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Il Forum

Alfredo MANTOVANO - Nicolò POLLARI - Giuseppe ROMA - Antonio GOLINI

FORUM:
Immigrazione fra dramma e risorsa


Nell’era della globalizzazione lo spazio si restringe, il tempo si contrae, i confini e le barriere doganali appaiono sempre più dei simboli di un passato di contrapposizione territoriale fuori dal tempo. Con una rapidità e libertà non immaginabili sino a qualche decennio fa, si trasferiscono da una parte all’altra del globo merci, informazioni, capitali e conoscenze. Per il bene uomo-lavoro tutto ciò sembra non valere. L’uomo, se tenta di spostarsi per raggiungere un nuovo posto di lavoro o residenza, deve tener conto dei filtri/barriere che vengono frapposti sia dal paese di origine che dallo stato dove intende emigrare. Nonostante ciò decine di milioni di persone, provenienti dalle zone più degradate, ogni anno cercano di trasferirsi, in modo sia legale che illegale, verso paesi dove il bene lavoro e le condizioni di vita sono maggiormente garantite.


Alfredo MANTOVANO
Nicolò POLLARI
Giuseppe ROMA
Antonio GOLINI


D. Secondo una recente stima dell’OIM (Organizzazione Mondiale per l’Immigrazione) vi sarebbero nel mondo circa 175 milioni di emigranti ‘regolari’, mentre gli ‘irregolari e/o clandestini’ ammonterebbero a circa 40 milioni. La maggior parte dei demografi prevede in futuro un ulteriore incremento del fenomeno (gli emigranti nel mondo potrebbero nel 2050 essere più di 300 milioni) e anche l’Europa ne sarà sicuramente coinvolta a seguito dell’allargamento dei confini di Schengen a Est e Sud-est. Ciò comporta implicazioni di natura demografica, economica, religiosa, sociale e politica. Vista l’impossibilità di arginare il fenomeno, non resta che la scelta fra ‘subire’ oppure ‘gestire’. Quali strumenti potrebbero rivelarsi più adeguati per incidere sui flussi?

Alfredo Mantovano - Va premesso che il carattere epocale del fenomeno dell’immigrazione, per come si configura oggi, impone un ripensamento di categorie e di schemi, e impone di individuare soluzioni condivise a livello internazionale, e in particolare, per ciò che ci riguarda più da vicino, a livello europeo, non si può incidere su di esso con politiche esclusivamente statuali. Si tratta, al tempo stesso, di una sfida e di una opportunità, oltre che per coloro che cercano di migliorare la propria condizione sociale ed economica cambiando luogo di residenza, anche e soprattutto per le società che li ricevono. Non è l’immigrazione in sé, ma l’immigrazione clandestina o irregolare (che spesso assorbe per intero l’attenzione) che rappresenta un pericolo, perché mina le regole che disciplinano così radicali cambiamenti di progetti di vita. Lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina deve continuare a essere contrastato anzitutto con una forte cooperazione fra gli Stati di destinazione e con un coinvolgimento sempre più stretto dei paesi attraversati dai traffici di migranti, che renda più difficile e costosa l’offerta delle organizzazioni criminali, e più competitiva sul piano economico e della sicurezza l’offerta dell’ingresso regolare. L’obiettivo ultimo deve essere la realizzazione di meccanismi di ingresso regolare meno tortuosi e più affidabili (in questo senso la legge Fini Bossi, il cui regolamento di attuazione è entrato da poco in vigore, rappresenta una forte spinta alla semplificazione), che presuppongano una formazione culturale e professionale già negli Stati di origine, e preparino a una integrazione nel tessuto sociale una volta giunti a destinazione, a partire da una conoscenza, sia pure di base, della nostra identità culturale e giuridica e da un riconoscimento dei diritti e dei doveri che dovranno essere osservati. L’adesione a una prospettiva di integrazione credibile può rappresentare, insieme con l’azione di contrasto delle organizzazioni criminali che sfruttano i traffici, lo strumento più efficace per ridurre l’attrattiva dei ‘viaggi della speranza’.

Nicolò Pollari - Acquisire compiuta consapevolezza del fenomeno, in termini prospettici, rappresenta il primo passo di ogni approccio metodologico finalizzato all’individuazione di strumenti che possano rivelarsi concretamente perseguibili ed efficaci.
Rappresenta quasi un dato di fatto, al riguardo, la tendenza ad un aumento significativo della popolazione nei paesi in via di sviluppo, da dove ha origine la maggior parte dei flussi migratori, e la circostanza che, almeno nel breve periodo, tale incremento non sarà accompagnato da una corrispondente crescita economica e sociale, a causa dell’incapacità dei relativi sistemi economici di assorbire l’aumento della manodopera e di offrire alla popolazione concrete garanzie di benessere. Il che consoliderà inevitabilmente la formazione di massicci movimenti di persone verso le regioni più ricche e accessibili del pianeta, talvolta lentamente, talaltra esplodendo in modo repentino.
Ne consegue la necessità, sempre più avvertita a livello internazionale, di regolamentare i flussi di migranti per consentirne la completa integrazione all’interno delle società di accoglienza, consapevoli delle ricadute del fenomeno migratorio su larga parte del tessuto sociale ed economico e della possibilità che l’immigrazione rappresenti una risposta, sia pure parziale, agli squilibri del mercato del lavoro. E ciò costituisce un problema la cui soluzione andrebbe razionalmente ricercata alla radice: strumento utile, in tal senso, può risultare la cooperazione allo sviluppo. Già da alcuni anni, infatti, i governi e le istituzioni internazionali stanno affrontando la questione migratoria in via preventiva, mediante l’attuazione di politiche di cooperazione volte a fungere da supporto allo sviluppo dei paesi meno avanzati e, allo stesso tempo, rendere possibile la permanenza dei potenziali migranti negli stessi paesi di origine.
Per rendere funzionante tale meccanismo, è senza dubbio necessario unire gli sforzi dando vita a iniziative e interventi capaci di favorire la creazione di condizioni che consentano di assorbire parte della manodopera locale, in modo da ridurre la pressione degli esodi di massa: affinché le politiche di cooperazione possano risultare validamente efficaci, occorre quindi che siano caratterizzate dalla multilateralità e che vengano coordinate in sede sovranazionale.
Uno dei cambiamenti più rilevanti degli ultimi anni nell’approccio alla cooperazione allo sviluppo è stato, infatti, quello che ha portato i governi a considerare le migrazioni non più come domestic problem ma come fenomeno globale, da affrontare attraverso una stretta collaborazione tra tutti i paesi interessati. In ambito europeo, la cooperazione allo sviluppo costituisce oggi una componente fondamentale della politica estera dell’Unione, rappresentando l’espressione dell’identità europea sul piano internazionale. L’aiuto offerto non si limita infatti alle azioni umanitarie a breve termine, ma si estende piuttosto alla elaborazione di progetti e alla realizzazione di programmi volti a potenziare l’economia dei suoi partners, a rendere questi paesi più autonomi e a migliorare in modo duraturo le condizioni di vita della popolazione locale.

Giuseppe Roma - L’Europa, a causa della bassa natalità e del progressivo invecchiamento della popolazione, ha sempre più bisogno di rigenerare la sua base demografica per far crescere la propria economia e l’immigrazione legale può diventare uno straordinario mezzo per promuovere lo sviluppo e la competitività del vecchio continente. Di conseguenza una tale questione va affrontata a livello continentale.
D’altronde, questa consapevolezza sembra essere ormai radicata anche nel corpo sociale europeo come conferma un’indagine di Eurobarometro dello scorso anno: infatti, il 56% dei cittadini europei è convinto che l’Europa abbia bisogno di lavoratori immigrati per far andare avanti alcuni settori della propria economia. La quota di cittadini italiani che sostiene questa tesi è in linea con la media europea, con il 55% di favorevoli.
Evidentemente non possiamo assolutamente permetterci di ‘subire’ il fenomeno dell’immigrazione, ma dobbiamo cercare il più possibile di governarlo, e per far questo è necessaria una strategia comune dell’Unione Europea capace di coordinare ed armonizzare le varie politiche nazionali in materia di soggiorno, ricongiungimento familiare, asilo e lotta al traffico di migranti.
In Italia, le politiche migratorie di questi ultimi anni hanno mostrato più ombre che luci. Si stima che oggi circa la metà degli immigrati regolarmente soggiornanti nel nostro Paese abbia alle spalle un passato di irregolarità o clandestinità, poi successivamente regolato attraverso sanatoria (solo l’ultima ha regolarizzato la posizione di oltre 630 mila stranieri). Questo dovrebbe portare ad una seria riflessione sull’inadeguatezza dell’apparato normativo italiano, ove le sanatorie sono finite per diventare il principale strumento di regolazione del fenomeno migratorio, mentre un asse portante della politica migratoria, e cioè la regolamentazione dei flussi, rischia di mostrarsi poco efficace. Da un lato non riesce a rispondere al fabbisogno effettivo di manodopera richiesto dalle imprese, provocando indirettamente un aumento delle sacche di lavoro sommerso; dall’altro può diventare una sorta di ‘sanatoria continua e strisciante’, occasione per regolarizzare lavoratori già presenti sul territorio nazionale.

Antonio Golini - Effettivamente, tutto lascia credere che nei prossimi decenni continueranno ad aversi importanti flussi migratori diretti dal sud verso il nord del mondo.
Da un lato, infatti, la dinamica demografica è tale da presentare nei prossimi 50 anni un incremento di circa un miliardo e mezzo nella popolazione in età lavorativa dei Paesi del sud e un decremento più o meno consistente (di più in paesi come Italia e Germania caratterizzati da lungo tempo da un eccesso di bassa fecondità) nei paesi del nord; dall’altro lato, la dinamica economica è tale da lasciare immutata, o addirittura crescente, la differenza di reddito fra i paesi poveri e quelli ricchi. In queste condizioni è da chiedersi non perché si abbiano flussi migratori, ma perché siano così poco consistenti. Il fatto è che l’emigrazione è costosa sia in termini monetari sia in termini psicologici e sociali e solo relativamente poche persone si sentono di affrontare questi costi.
In tale situazione riesce difficile immaginare come poter gestire efficacemente i flussi migratori da parte dei paesi di destinazione, tenendo conto infatti che nelle migrazioni sono sette gli attori che entrano in gioco: il paese di destinazione, la comunità di immigrati già insediata nel paese di destinazione, il paese di origine, la famiglia e la comunità del potenziale migrante, il migrante stesso, i trafficanti di manodopera e, infine, i paesi di destinazione vicini al nostro che lo influenzano attraverso le loro politiche migratorie. Pretendere quindi che si abbia una piena ed efficace gestione dei flussi migratori soltanto da parte di un paese di destinazione è chiaramente illusorio. Come già diffusamente approfondito in precedenza, i soli strumenti, che peraltro possono essere solo parzialmente efficaci, sono - a mio avviso - un più rigoroso controllo delle frontiere, accordi bi-e multilaterali con i paesi di origine e con i paesi di transito, una più efficace lotta contro i trafficanti di manodopera, un più efficace controllo nei confronti dei datori di lavoro che impiegano immigrati irregolari o clandestini.

D. Strettamente collegata al fenomeno dell’immigrazione è la diffusione in Europa della religione islamica che rischia di creare tensioni nei rapporti interetnici. La presenza musulmana, legata all’immigrazione, va affrontata esclusivamente in termini di gestione della politica migratoria oppure attraverso una strategia di integrazione religiosa e culturale?

Mantovano - L’Italia fa parte di un ‘continente culturale’ che si è definito per la comune religione cristiana e per la cultura che il cristianesimo ha prodotto incontrando le realtà che preesistevano: in particolare Roma, erede del lascito filosofico della Grecia classica e portatrice di una sensibilità giuridica evoluta, e l’arcipelago delle popolazioni dell’Europa centro-settentrionale, che si è integrato nell’impero romano trasformandolo e raccogliendone a sua volta l’eredità. A partire dalla Riforma di Lutero l’omogeneità religiosa, e quindi culturale, è venuta progressivamente attenuandosi, fino a essere oggi un sostrato, reale, ma non sempre percepito e accettato. Al culmine di questo percorso storico (che ha implicato fra l’altro una sorta di suicidio demografico nel nostro paese), anche a seguito del crollo politico della compagine socialcomunista nell’Europa orientale, si sono scatenati flussi migratori di proporzioni prima sconosciute. Oggi ci troviamo in una situazione di crescente multiculturalità, di fronte alla quale si pone la necessità, sostanzialmente nuova, di trovare modalità organizzative che tengano conto della presenza non residuale di minoranze portatrici di religioni e di culture diverse, tutelando adeguatamente la nostra identità. Premesso che la libertà religiosa è un diritto connesso con il rispetto della dignità di ogni persona, è indispensabile individuare criteri minimali di valutazione delle diverse culture che si affacciano nel nostro Paese, veicolate dai flussi migratori. Questo richiede uno sforzo non facile di rimozione di una mentalità relativistica diffusa; è necessario avere il coraggio di fare valutazioni e di affermare valori non negoziabili. Nel caso dell’Islam si potrebbe fare riferimento (a titolo di esempio fra tanti possibili) alla pari dignità fra uomini e donne e alla conseguente inaccettabilità di una serie di pratiche fra le quali la poligamia o l’infibulazione, oppure all’applicazione di norme sulla pena derivate direttamente dal Corano. Sul piano operativo, un primo aspetto su cui insistere è quello della necessità di una sempre maggiore conoscenza della realtà islamica, per superare una serie di equivoci e di ingenuità che purtroppo sono molto radicati nel nostro Paese: in particolare, l’applicazione all’Islam di connotati simili a quelli del Cattolicesimo. Questa operazione di transfert è favorita dalla definizione, assolutamente impropria se utilizzata per l’una e per l’altra confessione, di ‘religioni del libro’. Nel caso dell’Islam il Corano è un testo giuridico che sta a monte di tutto il fenomeno religioso, nel caso del Cattolicesimo la Bibbia è un testo il cui valore è determinato da un canone deciso dalla Chiesa, la cui interpretazione è riservata al Magistero. Inoltre non esiste nell’Islam un’autorità che possa stabilire un canone di ortodossia, definendo una netta demarcazione fra chi sia realmente islamico e chi no. Questo è un problema che si presenta nel momento in cui si immagina di stipulare accordi di tipo concordatario con realtà islamiche, poiché non esiste una gerarchia riconosciuta dalla base. Va ribadita l’importanza di un corretto modello di integrazione, che parta da presupposti apparentemente banali, ma che sfuggono quasi sistematicamente: se parliamo di migrazioni, e non di invasioni o colonizzazioni, introduciamo l’idea di persone che si allontanano da luoghi nei quali ritengono di non essere in condizione di continuare a vivere accettabilmente, per dirigersi verso paesi che diano migliori garanzie e maggiori opportunità. Ne consegue che il problema non è quello di trasformare l’Italia in un angolo di qualche martoriato Paese di religione islamica, rimuovendo crocifissi e presepi, ma di presentare la nostra realtà a chi viene da noi, proponendogliela come un’opzione finalmente libera (non va dimenticato che, ad esempio, nei paesi islamici vi è la pena di morte per chi si converte a un’altra confessione religiosa). Ai bambini immigrati di famiglia islamica non serve l’insegnamento dell’arabo o del Corano (cosa che le famiglie e le comunità possono e sanno fare benissimo), ma è indispensabile insegnare l’italiano e spiegare quali sono le caratteristiche del contesto sociale e culturale nel quale sono giunti. Per queste stesse ragioni credo che vadano create le migliori condizioni possibili per garantire un’accoglienza rispettosa, a cominciare dall’esclusione di campagne aggressive contro l’uso del velo.

Pollari - Un’efficace politica di cooperazione allo sviluppo, che voglia incidere adeguatamente sulle sempre crescenti migrazioni e sul divario economico fra Nord e Sud del mondo, dovrebbe utilizzare meglio le risorse disponibili, evitando gli sprechi, coordinare gli interventi tra i vari paesi, privilegiare i progetti di carattere sociale e sanitario, gli investimenti nei settori produttivi e ad alta intensità di manodopera, considerare la formazione professionale come un settore strategico fondamentale.
L’atteggiamento del nostro Paese, in particolare, nei confronti dell’immigrazione può fare leva su alcuni punti forti che possono fornire un contributo all’individuazione degli strumenti per una lungimirante gestione del fenomeno. L’Italia non ha un passato coloniale significativo, tale da pesare storicamente sui flussi migratori in atto, mentre - non dimentichiamolo - è stata paese di emigranti. D’altro canto, la società italiana di oggi è il risultato di profondi e recenti flussi migratori interni, talvolta ancora in atto, ed esiste nella coscienza degli italiani, per ragioni storiche e culturali, una lunga e tradizionale convivenza con numerose minoranze linguistiche e religiose, che si traduce in una radicata e diffusa disponibilità all’accoglienza.
Infine, posto che la scelta governativa in tale settore non può che avvenire nel rispetto degli indirizzi, delle regole e dei vincoli istituzionali sovraordinati (nel caso del nostro Paese, il quadro politico e regolamentare europeo), l’impegno a favore di una equilibrata società multiculturale da parte dell’Italia si ritiene possa continuare ad essere sostenuto attraverso una oculata politica ‘gestionale’, che regolamenti, in primo luogo, i flussi di ingresso, affrontando così i problemi della legalità e del mercato del lavoro, favorendo l’incontro della domanda con l’offerta.
Occorre, però, essere consapevoli che non vi sono ricette semplici per situazioni complesse e che le problematiche connesse alle politiche immigratorie vanno affrontate in tutti i loro aspetti, evitando che vengano a crearsi, come insegna la recente esperienza di altri paesi europei, ‘microcosmi del disagio’ forieri di tensioni e criticità sociali.

Roma - La maggioranza degli immigrati presenti oggi nei paesi dell’Unione Europea è di fede cristiana, mentre i musulmani rappresentano circa un terzo della popolazione immigrata. In Italia, la presenza islamica supera attualmente le 800 mila unità, valore che ci pone al terzo posto fra i Paesi dell’Unione alle spalle di Germania e Francia.
Francamente non mi sembra di vedere all’orizzonte pericoli di ‘scontro di civiltà’ in Italia, considerati soprattutto i tratti peculiari dell’immigrazione islamica nel nostro Paese.
Infatti, l’Italia si caratterizza da un lato, per una forte presenza, ormai consolidata, di musulmani provenienti da paesi islamici cosiddetti moderati (Marocco, Tunisia ed Egitto) ove vi è distinzione netta tra norma statale e norma religiosa; dall’altro, per la crescita rilevante di un Islam di provenienza europea, basato sul modello islamico turco i cui principi sono assai diversi da quelli più radicali. Di conseguenza, la grande maggioranza degli immigrati di religione islamica presente in Italia non ha trovato particolari difficoltà a modularsi sul sistema di valori occidentale.
Certo che le diversità religiose, per le implicazioni comportamentali e il mantenimento di una forte dimensione identitaria, ci costringono al confronto e dovremmo avere più strumenti di comprensione.
Si è trattato fin qui, invece, di un’integrazione spontanea, non supportata da politiche mirate ed interventi di indirizzo generale. Perché si creino i presupposti per una civile convivenza, ritengo che sia di fondamentale importanza mettere a punto una serie di politiche, con il coinvolgimento di attori pubblici e privati, atte a coinvolgere piuttosto che isolare. In altre parole, il modello di convivenza verso cui l’Italia dovrebbe tendere è quello della coesistenza di una pluralità di identità, di un multiculturalismo non conflittuale che dovrà trovare caratteristiche e contenuti di vivibilità soprattutto a livello locale. Naturalmente, vale per i musulmani quello che vale per tutti i cittadini. Non ci si può avvalere di diritti (come la libertà di culto) per attentare alla sicurezza della collettività. Ma questo riguarda piccole minoranze.

Golini - Certamente la forte crescita della presenza musulmana in Europa può creare tensioni, intolleranza e finanche rifiuto. Non credo, però, che sia possibile impedire a persone di fede musulmana di immigrare nel nostro Paese, anche alla luce delle considerazioni esposte nella domanda precedente. Ritengo che, da un lato, l’integrazione religiosa e culturale sia conditio sine qua non per una pacifica convivenza fra comunità immigrata e autoctoni, sviluppando nel contempo una maggiore conoscenza dell’alterità e dei valori di cui gli altri sono portatori. Dall’altro, però, penso che l’integrazione economico-professionale sia non meno importante. Se l’immigrato e la sua famiglia, infatti, sono ben sistemati dal punto di vista economico hanno tutto l’interesse a rimanere tranquillamente nel paese che li accoglie. Il loro paese di origine, poi, che usufruisce di importanti rimesse di denaro, ha tutto l’interesse a tenere rapporti pacifici con il paese di destinazione. Il paese di destinazione, a sua volta, si avvale economicamente dell’immigrato e intrattiene crescenti rapporti commerciali con quello di origine. Per completare l’analisi, la comunità autoctona, se ha percezione dell’apporto economico produttivo degli immigrati, non può che guardarli positivamente. La coesistenza passa quindi per una piena integrazione della prima generazione di immigrati e, ancor più, per quella della seconda generazione. Se fra gli immigrati ci sono elementi sovversivi, allora quello del loro controllo e della loro ‘gestione’ è affare dei servizi segreti e della polizia di stato.

D. La correlazione tra immigrazione e criminalità è una delle convinzioni più radicate nell’opinione pubblica europea. Secondo un recente sondaggio, il 75% circa degli italiani è convinto che l’incremento della presenza degli stranieri determini un aumento della delinquenza. Siamo in presenza di un pregiudizio etnico e culturale oppure è una paura basata su un rapporto ‘oggettivo’ con la realtà?

Mantovano - L’idea che l’immigrazione sia una sorta di male necessario risiede in alcuni luoghi comuni, tra i quali il più diffuso è quello che l’immigrazione porti con sé un aumento consistente della criminalità: in realtà ciò è ancora una volta il frutto della ‘sovrapposizione’ dell’immigrato clandestino con l’immigrato tout court e dell’assorbimento della figura del secondo nel primo, che esaurisce nei mass media tutto lo spazio dedicato a questo fenomeno. I dati a disposizione illustrano una cosa diversa: gli immigrati regolari delinquono (in percentuale) più o meno quanto i cittadini italiani, mentre i numeri elevati che colpiscono l’opinione pubblica riguardano detenuti nelle carceri che sono clandestini. Da ciò si evince che la propensione a delinquere non è dovuta all’appartenenza a etnie e a culture diverse, ma all’emarginazione e al disagio sociale cui è destinato inevitabilmente chi arriva in condizioni di clandestinità o, una volta esauriti i tempi della permanenza legale, decide di restare nell’ irregolarità.

Pollari - La configurazione del binomio criminalità/immigrazione rappresenta una delle tematiche oggi più dibattute, ma anche una delle più controverse.
Gli scenari derivanti dall’analisi del fenomeno migratorio rendono gravoso il compito di chi, orientato verso un’aleatoria dimensione predittiva, tenti nuovi approdi ed elabori coerenti e motivate ipotesi interpretative. Non sono sufficienti, infatti, i dati grezzi per spiegare e comprendere la realtà, tanto più che non sono rinvenibili dati di rilievo scientifico diretti a dimostrare l’esistenza di un reale collegamento tra ‘produzione criminale’ e presenza sempre più consistente di immigrati stranieri.
Si tratta di un fenomeno complesso che necessita di risposte lungimiranti - non ispirate ad una logica emergenziale ed emotiva - e, soprattutto, di una riflessione equilibrata, demistificando vecchi e nuovi stereotipi che identificano l’immigrato o gli spostamenti migratori come l’incipit di ogni male sociale. Pare, altresì, radicato in seno all’opinione pubblica il convincimento, intimamente influenzato dall’atavica diffidenza verso il ‘diverso’, secondo cui l’indice di presenza di immigrati in genere determina un accrescimento del tasso delinquenziale.
Si tratta di un’associazione di idee molto forte, quasi un luogo comune, che ingenera un crescente e diffuso allarme sociale legato al fenomeno migratorio. In alcuni segmenti dell’opinione pubblica dei paesi occidentali albergano, infatti, radicati pregiudizi determinati dalla superficiale tendenza a catalogare eticamente gli individui solo in base alla loro appartenenza etnica, sociale e religiosa.
Appare, però, troppo semplicistico sostenere che la nazionalità costituisca una variabile capace di spiegare la criminalità, etnicizzando, così, la devianza. Semmai può essere vero che chi più versa in condizioni di difficoltà - italiani come stranieri, ma è indubbio che tra questi la quota di immigrati clandestini sia spesso elevata - più è tentato a rinvenire i mezzi di sostentamento ricorrendo a modi anche non leciti.
Il che non deve esimere dal cercare di individuare spiegazioni ragionevoli di questo sentimento, supportato dalla circostanza che non di rado gli episodi di criminalità da parte di immigrati si verificano in aree dove è comunque latente il senso generale di perdita di sicurezza sociale e di fiducia nelle istituzioni dovuto soprattutto al calo del reddito, alla disoccupazione, alla crescita di fenomeni di criminalità locale, alla carenza di abitazioni e all’inconsistenza dei servizi pubblici. Inevitabile - in un certo senso – è quindi la reazione di chiusura e di difesa nei confronti dell’immigrato, conseguente alla sensazione d’insicurezza delle popolazioni residenti.
Con tale considerazione non intendiamo, d’altronde, disconoscere l’esistenza di una oggettiva correlazione statistica tra immigrazione clandestina e criminalità, dato che va, tuttavia, correttamente letto ed interpretato.
Già a monte, nel business dell’immigrazione clandestina, si muovono gruppi criminali di varie nazionalità, operanti secondo modalità peculiari di una vera e propria industria illegale. Le sinergie che si instaurano, poi, tra attività criminale organizzata e presenza di immigrazione clandestina rivelano drammaticamente la dimensione transnazionale assunta dal fenomeno, che costituisce un pericoloso volano per l’espansione di gruppi delinquenziali esteri ovvero la loro genesi all’interno del nostro Paese.
Indiscutibilmente, l’immigrazione clandestina costringe, proprio per la sua natura all’origine illegale, un crescente numero di immigrati a vivere ai margini della società, talvolta agevolandone l’arruolamento da parte della delinquenza e della criminalità organizzata.
In tale prospettiva, le politiche in ambito criminale e giudiziario non si ritiene possano da sole risolvere i problemi di sicurezza e legalità. Esse, infatti, devono essere supportate da articolate politiche sociali di integrazione che consentano di recuperare dall’area della marginalità e dell’esclusione coloro che sono vittime della precarietà, per creare le condizioni di un’effettiva tutela dei diritti e di una progressiva integrazione socio-politica.
Accanto a ciò, sarebbe opportuno prevedere campagne educative e mediatiche finalizzate ad una corretta informazione sulla realtà dei fatti, oltre alle auspicabili iniziative di scambio ed integrazione socio-culturale con il precipuo scopo di bandire pregiudizi e perversi meccanismi discriminatori.

Golini - Il problema della correlazione tra immigrazione e criminalità è reale, almeno nella percezione della popolazione. Non è facile però distinguere la percezione dalla realtà. Se da un lato, infatti, la popolazione carceraria è sempre più costituita da immigrati stranieri, c’è da tener presente che gli immigrati accusati di un qualche delitto possono avvalersi di strumenti di difesa meno efficienti di quelli di cui si avvalgono gli italiani e che gli immigrati irregolari o clandestini normalmente non hanno una dimora ben individuata e quindi sono trattenuti in carcere per mancanza di alternative.
Dall’altro lato, i media tendono a mettere in risalto molto di più gli episodi criminosi di cui sono protagonisti gli immigrati stranieri che non il contributo positivo, dal punto di vista economico-produttivo, che essi danno al paese.
Per ridurre nuovamente il sentimento di paura bisogna passare per una piena integrazione degli immigrati e per un azione dei media che sia molto più positiva di quanto sia adesso. Depurato di tutto, forse il problema della correlazione fra immigrazione e criminalità, pur esistente, sarebbe largamente ridotto.

Roma - Io non credo, comunque, che si debba parlare di paura. Oggi il sentimento prevalente nel corpo sociale italiano nei confronti dell’immigrazione è piuttosto di diffidenza. Da nostre recenti indagini, infatti, l’immigrazione sembrerebbe creare meno allarme sociale rispetto al passato: se qualche anno fa descrivevamo una società fortemente impaurita dal fenomeno, oggi la temperatura dell’insicurezza sociale si è andata progressivamente raffreddando, anche grazie all’implementazione di politiche sul territorio che hanno visto la partecipazione di una pluralità di soggetti pubblici e privati. Secondo una nostra recente indagine solo il 9,1% della popolazione italiana dichiara di avere molta paura dell’immigrazione a fronte di oltre un terzo (il 35,6%) che, invece, non ne ha affatto. E l’immigrazione, nel panorama delle paure degli italiani, non raggiunge la rilevanza che, invece, acquistano altri timori, come quelli per la criminalità organizzata o per gli attacchi terroristici.
E’ vero, pur tuttavia, che ancora oggi la maggior parte degli italiani ritiene valida l’equazione immigrazione uguale crescita della criminalità. E si tratta di una convinzione trasversale all’intero corpo sociale, che trova la sua massima affermazione nei grandi centri urbani (il 79,7% nei comuni con oltre 250.000 abitanti) e nel Nord-Est del paese (con il 78% dei consensi).
Anche se ritengo che non sia giusto legare a filo doppio l’immigrazione alla criminalità, c’è da dire che i dati disponibili non smentiscono del tutto tale equazione: basti pensare che nel 2002 le persone di cittadinanza straniera denunciate per le quali è iniziata l’azione penale sono 102.675 (pari al 19% del totale); inoltre, la popolazione straniera detenuta in Italia nel 2004 ammonta a 18.584 unità, pari al 32,9% del totale dei detenuti (nel 2003 erano il 29,5%).
Occorre però, come sopra delineato, fare dei distinguo. Gli immigrati che sono regolarmente presenti nel nostro paese fanno registrare un tasso di partecipazione all’attività illecita addirittura inferiore rispetto agli italiani, mentre gli irregolari sono decisamente più presenti sulla scena del crimine: questo dato sembrerebbe dimostrare che non è la condizione di immigrato di per sé ad essere correlata con la criminalità, quanto piuttosto lo stato di marginalità determinato dalla presenza irregolare.
Inoltre, i dati sulla criminalità vanno interpretati con la massima prudenza, poiché se è vero che gli immigrati sono maggiormente numerosi sulla scena del crimine, è anche vero che essi possiedono, come già rappresentato anche dal Prof. Golini, un sistema di tutele certamente inferiore a quello degli italiani. Inoltre, a parità di pena, gli stranieri usufruiscono in misura minore, rispetto agli italiani, delle misure alternative di detenzione. E’ utile ricordare che una sentenza della Corte di Cassazione Penale (la n. 30130 del 17 luglio 2003) ha affermato l’incompatibilità tra la condizione di clandestinità e il godimento delle misure alternative alla detenzione.

D. C’è una provata connessione statistica tra clandestinità e comportamenti criminali. Il problema dello staniero che nella sua condizione di irregolare delinque, deve essere affrontato in termini esclusivamente giuridici e di politica della sicurezza oppure esistono strumenti più adeguati?

Mantovano - Chi non è integrato nel tessuto sociale, e anzi è costretto a vivere di espedienti, con più facilità, dopo aver subito condizioni disumane per affrontare il viaggio verso il miraggio di una vita migliore, diviene preda delle organizzazioni criminali che operano nei nostri paesi, che approfittano di questa condizione di vulnerabilità e di oggettiva inferiorità. La moltiplicazione di queste realtà è il frutto di politiche poco lungimiranti e, al contempo, poco realiste, ma soprattutto altalenanti e confuse, che hanno favorito un accesso indiscriminato e non governato, che non ha saputo coniugare misure di contrasto alla clandestinità con misure di integrazione reale degli immigrati regolari, e hanno prodotto la necessità del ricorso continuo a misure di sanatoria di immigrati comunque presenti. Nei primi anni di questa legislatura ci siamo dedicati a ristabilire delle condizioni accettabili di presenza degli immigrati, circoscrivendo il più possibile l’area della clandestinità: abbiamo varato una profonda riforma della normativa, con l’approvazione della legge Fini Bossi, abbiamo fatto uscire dalla condizione di irregolarità e di lavoro in nero, restituendo speranza e diritti, a quasi 650.000 stranieri, avendo ereditato una situazione di illegalità stimata dalle fonti più attendibili in circa 800.000 unità. Ciò è avvenuto attraverso ‘offerta’ di adesione ad un ‘contratto’ di legalità che ha avuto un successo vasto perché basato su principi di civiltà, e gestito in maniera moderna ed efficiente dalla pubblica amministrazione: una regolarizzazione, basata sulla sussistenza di un rapporto di lavoro e su condizioni abitative dignitose, e non una semplice sanatoria, ancorata a incontrollabili promesse di lavoro e alla semplice presenza sul territorio, come avvenuto sempre in passato. Abbiamo soprattutto modificato le modalità di ingresso e di permanenza in Italia per lavoro, che sono la base per la stabilità della presenza di immigrati nel nostro Paese e l’unica via per costruire una reale integrazione. In tal modo si è creata un’interdipendenza tra il rapporto di lavoro e la disponibilità di un’abitazione decorosa, da un lato, e il permesso di soggiorno dall’altro, anticipando le idee che si stanno facendo strada a Bruxelles e che sono contenute in una proposta di direttiva europea in fase di avanzata discussione. Le possibilità di presenza in chiaro-scuro nel nostro Paese vanno dunque restringendosi, con l’interruzione del canale di arrivi attraverso vaghe promesse di inserimento lavorativo e il mantenimento di presenze di stranieri disoccupati sulla carta ma in realtà occupati ‘in nero’. A questi canali di marginalità sociale vanno sostituendosi modalità di immigrazione legale ‘virtuose’. La formazione, per esempio, nello Stato di origine di quanti intendono venire a lavorare in Italia, attraverso corsi organizzati da enti, associazioni e sindacati, che pongono a diretto contatto gli aspiranti all’ingresso con le aziende interessate all’assunzione, e forniscono - punto determinante per una corretta immigrazione - gli elementi di base di conoscenza della lingua italiana e delle nostre leggi. Si tratta ora di dare concretezza a quest’impostazione - che trarrà un forte impulso dalla recente entrata in vigore del regolamento di attuazione della legge Fini Bossi - e di completare il percorso d’integrazione attraverso modifiche che tocchino gli strumenti di partecipazione politica degli stranieri stabilmente presenti ed inseriti nel tessuto sociale. Sarà così possibile aggiornare e rivitalizzare le modalità di concessione della cittadinanza italiana, o anche disegnare un percorso graduale sulla strada dell’acquisizione della cittadinanza italiana che, consentendo l’espressione del voto a livello locale, qualifichi le fasi di inserimento nella comunità nazionale.

Pollari - Non è in dubbio il fatto che le attività criminali legate alla condizione di irregolare dello straniero necessitino di una strategia opportunamente modulata, che sappia coniugare la necessità di una politica di sicurezza con l’esigenza di tutela della dignità umana della popolazione migrante. Si tratta, in sostanza, di conciliare le ragioni della legalità e della difesa della collettività nazionale con quelle della solidarietà e della salvaguardia dei diritti universali dell’uomo: obiettivi che, in uno Stato di diritto, non possono che perseguirsi mediante strumenti giuridici.
In tale ambito rileva l’introduzione delle misure legislative più idonee a contrastare la migrazione illegale, con particolare riferimento all’istituzione di un sistema comune di informazione sui visti, allo sviluppo di una gestione integrata delle frontiere esterne, nonché all’adozione di un programma congiunto in materia di rimpatrio, che garantisca tempestività e sostenibilità.
La lotta contro l’immigrazione clandestina trova, poi, un ulteriore, importante concorso nel contrasto al fenomeno del ‘lavoro nero’, che funge da polo d’attrazione per gli immigrati irregolari favorendone lo sfruttamento e negando loro l’accesso ai servizi assistenziali e previdenziali. A tal proposito, è opportuno intervenire da un lato mediante strumenti tipici di pubblica sicurezza, quali misure volte a favorire la denuncia dello stato di soggezione dei clandestini, nonché la protezione nei confronti degli stessi familiari residenti nei Paesi d’origine (spesso minacciati), e dall’altro associandovi policies di assistenza sociale, ad esempio, promuovendo l’istituzione di nuovi Centri di permanenza temporanea e ammodernando quelli preesistenti in misura adeguata alla consistente popolazione di migranti.
In questo panorama di complesse misure dì intervento, un ruolo rilevante è assunto dall’intelligence, nella sua pregnante funzione di supporto alle scelte del decisore politico.
Risulta, infatti, essenziale poter disporre di uno strumento informativo che consenta una conoscenza e visibilità totale della situazione politica, etnica, religiosa, economico-sociale delle aree d’interesse all’esterno ed all’interno del territorio nazionale e che sia in grado di relazionarsi con omologhi organismi esteri, esprimendo, altresì, un’efficace capacità di proiezione difensiva.
Uno strumento che risulterà tanto più efficace quanto più saprà intensificare, a livello bilaterale e multilaterale, gli scambi informativi e operativi volti a favorire la cooperazione tra i Paesi d’origine, i Paesi di transito ed i Paesi destinatari dei flussi migratori.

Roma - Penso che, innanzitutto, sia importante distinguere tra immigrazione clandestina e immigrazione irregolare. Il clandestino è una persona che si trova sul territorio di un paese senza un regolare permesso di soggiorno, avendo attraversato la frontiera in maniera fraudolenta. L'irregolare è, invece, colui che pur essendo entrato legalmente in un paese, ha continuato a soggiornarvi con un permesso di soggiorno scaduto o non rinnovato. La condizione di clandestinità pone indubbiamente problemi di sicurezza in quanto sono numerosi i fattori di rischio. Innanzitutto, il rapporto con la criminalità organizzata che predispone il traffico, poi il fatto che il clandestino non ha nome, è uno sconosciuto in quanto la sua identità non è registrabile in alcun passaggio di tipo amministrativo. Le sue condizioni di eventuale impiego implicano, poi, una forte marginalità e precarietà, fattori di carattere sociale anch’essi ad elevato tasso di rischio rispetto alla sicurezza. Contro la clandestinità credo che si debba agire su due fronti: da un lato, è importante continuare con azioni di vigilanza e di controllo della sicurezza alle frontiere; dall’altro è necessario operare soprattutto laddove i flussi hanno origine, per provare a ridurre i cosiddetti push factors, ossia quei fattori che spingono milioni di persone ad abbandonare il proprio paese. Più pragmaticamente, un’accurata azione di intelligence e di prevenzione sul traffico di clandestini nei paesi di origine rappresenta certamente il fattore decisivo. Nel caso, invece, dell’immigrazione irregolare, penso che si debbano usare tutti i mezzi per evitare che l’immigrato legalmente soggiornante venga a trovarsi successivamente in una condizione di irregolarità, che rischia di creare un circolo vizioso che si conclude spesso nel reato e nel carcere. Credo che la cosa più importante sia non perdere le tracce ed i movimenti di un immigrato, anche nel caso in cui perda il lavoro. E’ meglio tenerlo legato ai centri per l’impiego piuttosto che prevedere provvedimenti più rigidi di allontanamento che, nelle attuali condizioni del mercato del lavoro, si potrebbero rilevare inefficaci.

Golini - Ritengo che, per varie ragioni e anche alla luce delle considerazioni sopra esposte, il flusso di immigrati irregolari e/o clandestini possa essere ridotto, ma sia ineliminabile. Questo significa che nel paese si accumulano inevitabilmente ondate di irregolari e/o clandestini che vanno a formare una popolazione crescente nel tempo, la quale può raggiungere la dimensione di centinaia di migliaia, o addirittura di milioni, di persone. In tal caso si intende chiaramente come non possano esserci strumenti esclusivamente giuridici o di politica della sicurezza in grado di fronteggiare una tale situazione. Il paese ha tre sole alternative: a) ignora tale popolazione, lasciandola nella irregolarità o nella clandestinità con tutti gli inconvenienti che questa situazione comporta sul mercato del lavoro e sul mercato della criminalità; b) espelle tale popolazione, ma quando essa raggiunge una dimensione assai consistente, questa è una soluzione impraticabile non solo sotto il profilo etico e politico ma anche sotto il profilo logistico; c) fa ricorso a sanatorie ricorrenti.
L’ultima soluzione è quella cui varie volte l’Italia, come già ricordato, ha fatto ricorso negli ultimi anni, con il vantaggio di regolarizzare manodopera altrimenti costretta al mercato nero del lavoro, ma con lo svantaggio di richiamare ulteriori irregolari speranzosi di una ulteriore futura regolarizzazione. Non credo, tuttavia, che esistano alternative reali e praticabili rispetto alle regolarizzazioni ricorrenti.

D. Il più efficace sistema di controllo dell’immigrazione clandestina è, paradossalmente, in mano alle organizzazioni criminali. Se i trafficanti ‘alzano’ i prezzi, i flussi di ‘clandestini’ diminuiscono; viceversa se il prezzo richiesto dai criminali si ‘abbassa’ si assiste ad una ripresa del fenomeno.
Costringere i trafficanti di esseri umani ad alzare i prezzi, rendendo più difficoltoso e, di conseguenza, ‘costoso’ il traffico di clandestini, potrebbe essere un sistema per rallentare il fenomeno della clandestinità?
Questa soluzione necessita – ovviamente – della creazione di una sorta di ‘spazio giuridico comune’ allargato ai paesi in cui operano le bande di trafficanti. Vi sono allo stato attuale le condizioni politiche perché questa ‘collaborazione internazionale’ si realizzi e con quali interessi si scontra?

Mantovano - Rendere competitiva l’offerta di percorsi regolari sia in termini di semplificazione procedurale sia di garanzia di integrazione nelle nostre società, come prospettiva di un reale miglioramento delle condizioni di vita, rappresenta una delle chiavi di volta per una corretta gestione del fenomeno. Ciò rende meno credibile l’offerta dei trafficanti: la lotta al traffico dei criminali, con sanzioni sempre più dure e incisive per i trafficanti, rende, d’altro canto, sempre più rischioso e, di conseguenza, più costosa l’offerta delle organizzazioni criminali. In vista di questi obiettivi, l’Italia ha proposto un’azione incisiva sul piano internazionale, ponendo al centro dell’agenda dell’Unione Europea la questione dell’immigrazione. Molto resta da fare, e talvolta le discussioni a Bruxelles sembrano non approdare a nulla di concreto, ma va gradualmente completandosi il disegno di una base giuridica e di sinergie operative comuni a livello europeo, che sono la pre-condizione per affrontare le sfide che l’immigrazione pone nel terzo millennio. Abbiamo dato un impulso straordinario ai rapporti con i Paesi di origine e di transito dell’immigrazione, archiviando le immagini degli sbarchi continui dopo aver definitivamente ‘chiuso’ la ‘rotta dei gommoni’ che le organizzazioni criminali internazionali utilizzavano dall’Albania per giungere in Puglia. Abbiamo azzerato l’arrivo delle ‘grandi carrette del mare’, inibendo, attraverso una stretta collaborazione con l’Egitto, l’ingresso nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. Da ultimo, stiamo intervenendo sempre più efficacemente su una spinta di grande impatto, quella proveniente dal Corno d’Africa e dall’Africa sub-sahariana, realizzando qualcosa che fino a qualche anno fa era impensabile, un ponte aereo di rimpatri immediati dalla Sicilia alla Libia, attraverso una lungimirante politica di affrancamento dall’embargo della Libia, che ci ha visto protagonisti in tutte le sedi internazionali. Abbiamo favorito l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, con strumenti giuridici aggiornati e misure d’intervento operativo, insieme a un incremento di uomini e mezzi dediti a questo versante, incidendo profondamente sul sistema delle espulsioni e dei trattenimenti nei Centri di permanenza.

Pollari - Anche il settore dei servizi di trasporto di persone in clandestinità, per quanto appartenente ad un ambito non legale, segue meccanismi gestionali di tipo economico e le normali logiche di mercato.
Così, è inevitabile che, nell’ipotesi di un’intensificazione dei controlli di polizia, crescendo il rischio di essere scoperti e perseguiti giudizialmente ed aggravandosi i costi della filiera produttiva (ad esempio, per itinerari in mare più lunghi ma sicuri, ovvero l’impiego di mezzi natanti più rapidi, nonché per la necessità di procurarsi maggiori coperture di pubblici funzionari corrotti), l’offerta di tali servizi non potrà che aumentarne il prezzo, sempre che gli accresciuti oneri derivanti dal contrasto non siano tali da mortificare l’iniziativa sotto il punto di vista del pareggio economico, rispetto alla tariffa teorica massima che i potenziali acquirenti sarebbero disposti a sborsare.
Tuttavia, appare abbastanza evidente che in tale mercato, di fronte ad una domanda massificata, l’offerta sia viceversa alquanto ridotta, come in una sorta di monopolio. A decidere il prezzo, pertanto, è effettivamente solo il venditore il quale, in presenza di un incremento indotto dal livello dei costi di gestione, sarà portato ad innalzare sempre di più le proprie ‘tariffe’, senza per questo incontrare una contrazione della domanda, composta da una pletora di ‘disperati’ disposti a tutto, anche ad indebitarsi, perfino ad ipotecare il valore della propria vita.
Conseguentemente appare improbabile attendersi risultati concreti nella contrazione dei flussi soltanto dall’attuazione di un modello che preveda, secondo un gioco economico, l’incremento dei fattori di rischio per i ‘trafficanti di uomini’ e la connessa lievitazione dei costi di trasferimento.
La natura transnazionale dei fenomeni migratori e le cause profonde dei flussi clandestini impongono, quindi, una policy di interventi complessi fondati sul dispiegamento di profonde sinergie tra i Paesi interessati, su un’effettiva armonizzazione delle singole legislazioni in materia, nonché su un impegno concreto, anche di natura economica, volto a determinare nei Paesi di origine dei flussi condizioni di vita e di sviluppo idonee a risolvere completamente, o quanto meno ad attenuare, la pressione migratoria.
L’Italia ha già proficuamente intrapreso, nei termini sopra descritti, la strada della collaborazione internazionale, che, tuttavia, nello specifico campo dell’intelligence, può essere condizionata dall’insorgere di inveterate diffidenze legate ad una condivisione dell’informazione che superi i ristretti ambiti dei rapporti bilaterali.
In questa prospettiva, quanto auspicato nell’ambito dell’Unione Europea e dell’Unione Africana, nella lotta al terrorismo, circa la promozione di fori di cooperazione multilaterali tra gli organismi di informazione e sicurezza dei vari Stati membri, può rappresentare un’opzione praticabile anche nell’altrettanto delicata materia dell’immigrazione clandestina.

Golini - Il contrasto rigoroso e continuo dei trafficanti di esseri umani è una operazione di salvaguardia dei diritti dell’uomo, in primo luogo, e una operazione contro la criminalità, in secondo luogo. Sebbene necessaria tale operazione non è però sufficiente a bloccare del tutto l’immigrazione clandestina.
C’è da considerare infatti che l’immigrazione clandestina coinvolge cinque attori: a) i trafficanti di manodopera, che su questi traffici speculano ignobilmente; b) i paesi di origine dei traffici, che possono non avere la capacità o la possibilità di bloccarli, ma che possono addirittura sostenerli - pur se in via non manifesta - specie quando sono affollati da decine di migliaia di persone che in quel paese transitano per raggiungere i paesi di destinazione (è il caso, ad esempio, del Messico, considerato paese di transito nei confronti degli Stati meridionali, i cui migranti vogliono arrivare nel nord America; o il caso della Libia, paese di transito per potenziali emigranti che provengono dall’Africa sub-sahariana); c) i paesi di destinazione, che possono non essere in grado di gestire al meglio i propri confini, specie quando sono molto estesi e quindi facilmente perforabili; d) i datori di lavoro dei paesi di destinazione, che hanno bisogno immediato di manodopera, possibilmente a bassi costi, e non sono quindi in grado di aspettare l’arrivo di migranti regolari; e) i migranti, disposti ad accettare qualsiasi sacrificio, e finanche il rischio della morte, pur di lasciare una situazione di disperazione e avere qualche speranza di sopravvivenza per se stessi e per i propri figli.

Roma - La creazione di uno spazio giuridico comune, che coinvolga anche i principali paesi da cui provengono gli immigrati, è certamente un evento auspicabile poiché rappresenterebbe il presupposto per un’efficace lotta alla criminalità organizzata e, di conseguenza, all’immigrazione clandestina.
Tuttavia, il percorso per raggiungere tale obiettivo risulta essere estremamente tortuoso poiché gli interessi in gioco sono molto alti. Esiste una forte pressione nei Paesi in via di sviluppo a non interrompere il flusso migratorio verso i paesi ricchi. Le rimesse inviate dai migranti rappresentano una delle principali fonti di reddito nazionale nei paesi di origine (per fare un esempio, in Marocco si stima che le rimesse ammontino a ben due terzi del totale delle entrate finanziarie). Pensiamo che dall’Italia, nel 2003, il reale flusso di denaro in uscita, considerando non solo i canali formali come le banche, ma anche altri canali regolari (ad esempio i servizi di money transfer) e le vie informali, avrebbe raggiunto, secondo il Ministero del Tesoro, i 6 miliardi di euro. E’ chiaro, allora, che il ricatto delle organizzazioni criminali che compiono il traffico di persone è molto forte ed opera anche in un contesto spesso poco presidiato dalle istituzioni dei paesi di destinazione dei flussi.
‘Alzare il prezzo’ dei trasferimenti è certamente una delle soluzioni per scoraggiare il traffico, ma il modo più concreto con cui questa azione può avvenire è colpendo la criminalità organizzata italiana, che fa certamente da ricevimento alle organizzazioni del traffico. Non è un caso che i luoghi di sbarco mutino a seconda degli accordi fra le diverse organizzazioni criminali transnazionali. La lotta per la legalità nel Mezzogiorno d’Italia fa certamente parte di una strategia complessa per togliere terreno di coltura al traffico di migranti, al cui interno può trovare posto anche la mobilità del terrorismo internazionale.





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