle domande di giustizia, per un indebolimento della struttura gerarchica tradizionale del sistema delle fonti: si afferma un sistema reticolare in cui gli input e gli output si scambiano i ruoli. Il potere giudiziario può far leva su un diritto «più leggero» di quello legislativo (9) , e può muoversi dunque con un’immediatezza e una flessibilità che alle istituzioni politiche non è consentita. Il paradigma esterno/interno L’espansione del potere giudiziario può essere considerata una risposta della nostra civiltà alla crisi della sovranità. Ma al tempo stesso questa risposta, se non rielaborata dal potere politico, potrebbe accelerare quella crisi, indirizzandola verso una progressiva dissoluzione della sfera politica. La determinazione del principio di sovranità nell’orizzonte politico moderno comporta la suddivisione di quest’ultimo in “esterno” e “interno”. In altri termini, la sovranità è necessariamente bidirezionale. Con lo stato di diritto abbiamo poi una progressiva limitazione della sovranità interna: «Stato di diritto all’interno e Stato assoluto all’esterno crescono insieme come le due facce della stessa medaglia» (10) . Ma ciò presuppone, per l’appunto, che ci sia un “interno”, ben definito, in contrapposizione a un “esterno”. Sulla base di questo paradigma si articola in Occidente la dottrina della separazione dei poteri, che si caratterizza in Europa continentale e negli Stati Uniti per un particolare “isolamento” del potere giudiziario, rispetto all’Esecutivo e al Legislativo, mentre nella tradizione britannica il principio della “supremazia del diritto” fa sì che il giudiziario possa avere il controllo dell’esecutivo «nel meccanismo del controllo giudiziario dei poteri» (11) . Il dato fondamentale resta quello della separazione tra il potere esecutivo, «che ha bisogno quasi sempre di un’azione istantanea», secondo la nota descrizione di Montesquieu (12) , e l’amministrazione della giustizia. Ora, però, la sovranità è in netto declino, al punto da essere considerata anche in sede teorica «uno pseudo-concetto o, peggio, una categoria antigiuridica» (13) . E tale declino corrisponde al declino del paradigma “esterno/interno”. Il punto è: l’attuale crisi della sovranità mette in difficoltà il primato della politica, che in questo caso si identifica con l’esclusività della competenza dell’esecutivo in materia di sicurezza? Declino della sovranità È in crisi un modello di stato messo a punto in un processo iniziato dopo la fine della guerra dei Trent’anni (la data simbolo è il 1648, anno del trattato di Vestfalia). Quel modello consisteva sostanzialmente in una razionalizzazione giuridica dell’identificazione politica tra stato e nazione, in base alla quale possiamo rappresentarci la situazione delle relazioni internazionali come «una tavola da biliardo sulla quale si muovono oggetti di uguale forma sferica e uguale struttura, almeno se osservate dall’esterno» (14) . Questa era naturalmente una rappresentazione “ideale” nel senso tecnico del termine. Si trattava, cioè, di un “modello” per l’interpretazione della realtà e per la costruzione dei processi decisionali. In altre parole, le decisioni erano prese “come se” vi fosse una perfetta congruenza tra agenti decisori e ambiti in cui le decisioni avevano effetto (15) . Non si può negare che oggi gran parte delle decisioni in materie fondamentali come la finanza, l’informazione e persino la politica economica sfuggano al controllo diretto dei politici. Parliamo di controllo diretto, perché un controllo indiretto può essere esercitato attraverso organizzazioni informali e a carattere orizzontale, come il G8. In altri termini, i governi possono riacquistare alcune competenze se rinunciano alla “sintassi” dello stato nazionale, che è formalistica e gerarchica. Chi decide “localmente”, comunque, non può non tenere conto del fatto che le sue decisioni avranno effetti globali, al di fuori del suo controllo. Particolarmente complesso si presenta al riguardo il problema del “consenso” alle decisioni. Siamo abituati a considerare come una grande conquista del secolo XX il fatto che la fonte ultima di legittimazione delle decisioni pubbliche sia il consenso popolare, espresso attraverso i meccanismi che regolano la partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Ma il punto è che fino a poco tempo fa l’ambito in cui si determinava il consenso coincideva con quello nel quale ricadevano gli effetti della decisione. Questa coincidenza garantiva il rispetto del principio di responsabilità. Se il governo A prendeva una decisione, questa aveva effetti sui cittadini del paese A, che in qualche modo potevano chiamare il governo a rispondere. Quando accadeva che le decisioni del governo A avevano effetto sui cittadini del paese B, allora c’erano grosso modo due soluzioni: la guerra o l’integrazione. L’Europa ha conosciuto entrambe queste soluzioni. E ora il mondo intero procede verso forme di aggregazione. Ma tali aggregazioni danno luogo a relazioni asimmetriche e incongruenti, che mettono a dura prova la razionalità dei nostri sistemi economici e politici: una scoperta nel campo farmaceutico può mettere in crisi l’economia di una regione, un gruppo di consumatori può mettere in ginocchio una multinazionale, una multinazionale può provocare la guerra civile in un paese, la caduta dei titoli di un’azienda può determinare una crisi politica in un’intera area del pianeta, un gruppo terroristico può fare “guerra” a uno stato nazionale, e così via. Questo significa che l’integrazione avviene in maniera non “cartesiana”, e cioè non riducibile su un piano percorso da entità congruenti. Insomma, non pare si possa pensare a una sorta di super-stato mondiale, perché è proprio quel modello – la costruzione di soggetti sulla base dell’aggregazione di altri soggetti – ad essere in crisi. Crisi dello stato nazionale e democrazia L’istanza fondamentale del paradigma “esterno/interno” è di tipo politico e consiste nella razionalizzazione dei comportamenti pubblici e nell’ancoraggio del potere alla responsabilità. Sicché si può dire che il nesso tra stato, nazione e territorio non è più funzionale a quell’istanza politica. In questo senso, dunque, non c’è il tramonto della politica, ma il tramonto della possibilità di fondare l’agire politico sul nesso tra stato, nazione e territorio. Il movimento no-global, cui poi torneremo a fare cenno, rappresenta in questo senso un esempio di politicizzazione al di fuori di quel nesso e non descrivibile secondo il paradigma interno/esterno. In questo senso, si può parlare anche di una crisi della democrazia parlamentare, intesa come “strumento” di legittimazione delle decisioni statali, per la sua originaria dimensione territoriale-nazionale. La crisi, però, non riguarda l’esigenza alla quale le istituzioni democratiche tradizionali cercano di rispondere, vale a dire l’Accountability, la corrispondenza tra potere e responsabilità. Insomma, la legittimazione delle decisioni continua in Occidente a essere fondata sulla possibilità di stabilire relazioni congruenti e simmetriche tra agenti decisori e ambiti di ricaduta degli effetti delle decisioni. Solo che quelle relazioni, quei soggetti e quegli ambiti non sono più descrivibili ricorrendo alla sola geometria degli stati nazionali territoriali. Occorre pensarli con riferimento alla nuova società civile occidentale che si va formando per effetto dei processi di globalizzazione. Questa società civile si divide al proprio interno – a volte in maniera anche molto netta – per condizioni e interessi sociali ed economici, per convinzioni etiche e religiose, per orientamento culturale e stili di vita. Ma tali divisioni non corrispondono più a quelle stato-nazionali-territoriali. Non che queste ultime siano sparite. Ma tendono a diventare “opzioni” e “opportunità” piuttosto che punti di partenza o limiti costitutivi dell’agire. Il movimento no-global, ad esempio, può essere considerato come la parte più visibile e rumorosa di questa nuova società civile. Ne è la componente politicamente più impegnata e antagonista. Ma ci sono molte altre componenti – nel mondo della finanza, della cultura, del lavoro, dell’educazione, del commercio e così via – che hanno rapporti di conflittualità, complicità o trasversalità con i no-global, non avendo, al momento, la stessa visibilità. Questa società civile non ha ovviamente un parlamento, né, probabilmente, si porrà in futuro il problema di averlo. Ma dispone già di mille strumenti di pressione per fare valere le proprie ragioni e i propri interessi. Stati e governi nazionali potranno conservare o addirittura rafforzare il proprio ruolo se saranno in grado di rispondere alle nuove esigenze transnazionali di Accountability, ovvero capaci di garantire un’accettabile congruenza di potere e responsabilità anche nell’età globale. Gli stati sono ancora gli unici legittimi titolari del potere coercitivo. E non pare che una tale situazione possa mutare nel medio termine. Tale monopolio, infatti, è funzionale agli stessi processi di globalizzazione. Lo Stato garantisce la possibilità di mantenere in vita fori di “ultima istanza” per la risoluzione di conflitti di interesse, che per ragioni pratiche vengono risolti in itinere e con il ricorso a nuove forme di arbitrato, ma che comunque hanno bisogno, per essere gestiti, del riferimento a una possibile soluzione definitiva imposta con la forza. E ciò lo Stato può fare in quanto legittimato dal fatto di essere garante di beni non negoziabili, come la sicurezza individuale e collettiva e i diritti fondamentali – beni che, per definizione, non possono essere garantiti all’interno delle transazioni “in tempo reale” che caratterizzano la società globale. In altre parole, lo Stato, in quanto unico titolare legittimo del potere coercitivo, può spostare il proprio ruolo dalla dimensione nazionale-territoriale a quella transnazionale, mantenendo tuttavia la prima dimensione come fonte storica di legittimazione. In questo senso, il futuro degli stati appare affidato alla loro capacità di costruire accordi informali come il G8, negoziando quote di (residua) sovranità in cambio di accordi sulla tutela dei beni non negoziabili. Dall’insicurezza internazionale all’insicurezza globale Cerchiamo, dunque, di tirare un po’ di somme in merito alle questioni – strettamente collegate – dell’espansione del potere giudiziario e della crisi dello stato nazionale. L’espansione del potere giudiziario non porta necessariamente a un’acquisizione di competenze della magistratura in materia di sicurezza. Ciò dipende dalle scelte politiche che si fanno. I grandi mutamenti che sopra abbiamo cercato di descrivere non intaccano di per sé la sostanza dei sistemi politici occidentali, ovvero non mettono in discussione il nesso tra potere e responsabilità o il principio della separazione dei poteri. Si potrebbe dire che i mutamenti in corso mettono in discussione la morfologia dei sistemi suddetti, ma non il loro DNA. Infatti, la tendenza naturale del giudice va verso l’affermazione del primato dei diritti sulla legislazione, non certo verso l’assunzione di competenze in materia di sicurezza. Tuttavia, data la crescente affidabilità e popolarità dei giudici, nonché le loro sempre più frequenti interconnessioni transnazionali e transregionali, può accadere che, in assenza di un’iniziativa politica globale in materia di sicurezza e di intelligence, il potere giudiziario si espanda anche in questa direzione. Su quali basi si può concepire la suddetta “iniziativa politica globale”? “Sicurezza” viene dal latino 'sine cura'. Il cittadino ha il diritto di non vivere in uno stato di continua ansia per l’incolumità propria e dei propri cari. La sua rinuncia all’esercizio della violenza rappresenta, hobbesianamente, un impegno dello Stato in tal senso. Nel mondo degli Stati nazionali, la coincidenza tra stato, nazione e territorio faceva sì che lo Stato potesse offrire sicurezza in cambio di obbedienza o lealtà. Ora, si tratta di ripensare quel ruolo in un mondo nel quale tale coincidenza tende a dissolversi. Se guardiamo alla genesi di quella dissoluzione possiamo anche farci un’idea dei possibili sviluppi della questione. Durante la guerra fredda si forma una società civile euro-americana in virtù della contrapposizione al blocco comunista. Nel blocco occidentale si rafforzano le interconnessioni e le interdipendenze. Si tratta, per così dire, di una sorta di globalizzazione “sotto l’ombrello della Nato”. In Europa tale processo è particolarmente intenso. Grazie alla sine cura garantita dalla superpotenza americana, gli europei possono fare passi da gigante nel loro processo di integrazione. Gli aspetti legati al confronto di tipo militare con il mondo comunista gravano in gran parte sulla politica americana. Dopo il “crollo del muro” il mondo è diventato un’unica arena. I flussi di informazione, denaro, risorse, persone non erano, già da tempo, descrivibili all’interno della logica stato-nazionale. Tuttavia, l’indebolimento dello stato nazionale era in una certa misura “controllato” all’interno di una struttura – quella dell’alleanza atlantica – che in qualche modo funzionava da stato nazionale. Oggi non è più così. L’insicurezza è “globale”, ovvero sfugge alle geometrie stato-nazionali. Tra i protagonisti della vita politica ci sono sempre di più comunità di vario genere, a carattere “diasporico” o territoriale, che si collocano trasversalmente rispetto agli stati nazionali e anche rispetto a se stesse, nel senso che si può essere membri di più comunità politicamente rilevanti e a vari livelli. E questo comporta una re-definizione del ruolo dei governi nazionali, in quanto gli stati conservano il monopolio dell’uso legittimo della forza. foto ansa Ma la determinazione di tale legittimità non è più descrivibile secondo logiche nazionali-territoriali e richiede, invece, l’adozione di paradigmi transnazionali. Siamo, cioè, passati da una sicurezza “territoriale”, quella della prima metà del Novecento, fondata sul principio di sovranità e sul principio di equilibrio tra le potenze, a una sicurezza di “sistema”, basata sull’equilibrio tra le superpotenze, per arrivare a una sicurezza che riguarda direttamente i popoli, le persone, le comunità. Per cui non è più possibile parlare di sicurezza facendo riferimento esclusivamente alle interrelazioni esistenti tra soggetti politici nazionali e internazionali formalmente riconosciuti. Accountability D’altra parte, il problema fondamentale alla base della domanda di sicurezza resta quello di sempre: l’“Accountability”. Chi risponde alla pubblica opinione se c’è stato un attentato? Chi si assume la responsabilità di dire che tutto quello che poteva essere fatto è stato fatto o che viceversa sono stati commessi degli errori? Solo l’inerzia dei governi può produrre, alla lunga, un’espansione del potere giudiziario in questa direzione. Un giudice, per definizione, non può essere chiamato a rispondere per un attentato. Un giudice non può essere accusato di mancata prevenzione. Non si può puntare il dito contro il giudice che manda a piede libero il noto terrorista perché non ci sono elementi tali da tenerlo ancora in carcere. Un giudice deve essere una garanzia per tutti, anche per il più efferato dei terroristi. Viceversa, il “governo” è parte in causa. È tenuto a garantire la sicurezza dei cittadini e di ciò deve rispondere alla pubblica opinione. Per garantire tale sicurezza può scegliere molte strade. Ma nessuna di queste può avere a che fare con la funzione giudiziaria in quanto tale, non solo perché ciò contrasta con il principio della separazione tra i poteri – garanzia prima della tutela dei diritti – ma anche perché sarebbe una diminutio della stessa funzione giudiziaria, che verrebbe ingabbiata in logiche burocratiche e amministrative, proprio mentre essa, anche in Europa continentale, tende piuttosto verso l’affermazione della figura del “giudice dei diritti”. Certo, è auspicabile che vi siano leggi tali che rispondano alle nuove minacce alla sicurezza. L’articolo 416bis del Codice penale italiano ha sicuramente contribuito alla lotta contro la mafia. D’altra parte, l’esperienza italiana non può essere considerata al riguardo un modello valido per il mondo intero. In Italia, i protagonisti della lotta alla mafia sono stati e sono soprattutto i pubblici ministeri, che però fanno parte dell’ordine giudiziario. Si tratta di un’anomalia tutta italiana, che può avere mille plausibili spiegazioni e altrettante contro-spiegazioni, ma che certo non può essere considerata un modello. Per rispondere alla domanda di Accountability c’è bisogno di ampia discrezionalità. E chiunque disponga di un potere discrezionale deve essere chiamato a rispondere dell’uso che fa di tale potere. Insomma, ad essere chiamato in causa è esclusivamente il potere politico, cui spetta di garantire la “prevedibilità” insieme alla “stabilità”. E ciò vale proprio in considerazione della “qualità” delle nuove minacce. Oggi la minaccia si “smaterializza” e i suoi protagonisti sono sempre meno rappresentabili secondo parametri di soggettività individuali in termini giuridici. Le “netwars” si caratterizzano anche per la possibilità offerta al militante rivoluzionario di prendere parte a un’azione eversiva senza incappare nelle maglie della giustizia, ovvero comportandosi in modo tale da essere “non rappresentabile” all’interno della sintassi giudiziaria. Risolvere questo problema dal punto di vista giudiziario significherebbe minacciare seriamente alcuni diritti fondamentali come la privacy, la presunzione d’innocenza o la libertà di movimento. La giuridicizzazione della lotta al terrorismo, in un tale quadro, potrebbe essere una seria minaccia non solo per gli equilibri costituzionali, ma anche per gli stessi diritti fondamentali. Certi comportamenti sono “invisibili” dal punto di vista giudiziario. È indubbiamente possibile renderli visibili, ma è molto alto il rischio di andare a mettere le mani nella regione dei diritti fondamentali. foto ansa La logica degli “obiettivi condivisi”, ad esempio, consente di prendere parte a un attentato, senza tuttavia essere penalmente perseguibili. La costruzione dell’attentato, infatti, può avvenire attraverso l’assemblaggio di informazioni e segnalazioni, ma anche di persone e materiali, che risultano “invisibili” sul piano giudiziario, ma non di meno efficacissimi. Le minacce si articolano oggi in modo non congruente rispetto alla logica stato-nazionale e possono essere affrontate solo da chi dispone di ampia discrezionalità decisionale e di ampia flessibilità operativa – discrezionalità e flessibilità di cui, ovviamente, dovrà essere chiamato a rispondere. Ciò comporta una forte responsabilizzazione del potere politico. Ma comporta anche un mutamento morfologico di quest’ultimo, come s’è detto. Per muoversi all’interno dell’ambiente globale non ci si può sempre affidare ad automatismi istituzionali e a meccanismi decisionali prestabiliti. Sempre più spesso le decisioni non possono essere fatte discendere da una rappresentazione unitaria e prestabilita della realtà. È necessario disporre non solo di informazioni in tempo reale, ma anche della capacità di cercare, selezionare, organizzare le informazioni in molteplici scenari, con elasticità, e a più livelli simultaneamente, nell’immediato, a breve e medio termine e anche in una prospettiva “storica”, visto che le direttrici su cui si muovono le nuove minacce hanno spesso anche alla base “visioni del mondo” antagonistiche rispetto alla cultura occidentale. Il potere politico è nelle condizioni di ridefinire radicalmente il proprio ruolo senza intaccare il proprio patrimonio genetico, senza mettere in discussione i principi fondamentali della divisione dei poteri e del monopolio dell’uso legittimo della forza da parte dello Stato, facendo leva sulla possibilità di accordi “regionali” e “transnazionali” a vari livelli. Del resto, questa è l’unica strada per i governi nazionali se vogliono continuare ad avere peso sulla scena globale. Se le politiche di sicurezza e le attività di intelligence dei paesi occidentali non si “globalizzano” – non nel senso, ovviamente, della piatta (e “cartesiana”) internazionalizzazione, ma nel senso dell’acquisizione di una morfologia congruente rispetto alla complessità dei processi di globalizzazione – allora sarà fatale che il potere giudiziario, che si sta globalizzando a ritmi serrati, si occupi, con il consenso della pubblica opinione, anche di sicurezza e di “lotta” al terrorismo. La riforma americana. Un progetto-pilota? Le inchieste condotte negli Stati Uniti dopo l’11 settembre sul “fallimento” dell’Intelligence Community nel prevenire gli attacchi terroristici in territorio americano hanno messo in risalto come l’approccio giudiziario sia stata una delle cause di quel fallimento. In particolare, è stato messo in risalto come l’atteggiamento “giudiziario” dell’FBI, che fa capo infatti al Dipartimento della giustizia, abbia contribuito a rendere vulnerabile il sistema. È da rilevare al riguardo che quando si parla di “approccio giudiziario”, in questo caso, non ci si riferisce alla funzione del giudicare: i giudici non hanno nulla a che fare con il potere esecutivo. Ma ci si riferisce al fatto che l’FBI risponde al Ministro della Giustizia, il quale ultimo sovrintende a tutti i processi penali e al quale rispondono i procuratori, a loro volta nominati dal capo dell’esecutivo. Ma persino questo aspetto del giudiziario, legato alla responsabilità dell’esecutivo, è considerato potenzialmente dannoso rispetto alla lotta al terrorismo: per quanto condotta sotto la responsabilità di un attorney politicamente responsabile, la ricerca delle “prove”, viene osservato, non può essere la prima preoccupazione di chi vuole fermare un attentato o neutralizzare un gruppo terrorista. foto ansa Le tesi sostenute nelle relazioni dell’estate del 2004 hanno trovato conferma in una nuova inchiesta i cui risultati sono stati pubblicati nella primavera del 2005 (16) . In questo documento si sostiene, tra l’altro, che il criterio “esterno/interno” non è adatto per combattere il terrorismo (17) né per affrontare l’ampio spettro di minacce odierne, che tendono a sottrarsi a categorie di tipo giudiziario (18) . Il problema, evidentemente, non è quello di dare nuovi compiti alla funzione giudiziaria, ma semmai di evitare che le esigenze della sicurezza e il principio di legalità entrino in conflitto (19) . Per certi versi, l’esperienza americana, tuttora in fieri, di riforma dei servizi, può rappresentare un modello di integrazione globale. Il punto chiave ci pare essere quello della centralizzazione delle responsabilità decisionali. Questo non significa, certo, far capo a una persona. Ma significa riportare tutte le decisioni in materia di sicurezza e di intelligence a un livello di alta discrezionalità che faccia poi capo a una responsabilità politica. In questa chiave ci pare utile, ad esempio, il suggerimento di rafforzare i rapporti tra l’esecutivo e l’intelligence. Questo non significa “politicizzare” i servizi, ma significa responsabilizzare i politici. I due interlocutori dei due paesi diversi dovrebbero essere “congruenti” sul piano del ruolo istituzionale, della discrezionalità e della capacità decisionale. L’integrazione “globale” tra informazioni e risorse, in altri termini, potrebbe essere agevolata proprio perché direttamente collegata alla discrezionalità politica. Non ci sarebbero più paraventi “tecnici” per sottrarsi alle responsabilità. Insomma, la globalizzazione riguarda tanto la giustizia quanto il terrorismo, tanto l’economia quanto l’informazione, tanto la finanza quanto i movimenti di opinione… La mancata globalizzazione delle politiche di sicurezza e delle attività di intelligence provocherebbe un drastico – e forse tragico – ridimensionamento della sfera politica nel mondo globale. Globalizzare sicurezza e intelligence – lo abbiamo già detto, ma vogliamo ribadirlo – non ha nulla a che fare né con processi di unificazione né con processi di internazionalizzazione. Globalizzazione significa integrazione/differenziazione: “pensare globalmente, agire localmente”. E ciò può essere fatto solo con l’impegno in prima persona di soggetti politicamente responsabili. |
(1) Gli esempi sono numerosissimi. A puro titolo indicativo, v. le analisi di Magdi Allam su Corriere della Sera 25 febbraio 2004, 3 Marzo 2004 e 19 maggio 2004.
(2) Ci riferiamo in particolare all’articolo del dott. Stefano Dambruoso, Terrorismo internazionale. Verso una risposta giudiziaria globale, su Gnosis n. 2 del 2005, dove, tra l’altro, vengono sollevate molte interessanti questioni, che qui non vengono trattate, come ad esempio il problema dello scambio delle prove relative ad un procedimento da acquisirsi in via rogatoriale e la difficoltà a riprodurre una evidente verità storica in sede giudiziaria. (3) T. Vallinder, When the Courts Go Marching In, in G. N. Tate – T. Vallinder (a cura di), The Global Expansion of Judicial Power, New York, New York University Press, 1995, p. 13. (4) C. N. Tate, Why the Expansion of Judicial Power?, in T. Vallinder – C. N. Tate (a cura di), The Global Expansion…, cit., pp. 28-29. (5) A. de Tocqueville, La democrazia in America [1835-1840], I, 6, a c. di G. Candeloro, Milano, Rizzoli, 1995, p. 101. (6) J. Gibson, G. Cladeira and V. Baird, On the Legitimacy of High Courts, «American Political Science Review», 1998, p. 92. (7) B.McLahin, Judical Power and Democracy, Singapore Accademy of Law, Annual Lectures, 2000. (8) J. C. Yoo, Globalism and the Constitution, «Columbia Law Review». Vol. 99, December 1999, no. 8. (9) M. R. Ferrarese, Il diritto al presente, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 201. (10) L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello stato nazionale, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 35. (11) G.Rebuffa, Costituzioni e costituzionalismi, Torino, Giappichelli, 1990, p. 108. (12) Montesquieu, Lo spirito delle leggi [1748, 1757], XI, 6, tr. it. di B. Boffito Serra, Milano, Rizzoli, 1989. (13) L. Ferrajoli, La sovranità, cit., p. 43. (14) R. Menotti, XX secolo: fine della sicurezza?, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 58. (15) D.Held, Modelli di democrazia [1996], tr.it.di A. Verzichelli, Bologna, 1997, p.461. (16) The Commission on the Intelligence Capabilities of the United States Regarding Weapons of Mass Destruction, Report to the President of the United States, March 31, 2005. (17) The Commission on the Intelligence Capabilities…, cit., p. 331. (18) The Commission on the Intelligence Capabilities…, cit., p. 354. (19) The Commission on the Intelligence Capabilities…, cit., p. 472. |