GNOSIS
Rivista italiana
diintelligence
Agenzia Informazioni
e Sicurezza Interna
» ABBONAMENTI

» CONTATTI

» DIREZIONE

» AISI





» INDICE AUTORI

Italiano Tutte le lingue Cerca i titoli o i testi con
GNOSIS 2/2005
STORIE DI CASA NOSTRA

"E' turnat' don Peppe"
Una storia di camorra


articolo redazionale

Il breve racconto, che non ha alcuna velleità letteraria o lessicale, raccoglie, in un impianto di pura fantasia, alcuni segni distintivi della Camorra, recuperati dalla memoria anticrimine ed integrati con le emergenti manifestazioni del complesso scenario criminale campano.
Si propone la danza di voci e ombre di una Napoli camorrista che non rappresenta tout court la società partenopea. Tuttavia fa parte della sua storia, mutuandone aspetti agiografici e derive anomiche. Dietro il sipario di ciascun attore si riconoscono le mille possibilità dell’essere camorrista, l’evoluzione del crimine e la progressiva divaricazione tra i modelli
, tradizionale - legato al ‘territorio socio-economico’ in chiave strategica - e moderno - votato all’eccesso ed all’ipertrofia della violenza banditesca e della competitività. Sullo sfondo si staglia una Napoli poliedrica, evocazione delle sceneggiate e dei drammi intimi, ricca di suggestioni e di emozioni. Una città che custodisce segrete ansie, malesseri e desideri di riscossa.


da www.sibcol.com//images/cardneap

E’ turnat don Peppe!

- Guaglio’, è turnate don Peppe ! -
Le vie del Pallonetto sembrano sciogliersi alle grida che dai balconi si moltiplicano e rotolano tra le porte legnose e fradice dei bassi.
- E’ sciut! E’ sciut ! -
E’ uscito don Peppe dal carcere, dopo venti anni di sbarre. Da quelle linee di ferro il mare sembrava tagliato a strisce. Passava solo l’afra salsedine che ripeteva negli occhi la magia della risacca a Posillipo.
L’eco dei passi nei vicoli diventa chiasso, calpestio di folla. Verrebbe da chiedersi dove mai si fosse nascosta un istante prima tutta quella gente.
A metterla in riga e anche uno sull’altro non entrerebbe in quella geometria che più che architettura sa di miracolo.
- Don Peppe, o’ cafè...-
- Cettina bella, siete la stessa, affascinante e camurrista ! -
Per strada, con la borsa di panno accanto ai piedi, Peppino Cucuzza prende il caffè e si sente rinato.
L’odore dei vicoli riempie i polmoni, accudisce al cuore e culla i pensieri.
Anche quel vociare è amico, familiare, così diverso dai sussurri taglienti condivisi nell’ora d’aria, che dopo qualche anno non si sentivano nemmeno più.
E’ tutto un chiamarlo, un festoso girotondo intorno ai suoi stracci ormai fuori moda.
Anche le sue basette sono troppo lunghe, stonano in mezzo al giovanile taglio indiano che sfreccia su rumorosi motorini.
- Peppiniello caro! -
Flessuoso ed ambiguo il suo compare Pasquale s’avvicina con ostentata sicumera.
- Finalmente sei fuori... ti trovo bene... abbiamo fatto le cose per bene, non vi è mancato nulla...-
Le parole scivolano dal suo labbro leporino. Maledetto da Dio, dicevano i nemici. Le parole sembravano sibilare nell’aria. Era chiamato per questo “O’ Piton”, così da sintetizzare la sua stazza corpulenta, il suo carattere ‘doppio’ e l’abilità di togliersi dai guai. Magari a danno di qualche amico.
- Dopo, Pascà, aropp! -
Dopo. Non ora. Dopo. Ora a casa, tra le mura che non ricorda più.
Avverte urgente il desiderio di ritrovare le sue pareti, i passi della moglie, l’odore di tana che si perde nelle deboli maglie della memoria.
- Peppiniè, aropp, ma non assai dopo. Dobbiamo parlare.-
Pasquale Ciofeca si allontana ciondolando. Il suo zigzagare lascia una scia di serpe sull’asfalto.
Don Peppe s’avvia al suo vicolo.
Pensa ai figli.
Li aveva lasciati piccirilli, ora erano guaglioni.
I primi anni li vedeva spesso. Per lui era un dolore, una rasaiata al cuore. Peggio, però, fu il diradarsi delle visite, sino a guardarli solo in fotografia, che Mena portava al colloquio come una reliquia.
Filomena.
Sembrava Sofia Loren. Il suo corpo parlava, anzi cantava per le ‘straduccie’ di Monte di Dio. Profumava di mare, quando la pioggia scuote l’onda ed il cielo si spezza negli abissi. La salsedine brillava di sole ed i baci non trattenevano la furia di tempeste agrodolci. Amava perdersi in quelle emozioni ondivaghe.
I suoi capelli s’imbiancavano e lui malediva gli sbirri, gli infami e la malasorte che l’avevano inchiodato in quel posto fetente che è Poggioreale.
- Filome’ –
Non si accorge di urlare. La rabbia dei pensieri veste la delicata, malinconica gioia di poterla stringere.
Corregge il timbro della voce, piegandosi in un sotteso invito...
- Filome’ –
- Perchè non mi hai detto che uscivi prima? Mi sarei ‘appreparata’, Vergine Santa, sono indecente...-
- Filome’ lascia fotte, ven’accà, damm nu vas..
L’abbraccio di Filomena ha il peso di vent’anni di fatiche, di solitudine, di rabbia e pianti senza lacrime.
- E’ creatur a do’ stann?-
- Peppì, Vituccio ti ha aspettato, ma poi è dovuto partire per il Brasile! Sai, sta con Ciro, quello dei “Cavatielli”. Sta bene. Ha una posizione. E’ contento. Gigino invece sta a Modena. Tu lo sai. Lui è particolare. Non ne vuole sapere di Napoli. Se fosse per lui ...-
Giuseppe la interrompe.
Ha studiato, Luigino. Mentre lui faceva ‘le sigarette’ il figlio studiava. Fino alla mattina, certe volte, e quando stanco morto lo chiamava “Gigì, aiutami a papà, prendi sta cascia e sigarette, mettila là sotto”, lui faceva finta di non sentire. ‘Dopo. Dopo papà..’ e in lui si leggeva la vergogna.
Ciruzzo no. Sapeva il fatto suo. Voleva andare con lui, in mezzo al mare. Era una festa salire sul motoscafo blu, che faceva invidia a tutti gli entrobordi di Napoli.
Come urlava contro i “canarini” che lo rincorrevano, all’ombra del Maschio Angioino, vicino agli scogli di Mergellina, sotto gli occhi indolenti ed insolenti di Santa Lucia !
“Sfaccimm, senzapall, nun ci pigliat, marameo cinque a uno..”
Strafottente, anche per un contrabbandiere come lui.
Pure ai parenti ostentava la voglia di ripetere le orme paterne.
- Che vuoi fare da grande?-
- E’ sigaret, come a patem!-
Peppe ne gioiva, godendone con gli amici, come se fosse la mascotte della ‘paranza’.
Poi, con il tempo, ripensandoci, avrebbe voluto dargli qualche schiaffone in più.
Non troppi, però. Perché non assomigliasse al fratello, che sembrava il figlio di un maresciallo!
Peppe si rigira nella casa. Non ricordava quanto fosse piccola. I mobili sono gli stessi. Anche i quadri della Vergine di Pompei, memoria del viaggio di nozze. Le macchie di umidità lambiscono i piedi santi, non osano oltraggiare la figura. Sotto l’effigie, in bilico su di una piccola mensola di truciolato, lo stoppino navigava nella tazza colma d’olio. La breve fiammella illumina a tratti. L’ombra sul ritratto sembra scuoterlo in un’intermittente processione domestica.
Lo sguardo equoreo racchiude in un istante il suo mondo.
Mondo parco. Essenziale. Talvolta troppo stretto.
Per questo adorava il mare, l’immensità dell’orizzonte, la brezza sul viso, la velocità dello scafo che allungava la sua vita, la sua casa, le sue braccia, la sua speranza.
Chiude gli occhi.
Sussurra tra la rabbia e la nostalgia:
- Per questo ho fatto vent’anni di galera? -
La porta si chiude .
Filomena accoglie la sua ansia di uomo.
- Peppiniè, avete un momentino per me? -
Il passaggio dal tu al voi è segno di rispetto o di fregatura.
- Peppiniè, allora dite, come vi sentite? -
- Come un asino in miezz ai suoni. -
- Eh, ma qui la musica è cambiata! -
- Che mi volevate dire? -
- O cafè prima di tutto. – sorseggia, intrecciando il labbro sull’orlo canceroso della tazzina. – Poi qualche novità. A “Scigna” è morta. Pure “O Casalese”. O almeno accussì si dice. Era fuori e se lo so’ fatto stessi i suoi. Quando ti fanno i tuoi manco il cadavere trovi. Alfino e Gelisso si sono venduti pure l’anima. Gli amici di un tempo sono meno amici. I nemici, invece, rimangono nemici. Ora Napoli è na’ giostra. Pentiti, confidenti, magistrati, carabinieri, è n’ammuina. Non si fanno più sigarette. Ora la droga monta la testa. Il tempo di girarti indietro e qualcuno ti fotte il giro. Pensi di essere arrivato, ma è un gioco dell’oca. Torni indietro. Basta un arresto. Un nipote figl e ‘n trocchia, un guaglione cresciuto in fretta.. –
La lingua insegue le labbra per inumidirle.
Poi continua.
- ma voi queste cose le sapete meglio di me, che nel carcere si è più aggiornati. Per avere le novità sarebbe tanto meglio mettere l’orecchio là dint. Voi eravate un pezzo grosso. Vi stimavano tutti e vi vogliamo bene ancora ora -
- Pascà, vai dritto, Pascà. Tu eri nu criaturiello quando la guerra ha spazzato via i quartieri. Ho sentito. Ho letto. Il carcere non isola. Amplifica. Almeno per quelli che non hanno il 41 bis e continuano a vivere la camorra. Come si passa il tempo tra le quattro mura? A sapere cosa accade fuori. Quando entra uno nuovo, c’è da far nottate a parlare. In vent’anni quanti sono entrati e usciti! Rientrati e riusciti! Prima si pensava che se uno usciva tropp ambress fosse un confidente o un pentito. Mo’ si pensa ch’è nu dritto, uno che paga o che ha avuto in ciorte un garantista!
Inoltre, il carcere è la culla della camorra. Accudisce, affratella, addestra. La nutre di latte materno.
So’ bene, quindi, che sei cresciuto. A cuore aperto, ti confesso che non pensavo proprio. Ci diamo del tu, perchè tra noi è meglio non fare sto’ teatro del voi.-
- E’ vero. Stavo fuori quando c’era la guerra. Ero giovane, ma mai ‘nu guaglione e’ paranziell’. Voi.. tu hai iniziato con le sigarette, eri il migliore. Ci affacciavamo a Mergellina per vedere Peppino do’ Scalone. Ricordo un cristiano che spesso prendeva il caffè accanto a me, ‘sulla piazzetta’. Al bar ‘A mare” (t’arricuord? Era di Gennariello, il prestanome dei Sabatie’). Non si perdeva na’ giostra delle tue. Diceva: “e bravo a Peppino, ci ha fottuto n’ata’ vota”. Era il capo delle guardie. Non ve ne voleva. Vi avrebbe offerto il caffè. L’ho riconosciuto una volta che mi portarono in caserma. Hai capito a’ chist! Mi sono detto. Con me è stato più duro. Io non facevo parte della leggenda. Dopo che hanno ucciso tuo fratello hai deciso che le sigarette non bastavano. Ti si’ ncazzato! Quando ti vedevano i cutoliani tremmavvano. Eravate... eri al vertice..E ti porto rispetto. Anche se vent’anni sono tanti. Anche per chi ha dovuto lavorare fuori... tempi difficili.. diversi... -
- Pascà sentimi bene. Non sono fesso. Quelli come me hanno la camorra scritta sulla pelle. Abbiamo vissuto tempi duri... e belli, ricordandoli aropp! Prima di uscire ho pensato. Quelli come me appena usciti che possono fare? Chi siamo? Che ci mettiamo a fare? Due sono le possibilità. Una, ed è quello che ti chiedo, è sentire i buoni amici e sapere se c’è qualche lavoro ‘bbuono’ da fare, fuori dell’ammuina. Accucchiare quattro soldi per la famiglia e la vecchiaia. La seconda è andare all’angolo di vent’anni fa, come i cani, e pisciare tanto, per far capire ai cani che Peppe è tornato, e nessuno piscia più in quel posto. L’hanno fatto in tanti. Soprattutto quelli che sono stati in carcere qualche anno e non hanno perso il controllo delle briglie. Per questo scoppiano le guerre. E’ sempre la stessa tarantella. Chi esce vuole il suo posto. Chi sta fuori non vuole perdere l’occasione di crescere e di fare di capa sua.-
- Tu che vuoi fare?-
- Pascà, qui tutto è cambiato. Io ho combattuto contro Cutolo. Non era un fesso. E’ stato il più grande camorrista. C’aveva capa, o professor’. Tangeri aveva chiuso battenti e Napoli era diventato il centro delle sigarette. C’erano più casse che abitanti, e già allora eravamo tanti i napoletani, troppi. C’erano i marsigliesi ed i siciliani. Finiva che loro s’arricchivano e noi scaricavamo. Prendevamo le briciole. No. Il professore non ci sta. E fa un casino. Ma bene, bene assai. Perchè aveva creato una sola camorra, aveva fatto nu purpo, ca capa grossa e tanti di quei tentacoli da fare notte a mezzogiorno. Io ero con don Michele. Si era affratellato con i siciliani, era un uomo d’onore. Abbiamo imparato tante cose, perchè quando non c’era nulla a fa’, andavamo a sentire i boss palermitani latitanti o sorvegliati in provincia. Che figli n’trocchia. Erano diversi. Erano una cosa sola, a Palermo come a Catania. Noi non capivamo ancora. I siciliani ci prendevano con loro, nella loro organizzazione. Ma solo Cutolo voleva essere come loro. Voleva fare un sistema unico. Imparava dai nemici. Accussì voleva fare o’ professore. Aveva uomini giovani e assatanati a Salerno, Avellino, Benevento, Caserta, sino in Puglia e in Calabria. Lo adoravano. Era come nu re! Nu Dio! Giovani con le pezze erano diventati principini. Soprattutto a tutti era data la speranza d’essere qualcuno. Forti non solo per sè ma per la Nuova Camorra Organizzata. Si sentiva parlare di riti, di Bella Società Riformata, di gradi e promozioni. Era na’ cosa seria. Un’azienda. Io stavo dall’altra parte. Contro. Perchè stavo con don Michele. Perchè m’hanno acciso o’ frate, Carmelo buonanima.
Ho dormito accavallato notte e giorno, col ferro alla cintura. Ho ucciso. Tanto. Sino a Eboli, Battipaglia e Foggia. Ovunque. Per don Michele, per Carminuccio, per don Antonio il casalese. Ma mentre noi eravamo stretti dalla paura e dalla voglia di non morire, chilli erano stretti in una camicia, come il collo al petto.-
- Altri tempi... -
- Sì altri tempi. Ma da allora Napoli è cambiata. Prima le sigarette. Ora la droga. Tanta. Servivano soldi. Armi e consenso. Quelli si comprano solo con i dinar’. Poi il terremoto. Le opere. I cutoliani che si fottevano ogni cosa. Ed allora tutti imprenditori. O almeno, tutti avevano le ditte che dovevano lavorare. Quanti soldi! A palate! Senza fatica. Quando hanno perso i cutoliani, tutto il ben di Dio che avevano l’abbiamo fottuto noi. Loro, perchè io intanto andavo in prigione e ci restavo assai. Ma so bene quanto rendevano gli appalti. Senza sudare, a tavolino, spartendo come buoni amici la torta, noi, quelli con la cravatta ed i sorrisi stampati e gli stessi imprenditori. Che anche a loro correggevamo le cifre, così che si sono rifatti della camorra da pagare. Età dell’oro. Macchina da soldi. Per tutti. Ti impongo l’estorsione. Ti ripago con la sovraffatturazione. Tu porti i lavori in zona. Ti ripago con un regalo e con la buona pubblicità, così magari ti eleggono pure. Ehi che balera! Tu lo sai, perché in quest’orchestra hai iniziato a suonare. -
- Siete diventato filosofo. -
- No. Mi sento nu chiocher, nu fesso. Vent’anni di carcere. M’hanno sequestrato tutti i beni. M’hanno lasciato senza tasche. Perché il male non è il carcere, è quando quei cornuti, carabinieri e magistrati, ti tolgono tutto. So’ rimasto povero come n’albero di Natale l’8 gennaio. Come la culla di nostro Signore alla vigilia. -
- Io non dimentico che mi avete salvato la vita, un tempo... -
- Tu hai dato da campare alla mia famiglia. Quando mi hanno sequestrato tutto. Hai fatto studiare Gigino mio. -
- Comunque, Peppì, vi sono riconoscente. -
- La riconoscenza è più pesante della paura. Nel bicchiere sale la paura. Anche se giri e rigiri la cucchiaia int’ o vitro, s’ammeschia per cinque minuti, ma sempre la paura t’abbiv pe’ prima. -
- Che significa? -
- Che non devi aver paura...-
Pasquale sorride. Ghigno d’attesa. Nel suo bicchiere sente solo il gusto afro della paura.
Peppino, intanto, scorre la sua Napoli. Vuole ritrovarla. Ritrovarsi. Via Toledo, come una ferita che sputa sangue rappreso ai suoi lati, nella rete di vicoli spagnoli, dove veleggiano le lenzuola e sembrano braccia alte nel cielo di prigionieri in cerca di una sverza di luce. Pallonetto, a raccogliere le stelle di Monte di Dio, sentinella povera di San Francesco, occhi smunti su Piazza Plebiscito. Chiaia, da una parte vecchia signora aristocratica. Dall’altra avvenente popolana, brillante come una prostituta. Tra pizzerie di legno con il menu di pergamena e piccole stamberghe con il piano di vecchio marmo, dove la pizza si mangia con le mani, spesso sulla soglia, in piedi come in pellegrinaggio. Mergellina, che sfoga il buio di gallerie, verso orizzonti senza angoli. La rabbia di Spaccanapoli, che sembra segnare una trincea. In realtà non spezza. Conserva distrattamente i lembi della città tra le dita di tetti distratti, sulle rive opposte di cemento.
A Montecalvario riconosce i passi giovanili, le canzoni, le sceneggiate contrabbandiere, gli amici, i nemici da abbattere, le vedove da consolare, le madri un tempo silenziose, chiuse nel dignitoso toreare dello scialle sulle spalle (così diverse dalle donne camorriste di oggi, querule e volgari, ostentata camorra che non c’è).
Odia il ponte Napoleonico che scivola sulle teste dei quartieri, tra Capodimonte e Toledo, oltraggio ai vicoli, nevrosi della fretta, che avrebbe partorito scugnizzi cinetici, pallidi, cocainomani.
Largo dei Vergini, piazza Sanità apparata a festa, pe lu’ Munacone, festa cui non rinunciava mai. Sino a sognarla, a Poggioreale. Tavoli imbanditi, ogni ben di Dio, la musica e le risate. I balli, il vino ed i fianchi di Filomena che sembravano accogliere i pensieri e le speranze malate di un giovane camorrista.
Ah, Napoli ! Confonde i Palazzi e i bassi. Come uno specchio deforme che accomuna tutto il paesaggio cittadino. Lo rende unico, come un abbraccio d’amore che ti fa male.
Le pietre, anche quelle più sporche, anche quelle ancora visibilmente provate dal terremoto, proprio tutte raccontano la storia antica di una capitale, della reggia e della corte dei miracoli, di Pulcinella e del sorriso amaro della gente che vuole annegare il destino in una risata. Senza che per questo il destino possa mutare. Puoi provare a fregarlo per un po’. Spassandotela. Illudendoti di aver vinto (contro di chi e che cosa non si sa).
E’ la solare ansia napoletana.
Che rende Napoli una fabbrica. Ciò che sui giornali urlano sfruttamento o malaffare, è per Peppino e per quelli come lui (e non solo) l’ingegnosità di un popolo febbrile.
Negli scantinati, nei bassi, sinanche nelle cantine tra due palazzi, si improvvisano botteghe: borse, cinte, giocattoli, transistor, audiocassette, ogni cosa possa aver mercato.
Si rende industriale ogni voglia, ogni commercio. Prima in modo autarchico. Con imprese familiari. Per i napoletani che vogliono primizie a basso costo. O per i turisti cui rifilare anche qualche ‘paccotto’ (“volevate comprare un televisore a diecimila lire? Allora siete fesso e disonesto voi, non mariuolo io!”). Poi esportando nel resto d’Italia ed all’estero. Magari seguendo gli stessi canali del contrabbando.
Contrabbando...
Faceva parte di Napoli. Ora non c’è più nulla.

da www.larticolo.it


E’ cambiato il paesaggio. Al tavolino della megera che già conosceva quale sigarette dare, che portava con la sua sporta le Marlboro o le Muratti anche negli uffici (e che uffici!), oggi si sostituisce il guagliuncello che spaccia, che se capita ti rapina il cellulare. Non importa se lo prende ad un piccirillo come a’ iss!
Un mondo nel mondo. Come i cerchi danteschi. Non sapendo mai se ti trovi all’Inferno o al Paradiso.
Un enclave colorito. Nessuno, o forse pochi, sbirciano dietro la maschera.
Peppino ama la sua Napoli, la sua Camorra, che le sta attaccata come nu’ piccirill che s’astringe a gonna da mamma. Ch’ella o’ ietta, chill strenge chiù assai.
- Compariell, finalmente! Giuà, comm stai? -
- Sto’ bbuon! Ormai è un anno che sono uscito. Da quella fetenzia. -
Con Giovanni ha diviso la cella per cinque anni. Hanno parlato assai. Che se non si parla, sembra che il tempo non passi mai. Ascoltavano la radio. Minacciava stragi ogni domenica, bestemmiava Maradona e chi l’aveva drogato, piangeva la squadra che perdeva, che non riusciva a vendicare la sua terra contro le città del benessere del Nord.
Si ritrovano sotto il Vesuvio, lava rappresa di secoli, terrore addomesticato che il mostro meraviglioso si svegli da un momento all’altro e mandi tutta all’area.
Con Giovanni hanno combattuto la stessa guerra. Dalla stessa parte.
- Giuà ! Ma chist che bonn a nuie? Ma che è camorra questa? -
- Peppi’, a Napoli ci sono stati sempre due gruoss e tanti piccirill che fanno la ruota. Na vota pe’ chist. Nata vota pe’ chill. Prima, però, si capiva “o sistema”. I capi erano ‘pesanti’. Importanti. Molti sono morti. Altri ‘sparuti’. O’ bastone è passato ai figli dei capi. Ma i figli non sempre sono migliori dei padri. Mai i padri lo riconoscono. Un tempo non si passava po’ sangue! Si eri bbuono, andavi avanti. E tutti si toglievano il cappello. Mo’ sti cacchi che fanno!? Da oggi vado in pensione. Cummann figlieme! E chi è figliete? Bum Bum. Incummencia a guerra. Fottìo di morti. Per che cosa? Perchè i capi se so’ vist’ i fatti loro e vogliono continuare a farlo. I cavalli buoni possono essere guidati da un ciuccio? Peppì, avete visto una carrozza di stalloni guidati da un ciuccio? Ccussì se perde “a Filippo e o panaro”! Perdono tutti. Perdiamo tutti. -
- E’ peggio di quello che pensavo! -
- Peppì, stai troppo appresso a Pasqualino. Stu fetente sai che ha fatto? Tra Vincenzo di Secondigliano e Michelino della Sanità ha costruito un impero. Azz! Miliardi, Peppì. S’è buttato nella droga. Con Ciro, quelli dei Cavatielli. Fa affari con mezzo mondo. Ovunque. Perchè ormai siamo davvero in tutte le parti del mondo. Sai come siamo, noi. Ci accomodiamo in ogni ambiente. Ci facciamo piccoli piccoli, prima. Poi ci mettiamo comodi. Trasimm e’ sicc e ci mettimm e’ chiatte. Droga. Tanta. Dal Perù, dal Brasile, dalla Bolivia. Hanno creato delle piccole Napoli. Ci sono latitanti ed affaristi. La portano qui e la danno a tutti. Intanto si fanno società, si fatica, s’investe. Prima si lavorava a Napoli. S’iniziava un capannone e n’attività nel giro di na’ jurnata. Meglio è fare i rappresentanti. Aprendo filiali in Oriente, nell’Europa dell’Est, pure in Cina. Si prende la roba da là e si porta ca’. D’altra parte ora gli affari si fanno ‘fora’, cu tutt quant! Anche da noi, a Napoli, si fanno stare albanesi, nigeriani, ucraini.. C’è posto per tutti. E’ un verminaio.Globalizzato, comm dice a’ Tivù! -
- I “Cavatielli”... –
Pensa a suo figlio Vito. Non lavorava con i Cavatielli? Si pente di non aver approfondito. Si pente di aver avuto paura di approfondire. Perchè non era stato avvisato?
Giovanni intuisce.
- Si, Peppì. Tuo figlio è bravo assai. Ormai è un capo. Dirige una delle squadre di Ciro. Che lavora per Pasquale. Ma o’ Pitone sta sbagliando. Lo dicono tutti. Sta facendo nu casino. Lui è stato bravo a combattere Vincenzo e Michele. Un poco con uno. Un poco con un altro. I camorristi, sai bene, hanno una radice. Vengono sempre da uno stesso ceppo. Poi crescendo, i gregari si fanno il loro gruppo. Stanno un poco con il vecchio padrone. Poi passano al nemico. Se va male, ripassano all’origine. Conviene a tutti. Ma tutti stanno con il coltello sempre pronto. Non si capisce più chi è amico e chi nemico. -
- Giua’, accussì si è sempre nemici. La pace, l’alleanza, sono solo una sosta. Tengono a’ niv int’ a sacca, che ti rimane? -
- Peppi, ora Napoli è in mano a banditelli, a lazzaroni. Sniffano tutto il giorno. I capi comprano schiere di scugnizzi di cui non sanno nemmeno il nome. Che buttano sulla strada, a fare quello che è cummannat’. Prima pure c’erano i pazzi! Con il sangue agli occhi! Ma ora non c’è regola. Non c’è rispetto della Bella Società Riformata. -
- Si, Giua’.-
Peppino è stordito. Pensa al figlio, mentre parla di altro.
- Al Pallonetto. A Chiaia. A Montecalvario. A Fuorigrotta. Ai Tribunali. Ovunque, ci conoscevamo tutti. Pure nella provincia... a Caserta... ovunque ci conoscevamo e riconoscevamo. Hai ragione! Ora non è così. Pure o’ Pitone assolda guaglioni, giovani, così non danno nell’occhio e non vanno in carcere. Li prende a grappoli. L’altro ieri ad uno di questi, che so’ tutto uguali, rapati come al manicomio, orecchini e ciondoli come femminielli, ho chiesto: “Ne’, tu a chi si’ figlio?” Era il figlio di un professionista! E che ci fa lì? Eh che è, la pazziella in mano e’ creature? Figli di gente che vuole essere considerata per bene, che vuole essere medico, avvocato o architetto, che vuole a’ mercedès ed i viaggi a Cuba con qualche zoccola, che sniffa o si fa le miscele da fesso che girano mo’. Ci piens? Ragazzi con il latte in bocca che si tolgono lo sfizio della camurria e domani te li trovi nei posti in cui sanno e giudicano tutti e tutto? -
- Eh sì! Un gruppo fa il lotto, un altro le rapine, un altro ancora gira per i negozi a fare estorsioni. Senza legami. Solo con la minaccia. Perchè se sgarrano l’accidono! Senza pensarci un momento! Ne ha fatti fuori o’ Pitone! -
- Che burdell ! Ma nuie, che simm for’ do’ munn, nuie addo’ ce mettimm? -
- Peppì è vero! Ma ho parlato con Don Mario. Lui ha detto: “fagli fare rumore a Napoli! Perchè mentre tutti corrono dietro a ste’ femminelle, noi pensiamo agli affari nostri! Chillo è veramente o’ mast! A Napoli ci sono troppi pulcini... pio pio...Fanno tanto rumore e poche uova. Anzi le uova, pure grandi e belle, s’e jettano in cuollo. Don Mario s’è pulita la zona. Chi sta con me, vive. Chi non vuole, so piglia o Pateterno. Senza rumore. Scumpar! Un miracolo! Oggi sei qui, domani... chissà! -
- Ho saputo...-
- Peppì, quello pensa agli affari. Agli appalti. Ha società qui, lì e pure in Paradiso. Si fida di quelli come noi. I teppistelli li tiene lontani. Come a Caserta. So’ camorristi seri, con le mani ed i piedi ovunque. Mani e piedi per bussare e portare doni. Oppure per dare un calcio al sedere e na pistolettata in pietto. Devi vedere come se lo corteggiano. Le estorsioni non sono finite! Ma ora si organizzano meglio ancora i lavori. Ce n’è per tutti. Soprattutto per noi. La Campania... Napoli... sono una fabbrica. Si costruisce, si raddoppia quello che c’è, si fanno parchi, aeroporti, porti e compagnia bella. Qui è la vera camorra. Nel mettere a tavolino tutti quanti, nel capire insieme ‘a ragione’, ‘o sistema’. -
- La droga, Giua’! La droga è la rovina. So’ diventati tutti uomini d’affari. Principi senza terra. Senza responsabilità. Sfruttano. Ma non c’è strategia. Una cosa è fare droga per i soldi ma gestire l’area, come fanno i buoni capizona di un tempo. Voli, ma sei legato ai tuoi doveri di camorrista. Altra, e terribile, è pensare di dominare il mondo con i soldi e con il solo mercato della droga. Ti trovi a gestire fantasmi. T’arricchisci, ma non c’è futuro. Diventano avidi. Capi e gregari. Così si fottono a vicenda. -
Si lasciano con una vaga promessa.
Vito. Suo figlio Vituccio.
Avrebbe dovuto inserirsi nei gruppi della provincia. In quei pochi clan cittadini che affluiscono nella camorra dell’hinterland. La vera camorra. Avrebbe dovuto assumerne l’atteggiamento. Crescere nell’habitat più sicuro. In cui si gestisce la droga. Ma soprattutto si controlla il territorio. Che diamine ! Napoli è un’officina. Un cantiere. Avrebbe potuto guadagnare e farsi una faccia pulita. Imprenditore. Con la camorra è assicurato lavoro e guadagno. Magari anche le conoscenze giuste.
Invece che fa? Sceglie i Cavatielli. Si mette contro il Pitone!?
Perchè i giovani si buttano nella tempesta? Hanno il destino di naufraghi nel petto.
E’ l’altra parte di Napoli. Di chi non ha vele dentro e s’aggrappa ai resti di un naufragio. Come un sopravvissuto. In questa condizione non c’è speranza.
Napoli guarda. Fremendo. Napoli, città d’arte e d’idee. Napoli che affonda nelle sue viscere profonde. Cunicoli bui da cui levitano mille contraddizioni (distanti dal sole di cartolina della speranza partenopea).
Luigi. E’ lui il volto sudato dell’altra napoletanità. Che s’oppone al destino. Vincendo la vergogna dell’opinione e del pregiudizio. Incarnando il senso di riscatto che disegna sulla pelle orditi di salsedine. Per una vita diversa.
Vituccio, invece, sbaglia. Peppino si sente la vita scorrere ebbra nel cuore, come un pianto silenzioso. Senza sceneggiata. Aveva sbagliato Vituccio. A Napoli aveva frequentato i contrabbandieri. Era naturale si fosse convertito al narcotraffico. La cosa non gli piace. Presagio di tragedia.
- Peppì, siete stato fuori, ieri! C’è chi dice che avete visto compare Giovanni! Pensate che fantasia! -
Pasquale è ingobbito. Sembra un ragno che silenziosamente tesse la sua umida trama.
- Certo che l’ho visto. Ed ho saputo che mio figlio Vito ha qualche problema con te. -
- Eh, figlio di cantero. Ha qualcosa di voi. E’ acido. Spuntuto! -
- Pascà, dovevi dirmelo. Non potevi fare cosa peggiore....-
- Passiamo alle minacce? Vieni con me. Sali...-
Peppino segue Pasquale nella sua auto blu.
Le vie tortuose frenano a stento la voglia di uccidere O’ Pitone.
Pasquale lo sa.
Lo sente.
- Ecco qua! Questa è Scarpia! Ogni angolo è do’ mmio! Ci sono giovanotti pronti con il telefonino a chiamare figlieme. Per ogni novità. Tra qualche secondo compare Sebastiano.... vedi... eccolo lì. Gli hanno detto che stavo entrando. Così lui è venuto a ricevermi. -
Sorride, Pasquale. Ed il ghigno è più tagliente di uno schiaffo.
- Se qualcuno venisse per farmi del male... sarebbe debitamente accolto. Qui comando io. Mi serve una casa? Per metterci uno dei miei..? Via l’inquilino.. me ne frego chi sia... Dalle scale o dal balcone! Con le gambe proprie o accompagnato da Ciccio O’ Forte, chillu schiattamuort ! Chi ha pietà degli altri, a’ carne sua se la mangiano i cani. -
Delirio d’onnipotenza.
- Che vuoi Pascà? -
- Che voglio? Tutto voglio! -
Il tono si fa amaro. Come quando il sinuoso corso di fiume diventa ripida cascata.
- Tutto ! Ho dato il mio peso a figlieme ! A qualcuno non è andato giù il boccone. E ammuina ! Voglio eliminare tutti quei fetenti che si credono insostituibili. Che mi stanno appresso come dietro la bara, per assettarsi al mio posto. Primo fra tutti o’ Cavatiello. E tu che fai ? Ti vedi con Giovanni. Quello, con Carmine, Salvatore e Gigino, mi vogliono fregare. Dietro dietro. Sotto sotto. Eh che so’ fesso? E tu con chi vai? Con loro ? Non ti ho mantenuto la famiglia, quand’eri un morto di fame in galera? Chi ha fatto studiare Luigino tuo caro? E chi ha sistemato quel figlio di cane di Vito, che se fosse rimasto ca’ avrebbe fatto o’ muort e famm! Si crede pure sta melanzana ! -
- Pascà ! Sei pazzo! Ma lo vedi dove stai? Le persone assomigliano ai luoghi che abitano. Qui, tra questi alveari senza luce, qui hai fatto un lager! Tu sei un povero pazzo! T’accatti a tutti! Ma è robba da’ toia ? Appena ti giri ti fottono. E ti fotteranno. Questa non è camorra. Siete banditi. Lazzaroni. Non fate crescere l’erba, qui. Nulla. Io ho ucciso. Troppo, forse. Ma chilli so’ muorti. In questo posto, piangono i vivi ! -
- Peppì, non ho costruito io sta’ fetenzia. Sto’ piatto mi hanno servito, sto’ piatto mi mangio. Tutto. Mo’ voglio sape’ aro’ sta’ o’ Cavatiello, a ro’ sta’ tuo figlio ! -
- Scurdat’ello ! La tua, è malavita senza sole. Non è Napoli. Non è camorra. Tu si’ n’omm e nient! Nu’ cest’ e’ maruzze: schiumm, fetenzia e corna! -
Nella distesa di cemento, in cui svettano inutili feticci della modernità, Peppino perde la vita.
Suo figlio Vito, forse, lo vendicherà. Nel giro inutile di morti, di cui altri tengono le fila invisibili. L’onnipotente Pasquale sarà finito, quando avrà perso il suo sangue dopo continue e non mortali ferite. Dissanguato. Facile preda di avvoltoi. Ce ne sono tanti, dalle sue parti.
Nel petto di Peppino le pallottole liberano il soffio del maestrale.
Niente di buono. Il “frieno”, la “ Bella Società Riformata”, omicidi, il carcere, i ricordi del suo imprendibile motoscafo blu.
C’è chi parla di scontro di camorra. Di camorre.
Peppino direbbe che è morto in un agguato di banditi.
La camorra si sarebbe vendicata. Presto o tardi.
Perchè il tempo del banditismo è proficuo ma breve.
Il tempo della camorra è lento come la marea. Però non lascia residui nella mortizza.
Tornerà Luigino a Napoli. Dopo. Tanto dopo.
Con le sue mani di professionista. Mani pulite di medico, chissà. O d’avvocato. Non importa. Rileva solo che quelle mani non saranno messe nelle tasche proprie o altrui. Saranno le ali di una nuova Napoli.


da www.tgcom.it



© AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA