GNOSIS 2/2005
Inaugurazione dell'Anno Accademico 2004/2005 della Scuola di Addestramento del SISDe |
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Da sinistra il Prof. Michele Bagella, il Ministro On. Giuseppe Pisanu, il Direttore del SISDe Prefetto Mario Mori Intervento del Direttore del SISDE Signor Ministro dell’Interno, Autorità, Gentili Ospiti, do loro il benvenuto alla cerimonia di inaugurazione del nuovo Anno Accademico che rappresenta un tradizionale appuntamento nella vita di ogni Istituzione perché vi si tracciano consuntivi e prospettive delle attività svolte e dei programmi da realizzare ed anche il Sisde non si sottrae a questa consuetudine. Più di un anno è trascorso senza che il nostro Paese abbia attraversato quei momenti traumatici che i nemici della democrazia e della nostra cultura avevano ripetutamente minacciato di provocare. La cronaca quotidiana dall’Iraq e le notizie che periodicamente giungono dai paesi islamici, non autorizzano tuttavia alcuna previsione ottimistica su una inversione di rotta delle strategie terroriste. Il jihad contro i ‘nemici dell’Islam’, quello radicale e fanatico che contraddice la cultura ed il messaggio di tolleranza della religione musulmana, non accenna a diminuire d’intensità. E l’Italia, con l’occidente, è destinata a rimanere ancora un obiettivo degli integralisti. La violenza esercitata in nome della fede religiosa si afferma e viene praticata sulla base di una partecipazione individuale. Un impegno di cui sono protagonisti coloro che si sono autoesclusi dal mondo islamico tradizionale che pure pretendono di rappresentare. Contrariamente agli altri ‘terrorismi’, il loro non persegue ben definiti obiettivi; il kamikaze muore per il significato del gesto, in una concezione mistica del tutto fine a sé stessa. Ne consegue un agire difficilmente comprensibile e ancor meno prevedibile. Di fronte a questa minaccia, non sono stati trovati ancora rimedi risolutivi. Si cercano in questa fase strategie capaci di ridurre, in maniera progressiva, gli spazi di manovra di queste schegge impazzite; un compito che spetta in particolare alle Forze di Polizia ed agli Organismi di Sicurezza, che tentano d’individuare e spegnere anzitempo ogni focolaio in grado d’innescare manifestazioni di violenza. Ma è alla politica che compete la funzione strategica di organizzare un sistema di regole che faciliti una corretta integrazione e, per quanto possibile, l’accettazione del nostro modello di vita. Esiste, notoriamente, una stretta correlazione fra i comportamenti devianti che si manifestano in molte comunità immigrate, e l’isolamento che può verificarsi rispetto al contesto sociale ospitante. Come ha indicato, per ultimo, l’omicidio del regista olandese Theo Van Gogh, tra i più permeabili a queste sollecitazioni vi sono proprio i musulmani di seconda generazione che - pur cresciuti nelle metropoli occidentali - trovano nell’interpretazione radicale del messaggio religioso un fattore identitario auto-legittimante, spesso in risposta a personali condizioni di emarginazione e disagio. Il problema della propaganda estremista assume priorità non solo per l’Italia. La Germania ha appena introdotto nel suo ordinamento norme che prevedono azioni coercitive contro i ‘predicatori dell’odio’, compresa l’espulsione degli imam radicali e la chiusura delle loro moschee. Nello stesso schema legislativo ha tuttavia inserito anche una serie di misure per agevolare forme concrete di integrazione, come corsi di lingua e di educazione civica per i nuovi immigrati. Da noi la strada intrapresa per fronteggiare questo terrorismo passa proprio attraverso l’isolamento dei corpi irrimediabilmente estranei al contesto sociale ed il progressivo allargamento delle occasioni d’incontro con la stragrande maggioranza delle comunità immigrate. Si tratta, purtroppo, di un percorso non breve, che ci espone, nel frattempo, a tutte le insidie di un pericolo dai contorni indefiniti. Non aver subito attacchi come quelli dell’11 marzo 2004 a Madrid, e pur tenendo conto della notevole attrazione esercitata negli aspiranti mujahedin dal poter combattere il jihad nei luoghi sacri dell’Islam, autorizza un sia pur disincantato ottimismo sulla validità delle misure di sicurezza sin qui adottate. Queste ultime, probabilmente agevolate da una situazione che vede, nel nostro Paese, il mancato radicamento di significative enclaves islamiche materialmente ‘chiuse’, sul tipo di quelle asiatiche in Inghilterra (dove sono stati scoperti importanti progetti terroristici) o delle stesse comunità marocchine in Spagna, nel cui ambito sono maturati gli attentati di Madrid. Anche sul fronte interno, quello terroristico rappresentato dalla componente marxista-leninista e dagli anarco-insurrezionalisti, così come quello meno pericoloso, ma sempre insidioso, delle organizzazioni antagoniste, l’anno appena passato non ha fatto registrare episodi di particolare impatto. Le Brigate Rosse – PCC, dopo le ultime operazioni contro i suoi componenti in Toscana ed a Roma, non hanno attualmente alcuna reale capacità operativa. La galassia dei gruppi minori sembra orientarsi verso gli indirizzi movimentisti sostenuti in particolare dalla pubblicistica clandestina, che propone una rielaborazione delle vecchie tesi del partito-guerriglia o della cosiddetta seconda posizione delle BR. Rimane sostanzialmente invariata la minaccia degli anarco-insurrezionalisti, che si materializza periodicamente con attentati contro gli aspetti emblematici di una società non accettata; il carcere, la repressione, le infrastrutture che aggrediscono l’ambiente, il lavoro interinale, il maltrattamento e lo sfruttamento degli animali costituiscono i principali obiettivi delle loro azioni. Si tratta di una minaccia ‘sfuggente’ perché risponde a dinamiche spontaneistiche di difficile prevedibilità, portate avanti da pochi elementi uniti più da una forte propensione all’aggressività che da una fede condivisa. L’agire anarchico rappresenta emblematicamente il nuovo modo di esercitare la violenza ideologica, sempre meno vincolato alle logiche di ‘burocrazia eversiva’ che prevedono rischiose e complesse strutture clandestine. Oggi, citando l’abusato Mc Luhan, il mezzo è il messaggio. L’attentato contro il simbolo del male (sia esso un traliccio, il muro di un carcere o un’agenzia di lavoro interinale), è già di per sè un chiaro documento politico, che può essere diffuso da chiunque si riconosca negli obiettivi di lotta studiati e propagandati su Internet da varie centrali di pensiero e dai soliti cattivi maestri. L’Italia, tuttavia, è anche l’unico paese europeo dove una specifica forma di terrorismo, quello rivoluzionario marxista-leninista, si è sviluppata in una dimensione significativa, sopravvivendo - con uno stacco temporale di una decina d’anni - sino ai nostri giorni. Un dato storico che trova una delle tante risposte nella documentazione che i brigatisti di D’Antona e Biagi hanno riversato nei loro computers. In quei files era infatti archiviata tutta la logica eversiva che ha sempre mosso le Brigate Rosse, da Mario Moretti sino alla Lioce; espressioni di una cultura del tutto autoreferenziale, con obiettivi, metodologie operative, slogans e linguaggio elitari, che sono rimasti gli stessi del sequestro Moro e possono riproporsi inalterati, trovando sempre qualche convinto epigone. Per questo motivo, il pericolo BR non può considerarsi definitivamente tramontato. Al momento possiamo affermare che è soltanto arrivato ad un’altra periodica fase calante, seguendo una sinusoide che oggi tocca il punto più basso del suo percorso. Sul fronte della criminalità organizzata, infine, viviamo un complesso periodo di transizione, in cui convivono, spesso in modo conflittuale, differenti modelli operativi. Da una parte, la mafia tradizionale, che cerca di controllare ogni espressione sociale ed economica del territorio su cui è ancorata. E’ la mafia del pizzo e degli appalti, della dura e spietata forza dell’intimidazione, che coniuga l’essenziale brutalità dell’azione con la cura strategica dell’organizzazione, perché vuole ‘pensarsi’ anche nel futuro. Dall’altra parte, opera una mafia che degenera e che assorbe atteggiamenti tipici del banditismo; meno legata al territorio e più proiettata ad una sorta di attività criminale multiuso, che esaspera irrazionalmente la competizione e vuole perseguire il massimo utile del momento, in una delirante quanto spropositata volontà di potenza. Se in quest’ultimo caso l’eccessivo uso della violenza aumenta la percezione dell’insicurezza e del rischio, suscitando le preoccupate reazioni della collettività, è necessario tuttavia non sottostimare il primo modello, quello tradizionale, che rimane portatore di una carica eversiva superiore e con cui occorre confrontarsi con tempestive analisi e costante fermezza di risposta. Non di meno, abbiamo l’onere di cogliere il mutamento e di prevedere le direzioni e le implicazioni di ogni altra forma di devianza. Mi riferisco alla transnazionalità criminale, che ignora ogni burocratica idea di confine o di barriera; alla presenza di organizzazioni straniere, che trasferiscono tra di noi costumi e mentalità delle aree di origine, ed al crimine integrato, in cui si fondono le esperienze e gli interessi più diversi e che veicola tipologie inedite di minaccia che dobbiamo affrontare con sempre maggiore frequenza. Signor Ministro, Autorità, Gentili Ospiti, il padre del movimento futurista, Tommaso Marinetti, sosteneva che il futuro invecchia molto rapidamente. Per l’intelligence questa osservazione dovrebbe costituire un momento quotidiano, perché il nostro dovere è trovarsi sempre un passo avanti agli avvenimenti, per prevenire e neutralizzare pericoli in divenire o ancora non evidenziatisi. La cultura della prevenzione, che passa attraverso la comprensione e l’analisi dei fenomeni, è la base dell’insegnamento nella nostra Scuola. Non a caso, la conferenza del Prof. Bagella su “Terrorismo e mercati finanziari” proietta il fenomeno terrorista in una dimensione, se non inedita, quanto meno di stretta attualità e, comunque, destinata a svilupparsi secondo percorsi ancora non del tutto esplorati. Valgano, come esempio, i recenti attacchi contro gli impianti petroliferi in più nazioni mediorientali che dimostrano come il terrorismo conosca bene anche gli andamenti e le reazioni dei mercati e come questo settore sia ormai uno dei comparti in cui sempre più si dovranno fronteggiare le iniziative dei nostri nemici. Stare quindi un passo avanti nel futuro significa capire le intenzioni dell’avversario e prevenirlo là dove pensiamo che egli si indirizzerà, proiettati, come in una partita di scacchi, a fronteggiarne e possibilmente a precederne le mosse, così da vanificarne la pericolosità. Grazie. Professor Michele Bagella Terrorismo e Mercati Finanziari cosa è cambiato nel comportamento degli investitori Introduzione L’argomento che affronterò riguarda gli effetti degli attentati terroristici sui comportamenti degli investitori nei mercati finanziari. Si tratta di un argomento che sta suscitando nella saggistica e pubblicistica internazionale molto interesse, sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto di vista delle implicazioni di policy che ne derivano. Il terrorismo non è nuovo nella storia della umanità. Ciò che però colpisce oggi è la crescita progressiva del numero degli attentati che a partire dagli inizi degli anni ’90 è culminata nell’attentato dell’11 settembre del 2001. Si dice a ragione che questo attentato abbia aperto una nuova fase della strategia terroristica, che sembrerebbe svilupparsi non più e non solo con gli atti dei movimenti tradizionali come l’ETA o Hamas, ma che con Al Qaeda stia puntando molto più in alto, organizzando attentati che per dimensione e grandezza sono tali da determinare danni rilevanti alle economie di mercato, specie occidentali. Se si prende sul serio questa strategia, e non vi è motivo per non farlo dopo l’11 settembre, essa sembra avere come obiettivo immediato quello di colpire la fiducia dei consumatori/risparmiatori, e come obiettivo finale di innescare meccanismi di comportamento negativi che dai mercati finanziari si trasferiscono all’economia reale. Nella analisi finanziaria gli eventi che il terrorismo produce vengono considerati come non prevedibili, e come tali, a maggior ragione se si ripetono, tendono a far saltare le previsioni degli analisti, e a indebolire, se non a delegittimare, il sistema di intermediazione finanziaria. La teoria li classifica come shock esogeni e considera i rischi ad essi connessi come rischi non diversificabili. Si tratta di rischi che non scaturiscono dagli andamenti di mercato di uno specifico titolo o di un gruppo di titoli, ma che scaturiscono da un vulnus inferto al sistema che, in virtù del tasso di negatività delle notizie che genera, può spingere gli operatori a uscire contemporaneamente dal mercato provocandone la caduta. E’ da ritenere che chi ha programmato l’attentato alle Torri Gemelle avesse in mente una prospettiva del genere ed è perciò naturale porsi sia la domanda di quale e quanto sia stato il danno arrecato sia di quanto e quali siano stati i rimbalzi psicologici che ha generato, e se essi siano tali da essere considerati come il primo passo del realizzarsi della strategia terroristica a cui si è fatto cenno sopra, oppure no. Per cercare di dare una risposta a queste domande seguirò il seguente percorso. Nel primo paragrafo farò una sintesi dei principali fatti accaduti e evidenzierò come essi abbiano influito sulla economia mondiale e sui mercati finanziari nel breve periodo. Nel secondo paragrafo evidenzierò gli effetti di più lungo periodo sul comportamento degli investitori, mentre nel terzo paragrafo farò alcune riflessioni conclusive sui risultati finora ottenuti dalla strategia terroristica nella nuova fase. Il costo economico del terrorismo e gli effetti di breve termine sui mercati finanziari Tutti gli organismi economici internazionali e diversi centri di ricerca (ad es. Fmi e Stockholm International Peace Research Institute - SIPRI) hanno proposto delle stime dei costi provocati dall’attentato dell’11 settembre. In particolare l’OECD in un recente rapporto ha stimato (Patrick Lenain, Marcos Bonturi e Vincent Koen, The economic consequences of Terrorism, OECD Economic Department Working Papers, n. 334, luglio 2002) che essi siano stati pari a 25 miliardi di dollari di cui 14 miliardi di sole distruzioni fisiche nell’area di Ground zero. Se si considerano poi gli effetti indiretti, le ripercussioni più forti ed immediate si sono avute sul turismo, sui trasporti e sulle assicurazioni. L’effetto moltiplicativo negativo che ne è conseguito per gli altri settori, sempre secondo l’OECD, è stato pari a una perdita dello 0,5% del tasso di crescita del PIL degli Stati Uniti nel 2001, corrispondente a 500 miliardi di dollari. Un danno enorme che, se aggiunto ai danni provocati dalla sua ricaduta sulle economie europee e, in ragione della globalizzazione, sulle economie del resto del mondo, raggiunge cifre da capogiro. Più specificatamente, per esempio, le perdite per le compagnie di assicurazione sono state stimate tra i 30 miliardi di dollari e i 58 miliardi di dollari come indicato nella seguente tabella. Due sono stati gli effetti che ne sono derivati: un aumento dei premi richiesti dalle compagnie di assicurazione e una riduzione della copertura dei rischi. La contrazione della copertura assicurativa ha inciso negativamente sugli investimenti, considerando che i prestatori sono diventati più cauti nei confronti dei grandi rischi potenziali non diversificabili. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno inferto gravi perdite anche all’industria del trasporto aereo. Negli Stati Uniti il traffico aereo è stato completamente chiuso per 4 giorni e la domanda di servizi di trasporto aereo nel mondo è diminuita fortemente nei mesi successivi come mostrato nei grafici seguenti. Sempre negli Stati Uniti i ricavi ogni mille passeggeri sono scesi del 32% nel settembre 2001 (comparato con l’anno precedente). Nello stesso periodo i ricavi dai carghi-espressi e da posta aerea, sono scesi rispettivamente del 20 e del 63%, ma mentre la ripresa del traffico merci è stata più rapida a partire da ottobre, la ripresa del traffico passeggeri è stata invece più lenta. Effetti analoghi si sono avuti sul traffico aereo degli altri paesi europei e del resto del mondo, con una contrazione delle entrate derivanti dal turismo (OECD, 2002). Passiamo ora a considerare quanto avvenuto nei mercati finanziari. I mercati finanziari, come è noto, a partire dai primi anni ’90 stanno vivendo una fase caratterizzata da ampia libertà di movimento dei capitali e tendono a integrarsi sempre più grazie anche alle tecnologie informatiche. Essendo perciò mercati aperti e di facile accesso, sono molto esposti, come detto, alla strategia del terrore, che tende a provocare eccessi di vendite soprattutto di quei titoli considerati più rischiosi, dei quali le azioni sono lo strumento più rappresentativo. Tali eccessi costituiscono la base ideale per diffondere incertezza, far aumentare la volatilità, e di conseguenza generare un clima negativo. Dopo l’11 settembre il governo americano, conscio di questo pericolo, ha avuto una reazione immediata che lo ha sostanzialmente scongiurato. Ha posto in essere due azioni: la chiusura di una settimana delle borse e la messa a disposizione degli intermediari finanziari da parte del Federal Reserve System (FED) della liquidità di cui avessero fatto richiesta. Con la chiusura di Wall Street si è evitato che si generasse l’ondata di panico attesa dai terroristi e gli effetti conseguenti di difficile controllo; con l’offerta di nuova liquidità si è consentito agli operatori, tramite le banche, di effettuare le transazioni desiderate. Il 12 settembre la FED ha, infatti, messo a disposizione del sistema bancario 25 miliardi di dollari in più rispetto alla media precedente l’attentato, ed ha effettuato operazioni di pronti contro termine per circa 40 miliardi di dollari in più sempre rispetto alla media precedente. Così facendo, ha introdotto nel sistema una massiccia dose di liquidità che gli ha impedito di collassare, ed ha permesso alle imprese di effettuare annunci di buyback (di riacquisto) dei loro titoli a sostegno dei valori di mercato (OCSE, 2002), secondo i suggerimenti dati dal governo, dalla SEC (Security Exchange Commission) e dai dirigenti del NYSE (New York Stock Exchange) e delle altre borse del Paese. In tal modo le borse hanno vissuto una fase di controllato ribasso che tuttavia, e questo è il fatto più rilevante, non è durato molto. Nelle due settimane successive all’11 settembre l’indice Dow Jones è diminuito dello 0.82%, mentre il Nasdaq, l’indice rappresentativo delle società tecnologiche ad elevata innovazione, e per questo più rischiose, è diminuito del 5.11%. Tuttavia se si guarda alla prima settimana la riduzione è stata maggiore: il Dow Jones ha fatto registrare -7.68%, il Nasdaq - 9.90%, lo S&P 500 -7.02%. Nella figura sottostante sono riportati i tassi di variazione dei tre principali indici nelle due settimane seguenti l’attentato. E’ chiaramente evidenziabile la comune dinamica e, in particolare, il decremento costante al termine della prima con una generale ripresa al termine della settimana successiva (solo il Nasdaq è diminuito dello 0.04%). Andando avanti e considerando le settimane successive di ottobre, novembre e dicembre sempre del 2001, è interessante notare che tutti gli indici sono ritornati in area positiva, (vds. tavola sottostante), a testimonianza del fatto che gli operatori si sono ripresi subito dallo shock, e hanno cominciato nuovamente a fare le loro scelte di investimento, basandosi sulle opportunità di rendimento a medio termine offerte dai vari titoli, ovvero basandosi sui loro ‘fondamentali’, piuttosto che sulla paura di rendimenti a breve termine al ribasso, a causa di paventati ulteriori drammatici attentati. Una spiegazione interessante di quanto accaduto emerge da uno studio recente (A. Yanxiang Gu e M. Schinski, Patriotic Stock Repurchase: The two Weeks Following the 9-11 Attack, Review of Quantitative Finance and Accounting n. 20, 2003), fondato sulla decisione presa da un numero elevato di società quotate al New York Stock Exchange (NYSE) di annunciare il riacquisto delle loro azioni, accogliendo con questa decisione il suggerimento delle Autorità Monetarie e di Mercato. Dei 317 titoli delle società che hanno fatto tale annuncio, il 59% ha avuto una performance superiore a quella del mercato. Un primo gruppo di imprese ha fatto l’annuncio tra il 12 e il 16 settembre 2001 quando i mercati erano chiusi, le altre imprese lo hanno fatto dopo la riapertura del 17 settembre. Per osservare l’effetto derivante dalla differenza di data, qualora appunto ci fosse stato, tali società sono state raggruppate a secondo del giorno in cui avevano fatto detto annuncio fino al 28 settembre. Sono stati così ottenuti 11 gruppi di società di cui 9 hanno fatto registrare nel periodo osservato rendimenti positivi. Tuttavia le società che hanno fatto annunci al buio, quando il mercato era chiuso, senza conoscere cioè quali sarebbero state le reazioni all’evento terroristico, hanno fatto registrare rendimenti più elevati di quelli ottenuti dalle società che hanno aspettato la riapertura per effettuarli. Il fatto che i titoli di tali società siano stati premiati suggerisce agli autori di considerare tale premio come una ricompensa per il loro comportamento che ritengono ispirato, se non del tutto, ma certamente in larga parte, da sentimenti patriottici (patriotism effect). Tale ‘ricompensa’ , a loro giudizio, è da condividere con gli investitori che hanno continuato a mantenere in portafoglio i loro titoli, e non si sono fatti travolgere dalla paura di perdere tutto. Se si va oltre il periodo immediatamente successivo all’attentato, e si prendono in esame le medie annuali dei tassi di crescita dei principali indici nei tre anni successivi al 2001, i risultati sono ancora più sorprendenti. Complessivamente, mentre il 2002 è stato un anno negativo - gli indici sono diminuiti mediamente di oltre 20% in larga parte spinti dagli scandali finanziari a cominciare dallo scandalo Enron esploso in febbraio - il 2003 e il 2004 sono stati invece anni positivi, a dispetto della guerra all’Iraq e del tormentato dopoguerra. L’indice S&P500 nel 2003 è cresciuto del 22.32%; il Dow Jones del 21.45% entrambi riferiti al NYSE; mentre il Nasdaq è cresciuto del 44.66%. Anche per la borsa di Milano la tendenza è stata positiva, con il Mibtel che ha fatto segnare +11%, nonostante si tratti di una borsa piccola e perciò considerata particolarmente sensibile. Nel 2004, dopo la strage di Madrid, si è avuta una settimana prevalentemente negativa: lo S&P è rimasto sostanzialmente invariato, mentre il Dow Jones è diminuito del -2.6%, il Nasdaq del -4% e il Mibtel del -2.6 %. Ma se si prende la media annuale, il 2004 è stato positivo, a significare che il cambiamento di sentiment degli operatori è stato solo momentaneo, e le reazioni di sdegno e di condanna che ha provocato la strage in Spagna hanno rafforzato un po’ dappertutto nelle coscienze dei cittadini la determinazione ad opporsi al terrorismo continuando la vita ‘normale’. Tale interpretazione è sostenuta anche dall’andamento della volatilità che è il termometro delle preoccupazioni che agitano gli operatori. La volatilità media annuale dal 2002 è progressivamente diminuita in tutti i mercati in misura significativa (vds. tavola sotto) Sulla base di queste tendenze, si può avanzare una prima conclusione. Se uno degli obbiettivi dell’attentato dell’11 settembre era quello di destabilizzare nell’immediato le borse americane e per loro tramite determinare il contagio delle borse europee, - specie dopo la strage di Madrid - e degli altri paesi del mondo, provocando un crack finanziario generalizzato, allora si può dire, senza timore di smentita, che l’operazione non ha avuto successo. Lo shock sul piano emotivo si è esaurito velocemente, e il giorno dopo di tali eventi, ovvero dopo due settimane o poco più, gli operatori hanno ricominciato a fondare le loro scelte di investimento sui fondamentali di crescita dell’economia, e delle singole imprese. Che sia stato il pronto intervento delle Autorità americane o sia stato ‘il patriottismo’ delle società quotate e degli investitori delle borse americane o, come è più probabile, una combinazione di entrambi, certo è che la risposta di contrasto all’attacco volto a destabilizzare i mercati finanziari è stata quanto mai efficace ed immediata. La storia dell’occidente, la sua civiltà, il suo destino sono anche effetto della solidità di questi mercati. E se la letteratura a volte li considera con sospetto riferendosi agli gnomi di Zurigo, non bisogna però dimenticare che essi sono il tramite che ha consentito alle nostre economie di crescere e prosperare. Dopo l’11 settembre è forse il caso di dire che essi hanno dato una nuova e ulteriore prova di questo. Gli effetti a medio termine del terrorismo sul comportamento degli investitori nei mercati finanziari Al di là di quanto appena affermato sulla base della statistica descrittiva, si può andare più a fondo nell’analisi, per verificare se l’attentato dell’11 settembre abbia determinato effetti permanenti di tipo strutturale nel comportamento degli investitori. Prendendo in esame un periodo di tempo più lungo, dal 1987 al 2003, tramite una metodologia di stima del rischio implicito nel prezzo delle azioni, si può osservare come esso sia cambiato nel periodo considerato, e se vi sia stato qualcosa di nuovo nel suo andamento dopo l’11 settembre. Considerare, infatti, quale sia la percentuale di rischio che ogni azione trattata nel mercato presenta, significa tastare il polso al mercato e capire se prevale la fiducia oppure no. Secondo recenti analisi econometriche condotte dal Dipartimento di Economia e Istituzioni dell’Università di ‘Tor Vergata’ (M. Bagella L. Becchetti R. Ciciretti, Market vs Analysts’ Reaction: the Effect of Aggregate and Firm Specific News, Working Paper, 2004) l’impatto degli eventi accaduti nel periodo esaminato sul comportamento degli investitori del mercato azionario USA è cambiato dopo il mese di marzo del 2000, l’anno dello scoppio della ‘bolla speculativa’, e ancor più dopo il mese di settembre del 2001. Prima dello scoppio della bolla speculativa, le previsioni rialziste degli analisti generavano un eccesso di fiducia negli individui che portava ad un aumento del prezzo superiore a quello atteso, e una tendenziale riduzione di rischio implicito nei titoli compresi nell’indice S&P500. Tale risultato era inoltre coerente con l’andamento dell’Indice di Fiducia dei Consumatori americani (University of Michigan Consumer Confidence INDEX) che crescendo oltre il livello atteso provocava una reazione rialzista ancora più sostenuta. Lo scoppio della bolla speculativa nella seconda parte del 2000, ha modificato in modo significativo queste tendenze, e si è potuto stimare che l’impatto delle revisioni al rialzo da parte degli analisti ha provocato reazioni più prudenti da parte degli investitori, aumenti dei prezzi più contenuti e rischi tendenziali in aumento. Tale effetto si è significativamente accentuato dopo l’11 settembre 2001. Da questa data in poi si è rilevato, infatti, che né le revisioni al rialzo degli analisti né gli aumenti dell’indice di fiducia dei consumatori superiori a quanto atteso, hanno generato eccessi di euforia, come in passato, e aumenti dei prezzi corrispondenti. Tale cambiamento è spiegabile con un modello di analisi basato sulla interazione dei comportamenti degli investitori – i cosiddetti effetti gregge. I risultati ottenuti, simulando quanto accaduto nell’atteggiamento degli investitori dopo l’attentato alle Torri Gemelle, sono molto vicini a quanto effettivamente accaduto ed evidenziano che il meccanismo di interazione ribassista si è manifestato, ma ha prodotto una correzione dell’indice inferiore rispetto a quella verificatasi nel crash del lunedì nero del 1987, peraltro determinato da cause interne al mercato collegate al trattamento fiscale dei guadagni di borsa. (M.Bagella G.Susinno R.Ciciretti, Market Dynamics as a Consequence of Local Complementary and Global Substitutability in Agent’s Strategies, Working Paper, 2004). Il 19 ottobre del 1987, i maggiori indici statunitensi ebbero infatti un crollo superiore al 30%, polverizzando così più di 500 miliardi di dollari in un solo giorno, senza che ciò fosse minimamente prevedibile alla chiusura dei mercati del venerdì precedente. Dopo l’11 settembre la correzione è stata del 20%. Una spiegazione di tale correzione la si può trovare in altri studi e ricerche che utilizzano altre metodologie di analisi. Tra queste è interessante considerarne una che si fonda sullo studio degli eventi e in relazione a questi stima i ‘rendimenti anomali’, ovvero la reazione degli investitori all’evento stesso. (Chen A. H. e Siems T. F., The effects of terrorism on global capital markets, in European Journal of Political Economy, Volume 20, Issue 2, June 2004, pp. 349-366: The economic consequences of Terror). Se gli investitori reagiscono favorevolmente all’evento, è logico attendersi un rendimento ‘anomalo’ positivo (rispetto alla media) intorno a quella data, se essi reagiscono negativamente è logico attendersi un rendimento ‘anomalo’ negativo. La tabella seguente mostra i risultati delle stime effettuate sull’andamento del Dow Jones Industrial Average a seguito di eventi considerati dal U.S. Department of State (2001) e dal Constitutional Rights Foundation (2001): Prendendo in esame 14 eventi bellici e terroristici di diversa portata e dimensione, per es. dalla II guerra mondiale alla guerra in Corea, agli attentati recenti all’Ambasciata americana a Nairobi o ancora prima al WTC a New York, ed altri ancora, gli Autori ottengono dei risultati molto interessanti. Mentre l’invasione della Francia nel 1940 ha provocato dopo 11 giorni rendimenti anomali negativi del 20% -cumulati- la guerra in Corea nel 1950 ha avuto un impatto negativo dell’11%, mentre l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990 ne ha avuto uno del -9%. In scala, l’attentato alle Torri Gemelle viene subito dopo con un rendimento anomalo cumulato di circa l’8%. Una prima osservazione che nasce da questi numeri è che l’impatto sui mercati dell’11 settembre è stato quantitativamente forte e vicino a quello determinato dieci anni prima dall’invasione del Kuwait. Una seconda osservazione è che detto impatto non è paragonabile a quello di attentati minori come quelli al WTC del 1993 e alla ambasciata americana di Nairobi nel 1998, che non arrivano all’1%, a significare quanto si diceva in apertura, e cioè che l’attentato alle Torri Gemelle ha aperto una nuova fase della strategia del terrorismo, assimilabile ad una dichiarazione di guerra. Una terza osservazione è che il dato relativo alle Torri Gemelle sarebbe stato più elevato, se non ci fosse stata la tempestività dell’intervento da parte deipolicymaker americani e degli altri Paesi che li hanno seguiti. E ciò è coerente con il minore impatto osservato in occasione del ‘lunedì nero’ del 1987, a cui si è fatto riferimento prima. Strategia del terrore, mercati finanziari e prezzo del petrolio Allargando la prospettiva, si può aggiungere che i mercati hanno resistito oltre che a tutti i fatti negativi di cui si è detto anche all’aumento del prezzo del petrolio che nell’ottobre/novembre del 2004 aveva superato i 50 $ al barile partendo da una media dei mesi precedenti di poco superiore ai 30 $. Che si trattasse di un andamento legato alle particolari condizioni del momento (elezioni americane) lo si poteva dedurre dal fatto che detto aumento non mostrava avere effetti persistenti e consistenti sull’andamento del prezzo delle azioni nei diversi mercati. E ciò appare a prima vista poco coerente con il fatto che il petrolio, rappresentando la principale fonte di energia, ha una incidenza immediata sui costi di produzione, sui ricavi e quindi sui profitti delle imprese. E di conseguenza sul loro valore di borsa di quelle quotate. Basta ricordare l’esperienza di stagflazione sperimentata negli anni ’70 e quanto è accaduto allora per capire la sua pericolosità. Se ciò non si è verificato è perché il suddetto aumento di prezzo non è stato considerato stabile. Tuttavia il fatto che recentemente Al Qaeda abbia indicato la distruzione dei pozzi come un obiettivo da perseguire riapre la questione. Come è noto, gran parte delle risorse petrolifere mondiali si trovano nell’area mediorientale. Qualora le azioni terroristiche dovessero intaccarne sensibilmente l’offerta, esse agirebbero direttamente sulla crescita delle economie occidentali. Nell’attentato alle Twin Towers lo scopo neanche troppo recondito era un altro, cioè colpire la fiducia degli operatori dei mercati finanziari diffondendo il panico e se l’obiettivo fosse stato raggiunto, il terrorismo avrebbe vinto una partita importante, perché il tilt dei mercati finanziari si sarebbe portato dietro quello produttivo. Per fortuna le cose sono andate diversamente. Nonostante da quella data in poi si siano susseguite due guerre, in Afghanistan e in Iraq, e molti attentati, di cui l’ultimo particolarmente sanguinoso a Madrid, si è visto come i mercati abbiano continuato a funzionare senza particolari volatilità, metabolizzando rapidamente gli effetti negativi delle azioni terroristiche e le loro conseguenze. Qualora invece il terrorismo rovesciasse la sua strategia, e scegliesse come primo obiettivo di colpire direttamente le fonti di approvvigionamento del petrolio, abbandonando l’idea di colpire le economie occidentali attraverso la destabilizzazione dei mercati finanziari, o, come è più probabile, scegliesse di perseguirle entrambe, gli effetti potrebbero essere più consistenti rispetto a quanto accaduto finora. In tal caso, infatti, la strategia terroristica punterebbe direttamente al cuore del sistema economico dei paesi industrializzati, tentando di indebolirlo e, in prospettiva, di condizionarlo, attraverso la riduzione dell’offerta di greggio e parallelamente attraverso la destabilizzazione dei paesi arabi produttori, Arabia Saudita in testa. Questa prospettiva a tutt’oggi sembra però poco realistica, almeno se si sta alle valutazioni di coloro che seguono da vicino il mercato del petrolio. Le previsioni di tali operatori infatti sono registrate dall’andamento dei prezzi future del brent che almeno per ora non registra salti significativi rispetto ai prezzi spot (vds. figura sottostante). I trend delle suddette differenze appaiono stabili, e in questi primi giorni di gennaio il prezzo future è diminuito e quasi coincide con il prezzo spot. Nell’ultima rilevazione effettuata da chi parla il 4 gennaio 2005, i due prezzi differivano infatti di pochi centesimi (prezzo spot 39.21 e future a 6 mesi 39.28). Non bisogna tuttavia dimenticare che dopo l’11 settembre il prezzo del petrolio è aumentato di circa 10 $ in media attestandosi oggi sui 40/43 $. Certamente questo aumento non è tutto attribuibile all’evento terroristico e alle conseguenze belliche che vi hanno fatto seguito. Però, importanza della crescita cinese a parte, non si può certamente escludere una sua significativa influenza. Il che fa ritenere che gli operatori, pur non sottovalutando il pericolo a medio termine insito nella dichiarazione di Al Qaeda, tendano per il momento a non dare ad essa particolare importanza. E tale reazione può trovare una possibile spiegazione nel fatto che la minaccia, per essere efficace, dovrebbe poter contare sulla complicità dei paesi produttori, i quali, almeno per il momento, non sembrano molto propensi a rendersi complici del danneggiamento delle proprie strutture estrattive, e, ancora meno, a vedere i tecnici occidentali fare le valige perché direttamente minacciati. A conclusione di queste riflessioni, si può affermare che se la strategia del terrore non ha messo al tappeto l’economia occidentale, essa tuttavia qualche risultato lo ha ottenuto, sia in termini di rallentamento della sua crescita, sia in termini di maggiore prudenza degli investitori finanziari, sia in termini di aumento del prezzo del petrolio. Tutti effetti, questi, ai quali bisogna aggiungere l’aumento del costo della sicurezza e degli apparati militari. Infatti, come mostrato nella seguente tabella, a seguito degli attacchi terroristici sono state introdotte misure di sicurezza più stringenti per il controllo dei confini nazionali e, più in generale, del territorio in tutti i paesi; queste misure hanno portato a una crescita conseguente delle spese correlate, in percentuale rispetto al PIL (vds. tavola sottostante). Come è stato più volte sottolineato dal Presidente degli Stati Uniti, la guerra al terrorismo, perché di guerra si tratta, è in corso e richiede una efficiente organizzazione degli apparati di contrasto e mezzi adeguati a loro disposizione. Tutto ciò implica che l’occidente deve essere capace di affrontarne i costi e, quanto più sarà unito, tanto meno efficaci risulteranno le azioni contro la sua sicurezza, contro la sua economia, i suoi valori, le sue libertà conquistate a caro prezzo. Saranno in grado Stati Uniti ed Europa di giungere a un simile traguardo? La speranza è che essi lo siano, facendo appello alla saggezza di cui certo non sono privi. Approfondimenti Bibliografici M. BAGELLA, L.BECCHETTI, R.CICIRETTI - Market vs Analysts’ Reaction: the Effect of Aggregate and Firm Specific News Working Paper, 2004. M. BAGELLA, G. SUSINNO, R.CICIRETTI - Market Dynamics as a Consequence of Local Complementary and Global Substitutability in Agent’s Strategies, Working Paper, 2004. A. H.CHEN, T. F. SIEMS - The effects of terrorism on global capital markets, in European Journal of Political Economy, Volume 20, Issue 2, June 2004, pp 349-366 The economic consequences of Terror. R. ELDOR, R.MELNICK - Financial markets and terrorism, in European Journal of Political Economy, Volume 20, Issue 2, June 2004, pp 349-366 The economic consequences of Terror. V. FITZGERALD - Global financial information, compliance incentives and terrorist funding, in European Journal of Political Economy, Volume 20, Issue 2, June 2004, pp 349-366 The economic consequences of Terror. P. LENAIN, M.BONTURI, V. KOEN - The economic consequences of Terrorism, OECD Economic Department Working Papers n. 334, luglio 2002. A. YANXIANG GU, M.SCHINSKI - Patriotic Stock Repurchase: The two Weeks Following the 9-11 Attack, Review of Quantitative Finance and Accounting n.20,2003 Intervento del Ministro dell'Interno Onorevoli Colleghi Parlamentari e di Governo, Signor Direttore, Autorità, Funzionari, Ufficiali, abbiamo appena ascoltato due interventi di grande qualità, naturalmente molto diversi tra loro, ma entrambi ricchi di indicazioni, suggerimenti e spunti di riflessione. Voglio perciò ringraziare cordialmente il professor Bagella per l’approfondita analisi dei possibili effetti del terrorismo sui mercati finanziari. Un tema sempre più cruciale anche per chi svolge attività di intelligence e, dunque, ben scelto per introdurre, con una nota sostanzialmente positiva nelle conclusioni, il nuovo anno accademico della Scuola di addestramento del SISDe. E ringrazio, ancora una volta e con la stima di sempre, il Direttore del Servizio sia per le sue rapide ed incisive considerazioni sullo stato della sicurezza, sia per la dedizione, la competenza e lo spirito di collaborazione con cui, anche quest’anno, ha svolto il suo difficile e delicato compito. Il Prefetto Mori ci ha ricordato che per il nostro Paese il 2004 si è chiuso senza grandi traumi: in effetti, se ricordiamo le gravi preoccupazioni che segnarono la fine del 2003, dopo la strage di Nassiriya, questa constatazione risulta tutt’altro che secondaria. Come ho già avuto occasione di dire, se dovessi stilare un bilancio dell’attività svolta dai diversi settori del nostro sistema di sicurezza, credo proprio che le poste attive supererebbero nettamente quelle passive. I risultati confermano la bontà della strategia seguita dal Governo e in particolare dal Ministero dell’Interno, strategia che, come sapete, poggia su tre pilastri: controllo del territorio, coordinamento e prevenzione. Proseguiremo pertanto su questa via, senza mai perdere di vista l’evoluzione degli scenari e delle minacce alla nostra sicurezza: quelle di origine interna e quelle provenienti dal terrorismo internazionale di matrice islamica. Un’evoluzione non lineare e scarsamente prevedibile proprio per questo si tratta, comunque, di mutamenti complessi, che ci impongono di adeguare l’organizzazione e il funzionamento dei Servizi di informazione e sicurezza. E non possiamo attendere oltre, anche perché il Parlamento, a mio avviso giustamente, preme in questa direzione. Come ho detto qualche mese fa alla Camera dei Deputati, dobbiamo andare subito al cuore del problema e riformare i Servizi, superando il modello binario. Ribadisco che in un sistema politico-istituzionale ormai stabilmente aperto all’alternanza e dunque al ricambio delle classi dirigenti, non hanno più fondamento le vecchie perplessità sulla concentrazione dei poteri in un unico organismo di intelligence; perplessità datate sotto ogni profilo, compreso quello, per essere chiari, dell’affidabilità democratica dei Servizi. Oggi l’imperativo è nelle cose, ed è fare spazio, tutto lo spazio possibile, al più incisivo coordinamento delle attività di tutela della sicurezza dello Stato. Quasi trent’anni di esperienza ci hanno mostrato con grande chiarezza i difetti e le incongruenze del modello binario: interferenze reciproche, costose duplicazioni e ridondanze, spreco di risorse e, in definitiva, prevalenza della burocrazia sull’operatività. Sono lussi che non ci possiamo più permettere. Al contrario, oggi abbiamo più che mai bisogno di un’intelligence unitaria, compatta, flessibile ed efficiente. Peraltro, il tempo della Guerra Fredda è ormai finito, i contesti esterno ed interno sono profondamente mutati: è tempo che mutino i Servizi. Un Servizio unico a competenza generale, posto alle dipendenze del Presidente del Consiglio dei Ministri e articolato in branche specialistiche, garantirebbe molto meglio il coordinamento degli interventi ed eliminerebbe alla radice se non tutte, molte delle criticità che ho appena richiamato. L’attività informativa e di sicurezza è caratterizzata da un’inscindibile, oggettiva unitarietà, perché ogni azione risulta complementare ad altre di quello stesso settore od anche di settori diversi. L’esito dell’una alimenta le altre, in un processo circolare che poco tollera rigidi confini concettuali e, ancor meno, operativi. D’altra parte, sappiamo bene quanto sia aumentato negli ultimi decenni il campo degli interessi nazionali da tutelare: ciò impone una attività di ‘controspionaggio’ non più condotta secondo la vecchia logica militare, bensì secondo la logica della ‘controingerenza’ politica, economica e scientifica. Aggiungo, inoltre, che la minaccia potrebbe continuare ad evolversi in maniera tale da risultare sempre meno etichettabile secondo la consueta distinzione tra valenza interna e valenza internazionale. Questo è uno scenario che noi non possiamo sottovalutare, se è vero che organizzazioni terroristiche, diverse per cultura, dimensione e insediamento, individuano oggi nello Stato democratico un nemico comune che in quanto tale può essere combattuto anche insieme, unendo le forze di terrorismi diversi. Al momento si vedono, o si intravedono, solo accostamenti circospetti, magari celati in appelli alla comune lotta rivoluzionaria; ma diffidenze e timori e riserve ideologiche possono anche cadere, favorendo il superamento di consolidate distinzioni politico-ideologiche e degli stessi confini geografici. Se questo è vero, e io credo che sia vero, risulta anche evidente che in nessun modo la ‘reductio ad unum’ degli apparati di informazione e sicurezza potrebbe far perdere autonomo rilievo al compito che oggi la legge affida specificamente al SISDe, vale a dire il compito, come ha testualmente stabilito il legislatore, della “difesa dello Stato democratico e delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento”. Dico questo per sottolineare, una volta di più, che la mia unica preoccupazione è quella di coniugare una maggiore efficienza dell’intelligence con la tutela dei fondamentali valori costituzionali, senza alcun riguardo per il mantenimento di talune posizioni di potere. Il nuovo apparato unitario, come ho già detto, dovrebbe essere posto alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio che, a seconda dei casi, coinvolgerebbe i Ministri dell’Interno, della Difesa ma anche dell’Economia e delle Attività Produttive, e così via, in relazione alle rispettive attribuzioni e ai probabili obiettivi della minaccia. Per inciso, osservo che la recente riforma del sistema di intelligence degli Stati Uniti è orientata proprio in questo senso. Essa infatti ha istituito una nuova figura, il Direttore Nazionale per l’Intelligence, unico interlocutore del Presidente, con ampi poteri di gestione del budget, di alta direzione tecnica, di coordinamento e controllo su tutte le strutture militari e civili che svolgono compiti di raccolta e analisi informativa. Se si tiene presente che queste strutture, per limitarci alle principali, sono in tutto quindici, non si può fare a meno di considerare come, in quel contesto, la scelta – diciamo così, rubando il termine ai giuristi – ‘monista’ rappresenti un cambiamento radicale. E se è vero, come è vero, che la riforma americana ha incontrato resistenze assai forti, ciò significa pure che, alla fine, le ragioni a sostegno della formula unitaria sono risultate davvero consistenti e convincenti. Tornando a noi, Servizio unico significherebbe anche, voglio sottolinearlo, maggiore chiarezza nell’attribuzione delle responsabilità e, di conseguenza, maggiore incisività dei controlli: penso a quelli amministrativi, ma soprattutto a quelli politico-parlamentari. Ritengo infatti che in un moderno e ben equilibrato sistema di intelligence, al Parlamento deve essere riservato un ruolo-chiave, pur nel rispetto delle insopprimibili esigenze di riservatezza delle attività controllate. Il controllo del Parlamento e le sue valutazioni sull’efficacia degli apparati di informazione e sicurezza rappresentano per il Governo il più forte stimolo e il sostegno più certo nell’esercizio delle funzioni che la Costituzione gli riserva per la sicurezza dello Stato, supremo interesse nazionale. E proprio per esigenze di chiarezza nell’imputazione delle responsabilità, penso che gli interlocutori governativi del Parlamento debbano essere sempre i responsabili politici del Servizio, eventualmente assistiti dai vertici tecnici. L’esercizio responsabile del potere è uno dei fondamenti dello Stato democratico, così come il rispetto delle garanzie che la Costituzione e le leggi apprestano a tutela dei diritti di libertà. Ed è, se mi è consentito, per me un motivo di orgoglio registrare che, grazie alla professionalità ed al senso della misura di quanti operano nel nostro sistema di sicurezza, anche nell’anno passato l’esercizio di quei diritti è stato garantito in tutta, tutta, la sua portata democratica e costituzionale. Lo dicono, per citare un solo dato, le circa 7.000 manifestazioni di piazza svoltesi nel 2004, senza alcun incidente grave. Democrazia, libertà, legalità e sicurezza vanno difese tutte insieme ed ogni giorno. Questa è anche la missione del Servizio, questo è il tema di fondo dell’insegnamento impartito agli allievi della Scuola. A tutti loro, ai funzionari e al personale del SISDe auguro non solamente un buon 2005, ma anche buon lavoro. E come vuole la tradizione, dichiaro aperto l’Anno Accademico 2004-2005 della Scuola di addestramento del SISDe. |